Dopo tante ore di bicicletta per raggiungerli, poteva accadere che il pianoforte della scuola o quello dell’orchestra, peraltro strumenti verticali assai modesti, non fossero disponibili. E allora lacrime sul volto della pianista bambina dalle mani impazienti. Nella Cina degli anni Ottanta nessuno poteva permettersi un pianoforte, costosissimo simbolo della scellerata cultura dell’Ovest, e così la madre di Jin Ju disegnò per la figlia una tastiera sul tavolo della cucina.
“Studiavo e immaginavo proprio il suono del piano - spiega la musicista - Ho avuto fortuna perché, con gli inizi difficili, ho imparato a non dare mai niente per scontato. Provavo un ‘amore impossibile’ e quindi molto vivo. Papà, musicologo specializzato nell’opera occidentale, è stato il mio primo maestro, mamma mi ha seguita a lungo obbligandomi, ed è una parola morbida, alla pratica. Ma condividevo la sua determinazione e stavo al piano anche quattro ore, senza mai smettere. Adesso che quasi ogni famiglia cinese vuol dimostrare di poter comprare un pianoforte, come fosse un’automobile, si è persa la preziosità. Io insegno e vedo bambini che fanno musica con odio, ed è un peccato”.
Intervistata l’8 marzo a Firenze, fresco il ricordo di un concerto al Quirinale, applaudito con calore dal presidente Mattarella, Jin Ju accenna alle mimose, racconta che nel suo Paese non ci sono e se pensa al fiore dell’infanzia, si disegnano nella sua memoria la semplicità e il candore della calla, favorita di sua madre, non la sontuosa peonia, vanto di Cina.
I tragitti estenuanti per cercare un pianoforte finirono nel 1985, quando Jin Ju aveva nove anni e, grazie ai risparmi dei genitori, del nonno paterno e della nonna materna, fu acquistato un verticale. “Sono nata a Shanghai, ma a sette anni mi sono trasferita a Pechino con mio padre che aveva ricevuto un importante incarico ufficiale e poteva portare con sé solo un membro della famiglia. Mia madre rimase con mio fratello, attualmente direttore d’orchestra a Nanchino, e ci siamo ricongiunti dopo tre anni. Oggi va molto meglio, ma a quell’epoca il sistema stabiliva che se eri nato in una città dovevi rimanerci per sempre. L’unica possibilità era fare uno scambio: due cittadini di Shanghai che volevano andare a Pechino e viceversa”.
Nel ’95 il governo la scelse per partecipare a un concorso internazionale, ma la sfortuna era in agguato…
Sono stata investita da un guidatore ubriaco e il braccio sinistro si è rotto in mille pezzi. Lui non è scappato e mi ha portato nell’ospedale migliore. Siccome in quel periodo suonavo con diversi ensemble in alberghi di lusso, come faceva anche Brahms (sorride n.d.r.), la mattina successiva ho avvertito un collega e gli ho chiesto di andare da mia madre la quale avrebbe dovuto firmare la liberatoria per l’operazione. I chirurghi volevano tagliare dalla spalla al gomito, mettere tanti chiodi, peraltro senza garantire la guarigione, e mamma si rifiutò: ‘Mia figlia è una pianista, è troppo rischioso, e poi portare una cicatrice così è inaccettabile’. Il pericolo era perdere il braccio. Fortuna dentro la sfortuna, fu trovato un dottore che mi aggiustò in maniera tradizionale, manipolando. Il dottor Yu, aiutato da due uomini forzuti. Senza morfina, senza rhum, ma ho dimenticato la sofferenza, mi sembra di parlare di dieci esistenze fa, so che il corpo di fronte all’estremo dolore produce sostanze per ridurlo. Poi per tre mesi ho bevuto un’autentica schifezza, a base di cavallette, erbette varie. Come in un incantesimo da strega.
Una sintesi sulla Cina?
Essere un cinese significa avere un senso di sacrificio e di disciplina molto, molto forte. È una qualità, mi dispiace dirlo, della quale sento la mancanza in altre società. In questi giorni sono giù di morale per le notizie da Wuhan, leggo storie orribili di famiglie intere sparite per il virus, ma, anche se non saprei citare esattamente la frase, ricordo che Henry Kissinger ha scritto: è impossibile distruggere la Cina.
Che cosa le accade interiormente, seduta al pianoforte?
A una settimana dalla tragedia, dissi a mia madre che volevo il mio pianoforte perché ero piena di nostalgia. Tutti pensavano che la mia vita pianistica fosse finita e perciò mi sentivo una condannata a morte. Rientrata a casa, ho visto il pianoforte, piccino piccino, l’ho aperto, ho suonato con la mano destra una corda di do maggiore e mi è sembrata musica più bella del mondo, ho provato un senso di verità. La musica è sempre dentro di me e il pianoforte è il mio prolungamento, non uno strumento. Quando suono sono la musica stessa. Quel giorno ho sentito una voce interiore che mi diceva: ‘Riuscirò a superare tutto questo e farò la pianista’. Ho pregato e ho fatto un ‘patto’ con Dio: se guarisci il mio braccio, suonerò solo per te. Nel 2009 mi sono esibita alla Sala Nervi per papa Benedetto XVI e ho avuto la conferma di questo ‘patto’: avevo cominciato a studiare senza avere un piano e sul quel palcoscenico ce n’erano sette, meravigliosi: dal fortepiano a un gran coda Steinway. Intorno a me, da un lato una scultura enorme raffigurante la Resurrezione, dall’altro Ratzinger e 5500 persone.
Si capisce che Jin Ju è una donna grata.
Sì, se ho camminato fin qui devo ringraziare tantissime persone e cerco sempre di essere più sincera possibile: la prima è mamma che mi ha insegnato la disciplina, il secondo è il dottore che mi ha salvato il braccio, la terza è il maestro Yang Jun con il quale ho studiato quattordici anni. Con lui ho imparato ad amare la musica perché al principio amavo lo strumento, ma in modo molto fisico, come una macchinetta da guerra, infatti gli insegnanti pensavano che avessi grande tecnica ma che non fossi musicale: il maestro mi ha guidata frase dopo frase e una volta, ero sedicenne, alla fine della Terza sonata di Chopin, è rimasto fermo in silenzio e io ho avuto paura: “Oddio che cosa ho fatto, non mi parla più, lui che sorride anche se suono come una bestia”. Passati cinque minuti, un’eternità di silenzio, mi ha detto e lo ricorderò per la vita: “Finalmente nella tua esibizione ho sentito amore”. E devo ringraziare mio marito Stefano Fiuzzi che mi insegnato la musica con intelligenza e sapienza e mi ha fatto conoscere il mondo meraviglioso dell’Accademia del fortepiano Bartolomeo Cristofori. Lui dice: ‘Non ti ho insegnato niente, avevi già tutto dentro di te’. Ed è la grandezza di questo uomo. Una delle grandezze. Prima di conoscerlo, e faccio dell’autoironia, avevo sempre creduto che il pianoforte fosse nato come Steinway. Stefano mi ha accompagnato a ritroso e ho raggiunto le origini, ho colto l’idea di Cristofori, inventore del fortepiano, che volle creare uno strumento diverso dal clavicembalo, uno strumento cantabile, più comunicativo, più umano. Un privilegio immenso essere pianista e avere la possibilità di suonare Mozart sugli strumenti originali, ascoltare la musica come la ascoltava lui.
La musica arriva a chiunque. È d’accordo con questa affermazione?
La musica parla a ognuno, con un linguaggio diretto: non contano nazionalità, educazione e lauree. Naturalmente dipende da chi suona e da che cosa suona. Io stessa se leggo un programma tutto dedicato a Schönberg forse ci penso un po’ ad andare al concerto, se vedo la Quinta sinfonia di Beethoven oppure Čajkovskij mi lancio. Quanto all’interprete: la sincerità arriva, l’amore arriva. E l’artista deve essere generoso. Io ho ricevuto così tanto e so che più dai agli altri più riceverai. È il segreto della vita, un processo senza fine. Se si pensa a Gesù con i pani e i pesci. Certo… lui è Dio!
La scelta di abitare a Firenze?
Nel ‘99 ho vinto una borsa di studio dell’Istituto di cultura italiano e ho trascorso un mese a Siena, all’Accademia Chigiana, studiando con Michele Campanella. Non ero mai stata lontana da casa per così tanto tempo, un mese da sola, senza parlare l’italiano e l’inglese pochino. Una sera mi sono seduta in piazza del Campo, ho mangiato il gelato, guardando i ragazzi che si abbracciavano e baciavano. Tutto era così diverso dalla Cina. E ho sentito una voce dentro di me, lo so che sento sempre queste voci, ma giuro che è accaduto: “Tu passerai tanto tempo in questo Paese.” Tornata in Cina, mi sentivo rinnovata. Nel 2001 ho conosciuto Stefano Fiuzzi a Salisburgo, dopo un concerto, ci siamo innamorati subito, fuochi d’artificio, e sono venuta a Firenze. Per una pianista vivere a Firenze dove il pianoforte è nato, dove tutto è nato, è molto stimolante.
Un compositore prediletto? Se ci può essere.
In questo momento è Beethoven, ma ovviamente la mia lista è lunga. Ho suonato anche il Pierrot lunaire di Schönberg, una cosa “infernale”. Eppure mi è piaciuto, una grande esperienza.
Per futilità: sul palco conta un vestito sfizioso?
Certo, fa parte dello spettacolo, e soprattutto nel mondo di oggi l’immagine è fondamentale. Se una è bella, è già brava! Prediligo la sensualità orientale, non esibita: per me conta più la raffinatezza dei centimetri di pelle scoperta. Il tacco dodici lo metto, l’abito con lo spacco no.