Io non ho fatto nessuna rivoluzione. Io faccio parte della rivoluzione. Sono uno strumento sperimentale scelto al fine di vedere se, effettivamente, è possibile creare nuovo valore e valorizzare meglio i grandi musei italiani.
(James Bradburne, Franco Russoli, Senza utopia non si fa realtà. Scritti sul Museo)
Quando un quadro viene incorporato la collezione lo sottrae sia ad un'altra possibile serie, sia al resto del mondo. La relazione contestuale, sottesa alla collezione, non diventa mai pienamente cosciente se non quando si muta in relazione intertestuale.
(Victor Stoichita, L’invenzione del quadro)
Musei come la Pinacoteca di Brera sono osservatori globali della società della cultura e dell’arte quanto laboratori sperimentali che da una parte verificano scenari e politiche culturali e dall’altro testimoniano fasi storiche e antropologiche. Il Museo oggi, come ha più volte sottolineato Paolo Biscottini, resta forse l’unico territorio sacrale e iniziatico in una società dis-realizzata e massivamente virtualizzata. Uno spazio dove il ritmo esistenziale e percettivo muta. Uno spazio sociale dove il silenzio, la riflessione, l’approfondimento e la funzione contemplativa possono miracolosamente avere ancora qualche possibilità di vita. L'ultimo spazio fisico dove socialità e noeticità si possono incrociare e possono convivere dentro un'immagine non più solo usata e subita passivamente.
L'ultima innovazione allestitiva del creativo direttore James Bradburne offre su questo tema più occasioni di riflessione sia dal punto di vista concettuale-estetico che socio-linguistico e museologico. Bradburne si è sempre mosso, fin dal 2015, creando e perseguendo uno scenario museologico innovativo e libero da rigidi schematismi, cogliendo, come lo colse Roberto Cotroneo, quelle dimensionalità semantiche che non sono riduzionabili a settorialità limitanti.
Sembra che gli spazi espositivi possano essere vissuti solo in due modi: da esperti o in modo didattico, attraverso le guide, i dispositivi elettronici che spiegano quello che hai di fronte. Ma c’è un gran numero di persone che sta in mezzo a queste due grandi categorie e percepisce, ricorda, si porta addosso quello che ha visto, anche su di un divanetto… È da questi sguardi, inconsapevoli e ricettivi, che si comprende cosa resta del precipitato della storia quando si fa bellezza.
(Roberto Cotroneo, Genius loci. Nel teatro dell’arte)
Bradburne ha sempre parlato a questo grande pubblico, non settorializzato, né etichettabile, che, forse, coglie le anime di un grande museo con più intensità, freschezza e vitalità. Quando sono tornato a Brera, dopo circa un anno di assenza, mi ha emozionato nel profondo incontrare di nuovo i conosciuti saloni napoleonici, cogliendoli in una loro rinnovata presenzialità, più vivace e reattiva. Cos’era cambiato? Finalmente erano state armonizzate le opere pittoriche a livello dimensionale e logistico, con una piena attenzione al prezioso e delicato rapporto dei dipinti tra di loro e con la propria spazialità espositiva. Finalmente il coraggio di scelte selettive e radicali, come il comodato della gigantesca Vittoria dei Carnutesi sui Normanni del Padovanino, che oscurava lo stupendo Tintoretto del Ritrovamento del corpo di San Marco, destabilizzando la fruizione di tutte le altre opere.
Gradevoli e incantevoli poi le sedute lignee “a triclinio” che permettono un relax impegnato, un otium appassionato e giocoso di chi può così immergersi nello spazio museale con tutto il proprio corpo, anche tornando a disegnare dal vero i dipinti. Ma un altro fattore mi ha colto impreparato e mi ha spiazzato: al centro della sala VII e IX come pure all’ingresso della Pinacoteca ecco la nuova meraviglia, il caso straordinario, l’innovazione quale processo dialettico ed ermeneutico: agili e trasparenti scaffalature che espongono, su entrambi i lati, selezionate opere della collezione novecentesca della Pinacoteca di Brera. La pittura e la scultura del miglior Novecento (Martini, Modigliani, Carrà, Severini, e molti altri) al centro dell’arte umanistica e manieristica. Un felice e “calmo caos” che sorprende e non può lasciare indifferente nessuno. Il contrasto evidente di percezione estetica e di spazialità, la verticalità leggera e trasparente di queste altre temporanee (purtroppo) pareti-paratie artistiche permette una trasformazione dei saloni più solenni e monumentali della Pinacoteca in spazi più umani e più vivibili. Saloni che così perdono la loro strutturale fredda rigidità per vestirsi di un valore aggiunto affettivo, vivibile, naturalmente interattivo. Senza sovrastrutture, senza ideologie o recite o finzioni la scelta di Bradburne mi sembra vincente e veramente “russoliana”.
Con questa coraggiosa e sapiente operazione il Direttore di Brera è riuscito nel difficilissimo compito di rinnovare e attualizzare l’etica-estetica filosofica di Franco Russoli che amava i contrasti stimolanti, l’idea del Museo quale cantiere e laboratorio aperto, processuale, la partecipazione visiva e culturale ad una progettualità sorgiva, intima, dove il Museo mettesse a nudo e aprisse al grande pubblico le sue tendenze e tensioni più profonde e più recenti, colte nel loro sorgere. Innovazione radicale che spezza le rigidità “mentali” ancora persistenti. Ascoltiamo Russoli, che sembra seguire il migliore Panofsky.
Bisogna che il responsabile scientifico del museo sappia difendersi dalla “deformazione professionale” e portare lo sguardo al di là del proprio dominio di cultura settoriale, ricordandosi che ogni caso od opera, ogni documento della storia, della scienza, dell’arte, consente ed esige le più diverse forme di approccio e di rapporto, di lettera e di interpretazione.
(Franco Russoli, Scritti sul museo)
La “ri-combinazione” allestitiva di Bradburne va con forza in questa direzione, affratellando epoche e stili differenti in una visione panottica e sinestetica stimolante. Sciogliere la separazione fra “deposito” e museo realizza uno spazio nuovo, originale, sperimentale che permette di percepire la Pinacoteca quale luogo vivo e vivente, imprevedibile, interpellante il visitatore nella sua sensibilità e singolarità sociale.
Un problema gestionale e strutturale che riguarda Palazzo Citterio è stata occasione che ha permesso a Bradburne di trasformare il disagio in opportunità di rinnovamento dell’idea di Museo e del suo rapporto con tutto il suo pubblico. Operazione tanto semplice quanto integrale e rinfrescante. Il nodo gordiano del rapporto fra Novecento e quattro secoli di arte, fra sede centrale e la nuova sede di Palazzo Citterio è stato risolto creativamente, mediante fra esigenze sociali e comunicative del Museo, che deve tenere viva la partecipazione del pubblico a tutte le sue collezioni, ed esigenze di sperimentazione e rinnovamento della spazialità museale. Ora tutta la ricchezza qualitativa e diacronica di Brera può essere colta in immediatezza, in medias res, con uno sguardo che facilmente diventa nuovo. Una scelta logistica che per sua natura si pone quale scelta anche di politica culturale, democratica. Il tema dello “spazio museale” è un tema centrale, mentalmente e massivamente prima ancora che museologicamente. Lo ha capito come pochi Federico Ferrari.
Il compito di un museologo è quello oggi di confrontarsi con il problema di uno spazio singolare, di uno spazio che si deve considerare come una singolarità, cioè uno spazio dove le regole allestitive classiche degenerano, uno spazio complesso al punto tale da mettere in crisi l’idea di una visione unica.
(La cesura dell’immagine, Contemporary Brera)
Brera ha dimostrato di saper cambiare e reagire, rigenerando proprio il senso estetico e noetico dello spazio artistico-museale. Ecco il Museo e il suo stile che si offre nel suo prezioso ruolo di facilitatore sociale, di educatore che deve “iniziare” a nuovi sguardi un pubblico spesso assuefatto e anestetizzato. Parlare con lo spazio, con il silenzio eloquente di un nuovo allestimento semplice, nudo, implicitamente poetico, di quella performatività essenziale e profonda che è la radice di ogni poiesis.
Le nuove scaffalature, infatti, generano di fatto un dinamismo relazionale e iconologico interno, intimo, immediato, che valorizza l’unicità qualitativa di entrambe le collezioni, sia delle antiche che di quelle novecentesche. Un rispecchiamento che impedisce, o almeno ne riduce sensibilmente il rischio, l’abuso visivo, l’abitudine percettiva, il logoramento psicofisico nella fruizione che la visita di una Pinacoteca così ricca come quella di Brera induce in un pubblico di massa, poco avvezzo a tale così massiva ricchezza e saturazione visiva.
Lo “spezzare” il continuum della "qualità indifferenziata", data dalla saturazione visiva di Brera, che concentra in poco spazio una qualità altissima, tramite le scaffalature artistiche novecentesche induce il visitatore a riposizionarsi esso stesso, a non dare nulla per scontato. Compare una logica posizionale, scacchistica, che provoca e stimola il fruitore riducendo così il rischio della "visita passeggiata" e del riflesso "arredativo" della collezione. Una mossa "del cavallo", che salta le mediazioni cristallizzate introducendo nuove relazionalità.
Un Museo che "gioca" con le sue opere è un museo vivo e autocosciente che coglie in profondità una delle più decisive essenze della grande arte: il porsi quale grammatica universale, che va assunta e declinata, parlata. Tutti i musei sono "camaleonti", massimamente Brera. Ogni museo significativo cioè si pone nel tempo quale specchio vivo, sistema e processo dinamico che si "muove" in osmosi con le dinamiche sociali e culturali esterne. Una sorta di sismografo di massa che reagisce in tempo reale alle fluttuazioni di una società sempre più emotiva e cangiante. L'idea audace e radicale di Bradburne, nella sua semplicità e immediatezza opera una metanoia museologica avvicinandosi ad un "museo fenice", che rinasce dalle difficoltà esterne, indicando esso stesso la direzione di nuovi scenari, non più eterodiretti.
La lezione etica ed estetica del "fenomeno Bradburne" è anche questa, cioè il porre al centro il museo quale primo laboratorio, prima avanguardia sociale, superando d'un balzo in una rivoluzione copernicana le eccessive preoccupazioni di una certa retorica della didattica e della museologia che insegue affannosamente tendenze e mode effimere e cangianti. L'errore di prospettiva di certa "politologia museistica" sembra infatti simile all'errore di molta pastorale ecclesiale. Nell'ansia di aumentare i visitatori nei musei, o i fedeli nelle Chiese, nell'inquietudine di "farsi notare" all'interno del magmatico villaggio globale, questa mentalità passiva e antiquata, incapace di una visione d'insieme strategica e organica, mutua dal sociale tentativi, frammentarietà, esperienze dispersive, come se il museo fosse un corpo nudo da vestire di un vestito che ci si aspetta di trovare già su misura fuori dal museo. Ma il museo è già società, è già sociale, non è un'isola del passato, ed è al contrario la società che si aspetta di essere stupita, risvegliata, indirizzata, "iniziata" dal Museo. Bradburne ha spezzato questa "commedia degli equivoci" dimostrando come Brera avesse già tutto al suo interno per poter sognare se stessa nel futuro. Possiamo discutere e opinare a lungo sui risultati della politica culturale della Nuova Brera Museo Autonomo ma non possiamo non apprezzare questo spirito pragmatico e creativo, libero e originale/originario che Bradburne ha portato come un vento di aria pulita e fresca dentro le sale di uno dei Musei più importanti al mondo.
Questa visione vivace e antiretorica, che assume il museo nella sua integralità di dimensioni e linguaggi permette di cogliere e di esprimere la contemporaneità dell'arte di ogni tempo, incrociandola con uno dei carismi costanti del pop e della società di massa: la "simultanietà dei tempi", cioè il vivere oggi socialmente in quel "tempo assoluto" che avevano profetizzato i Futuristi nel loro Manifesto.
Se nel suo primo mandato (2015-2019) il direttore della Nuova Brera si era concentrato nel colmare un gap di ritardo storico a livello allestitivo, specie negli aspetti tecnici-scenici e percettivi, oggi la politica culturale braidense appare proiettata nel futuro pienamente con lo stesso spirito di Franco Russoli, che sono certo oggi sarebbe felice di vedere la sua Brera si nuovo al centro della discussione culturale e della sperimentazione del futuribile. Per questo l'esporre i capolavori di Brera del Novecento al centro delle sale rinascimentali e cinquecentesche assume un valore simbolico, un valore pro-attivo e ultrattivo che va molto oltre la saggezza pratica della soluzione di questioni logistico-operative. Significa anche fare del Novecento una categoria filosofica, una forma universale che capta la dimensione sperimentale e avanguardistica dell'arte di tutti tempi oltre a valorizzare il museo quale laboratorio di progettualità. La precisione funzionale delle nuove scaffalature e la loro sobria leggerezza a loro volta assumono un senso simbolico, un'aura di una nuova sacralità laica.
Scaffalature precarie e affascinanti, che ci permettono di vedere fisicamente l'idea di "un’arte in viaggio" e di un’arte come viaggio. Precarie come la nostra esistenza e proprio per questo più intense nel semplice incanto. La "povertà" dell'allestimento certamente è dettata dall'esigenza di minimizzare l'impatto spaziale ma reca implicitamente un'altra lezione etico-estetica: il poter apprezzare la dimensione di singolarità assoluta di ogni dipinto dentro uno sguardo nudo, immediato, liberato da sovrastrutture. Il ri-combinare le serialità museali rimette in vita le collezioni, ri-animandole, e si rivela operazione che rigenera il museo quale contesto e quale processo sempre iper-testuale.
Sfondare la quarta parete, liberarsi da ogni ingessatura passiva sia percettivo-fruitiva che progettuale: siamo di fronte alla grande lezione anglosassone (e transculturale) di Bradburne. Ecco allora la matrice sorgiva dell'arte, corporale e narrativa. Ecco l'arte che coinvolge nel suo auto-riconoscimento. Ecco l'arte al centro fisico di ogni possibile sguardo. L'esperienza assume toni intimi e ritmi più freschi e potenti. Benvenuti nel futuro.