Come è noto, una delle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale (AI) su cui si sta investendo molto nel pianeta, è il riconoscimento facciale. Potenti algoritmi, in grado di autoapprendere (machine learning), sono in grado di identificare, anche all’interno di grandi folle, dei soggetti precedentemente ‘schedati’.
È questo il versante più marcatamente orientato allo sviluppo di sistemi di controllo globale. In questi giorni, ad esempio, profittando della ‘emergenza’ legata alla diffusione del cosiddetto ‘Coronavirus’, nella città di Mosca è stato imposto un sistema di quarantena che sfrutta le potenzialità della facial recognition: i casi sospetti di possibile contagio (non quindi quelli accertati) sono tenuti alla ‘reclusione domiciliare’, e quanti violano la consegna verranno identificati - attraverso un pervasivo sistema di videosorveglianza - proprio grazie agli algoritmi di riconoscimento facciale.
Su un altro versante, ormai decisamente maturo, l’utilizzo dell’AI è finalizzato alla profilazione di sempre più larghi settori della popolazione, al fine di determinarne la (potenziale) ‘ricettività’ a messaggi di promozione commerciale.
Nel primo caso, quindi, l’Intelligenza Artificiale è utilizzata per identificare (nella massa) individui specifici, controllandone l’attività al fine di sanzionarla qualora risulti ‘illecita’. In buona sostanza, si tratta di una estensione virtualmente illimitata dell’idea di prigione, quale descritta da Michel Foucault nel suo Sorvegliare e punire.
Nel secondo caso, viceversa, l’AI è utilizzata per classificare la massa, ovverossia per suddividerla in ‘classi’ - laddove però la ‘classe’ non è quella di marxiana memoria, l’insieme di coloro che hanno un interesse comune, ma è mera (ed anonima) ‘categoria’, un insieme di soggetti che hanno ‘interessi’ in comune, siano essi di natura estetica, culturale o semplicemente consumistica.
In entrambe i casi, siamo però di fronte alla vera questione etica che ci pone l’era algoritmica; e che non è la fantascientifica idea del sopravvento delle ‘macchine’ sull’uomo, quanto piuttosto lo straordinario potere che il controllo delle ‘macchine’ conferisce ad un numero ristretto di umani su tutti gli altri.
Ovviamente, non avrebbe alcun senso immaginare una ‘rivolta luddista’ del terzo millennio. Oltretutto, né le ‘macchine’, né l’Intelligenza Artificiale, sono di per sé strumenti di dominio. Al contrario, sono strumenti che, diversamente utilizzati, possono portare grandissimi benefici all’umanità.
La prima cosa, dunque, è raggiungere la consapevolezza che attualmente lo sviluppo della ricerca volge prevalentemente in una direzione negativa, così come che la risposta non può che essere mettere in atto un uso ‘altro’ degli strumenti della tecnica.
Per fare ciò, è probabilmente necessario fare un passo indietro culturale.
Rivedere l’approccio passivo rispetto alla tecnologia, è la premessa non solo per un uso consapevole, ma anche per aprirsi alla possibilità di un uso differente.
Ciò che abbiamo di fronte, è una possibile età di ‘oscurantismo digitale’, a cui è perciò necessario opporre un nuovo ‘illuminismo’. Che significa innanzitutto recuperare la nostra precipua dimensione umana, che è l’essere un ‘animale sociale’. Socialità che - ça va sans dire - non può essere confinata ai social network, ormai giganteschi strumenti per collazionare dati, al fine di quella classificazione di cui si diceva.
Da questo punto di vista, il nostro Paese ha ancora un vantaggio culturale e ‘strutturale’. La collocazione geografica, la natura orografica del territorio, lo sviluppo storico, hanno fatto sì che lo spazio pubblico, come luogo di incontro sociale, sia ancora presente nella nostra cultura. Ed inoltre, il fatto che siano in fondo poche le grandi aree metropolitane, mentre persiste un forte tessuto di città piccole e medie (vi faceva recentemente riferimento l’ex-ministro dei Beni Culturali Massimo Bray), offre la possibilità anche ‘pratica’ di rivitalizzare la natura sociale umana.
Passare da una condizione di soggetti anonimi e passivi, il cui valore sta nell’essere produttori di dati e consumatori di beni, ad una condizione di soggetti attivi e sociali, il cui valore sta nella ricchezza delle relazioni nonché nell’essere prosumer (di dati), è quindi la direzione su cui re-orientare lo sviluppo sociale ed umano.
Per dirla con uno slogan, dal riconoscimento algoritmico al ri-conoscersi umano. Laddove il termine umano indica non solo la natura dei soggetti interessati, ma ancor prima quella della relazione necessaria, mentre il riconoscersi afferisce al conoscersi nuovamente, alla reciprocità della relazione, alla affettività.
Siamo ormai pienamente in una data civilization, e dobbiamo quindi imparare a viverla attivamente, senza rassegnarci ad essere un ‘giacimento’ da cui vengono estratti dati (a loro volta utilizzati per mantenerci nel ruolo passivo di cittadini-consumatori). Possiamo rivendicare la titolarità sui dati estratti dalla nostra vita, e possiamo farlo, intanto, imparando ad usarli in un modo altro, ludico, artistico, culturale, e sì, anche ‘funzionale’ ma ai nostri bisogni e desideri.
Se li usiamo per ri-costruire relazioni.