La grande musica è inesauribile. Nella musica, come nella vita, non esistono confini.
(Claudio Abbado)
Paolo Fresu è un musicista straordinario che ha molto da dire e non esclusivamente attraverso la musica.
Poiché nulla racconta la musica meglio dell’ascolto, vi rimando all’ascolto dei suoi CD (che per la cronaca sono diverse centinaia) e vi raccomando caldamente di regalarvi al più presto la bellissima esperienza di un suo concerto dal vivo.
Con questa chiacchierata voglio invece farvi partecipi di alcuni suoi pensieri e approfondimenti su ciò che la musica significa e comporta a livello profondo per chiunque ne faccia esperienza, e sul ruolo dell’arte e sul ruolo della musica all’interno della nostra società.
In una intervista che hai rilasciato a La Repubblica hai detto che: "Il compito dell’artista è agire sulla società, costruirla, farsi architetto o forse anche semplice manovale". Cosa ti ha fatto sentire l’esigenza e la responsabilità di agire nella direzione di un cambiamento possibile?
Ho scoperto la musica da piccolo e vengo da una famiglia di gente umile. Quello che ho me lo sono guadagnato da solo giorno dopo giorno e conosco il valore delle cose oltre a quello della dignità, dell’uguaglianza e del rispetto del prossimo.
La musica è l’epicentro delle mie scoperte e mi ha dato la possibilità di viaggiare e di conoscere il mondo e gli altri, scoprendo che non siamo né migliori né peggiori ma semplicemente uguali e che abbiamo molto da dare come abbiamo molto da ricevere e da apprendere.
La musica è sempre stata per me sinonimo di festa e di socialità perché capace di aggregare le persone. Negli anni questo principio sociale della musica è diventato ancora più chiaro e mi ha fatto comprendere non solo il valore della musica stessa ma il ruolo prepotentemente comunicativo che può avere nella società.
Quando ho scelto di suonare jazz è perché, all’origine, questa era la musica dei perdenti e delle rivoluzioni sociali. Pur amando tutta la musica, questa caratteristica è stata fondamentale per portarmi verso quel mondo e non un altro e per potermi sentire non solo vivo ma partecipe di un percorso comune.
È una metafora straordinaria per i nostri giovani laddove questi, a volte, si sentono non fondamentali in seno alla nostra società. Sentirsi parte del percorso comune è la spinta più importante che possano ricevere per proseguire nel proprio cammino con una iniezione di fiducia.
Dopo oltre trent’anni di musica e di viaggi non posso fare musica solo per un fatto estetico. L’arte fine a se stessa è un mero esercizio di stile, che almeno in me lascia un senso di vuoto. È importante che quel linguaggio che mi ha cambiato la vita e che mi ha arricchito enormemente sia messo nel crocevia del mondo. Non solo il mio ma anche quello degli altri.
Tutto ciò che noi si vorrebbe, tutto ciò che noi si sogna e tutto ciò a cui noi si ambirebbe - compreso cambiare il mondo in meglio - è possibile anche grazie alla musica e a ciò che le ruota intorno. Sono convinto che tutti gli artisti debbano usare il proprio strumento creativo per migliorare se stessi e il mondo. Convinto che la musica non potrà risolvere tutti i problemi ma potrà contribuire, con la sua forza comunicativa ed emozionale, a smuovere le coscienze e a migliorarci, a promuovere un possibile cambiamento.
Hai accennato a “quello che ruota attorno alla musica”: questo qualcosa è un universo complesso. Per chi fa musica include un elemento fondamentale che è quello dell’ascolto reciproco e della condivisione. Credo che questo sia un aspetto importantissimo: il fatto che la possibilità di creare qualcosa di unico e irripetibile si realizza tramite la consapevolezza di essere parte di un tutto, un tutto che diventa superiore alla somma delle sue parti.
Mantenere la forza della propria individualità ma allo stesso tempo mettersi a servizio degli altri è una definizione possibile di quello che chiamiamo l’interplay all’interno di un gruppo. Un po’ un gioco di squadra ad alto livello, insomma, in cui la possibilità di creare qualcosa di prezioso e vero dipende dalla capacità di abbandonare il proprio ego per perseguire qualcosa di infinitamente più importante. Non penso solo allo sport ma anche a ciò che accade per esempio in una sala operatoria.
L’interplay è una delle cose più difficili in musica. Una delle poche, assieme allo swing, che non si possono apprendere nei libri o dai tutorial della rete. Piuttosto si apprende nella quotidiana palestra del suonare con gli altri e del praticare possibilmente con persone più brave di noi. Perché fa parte di quel bagaglio di esperienze che ci connettono con gli altri.
La musica è un linguaggio di comunicazione e dunque è necessario dialogare. Suonare senza suonarsi addosso… rispettare e ponderare i silenzi che lasciano spazio agli altri… entrare in un discorso attraverso l’ascolto di se stessi e del prossimo.
Fare musica è difficile perché bisogna essere molto concentrati su di se prima e poi sugli altri. Due cose difficili da fare contemporaneamente soprattutto se non si ha sufficiente esperienza. Per questo è importante la palestra del quotidiano…
Ma l’interplay non si ritrova solo nella musica. Fa parte della vita di tutti giorni e appartiene a qualsiasi attività, a qualsiasi rapporto tra persone, alla dinamica di gruppo, allo scambio e al rispetto. Significa non solo rispettare ma accogliere, meditare, coinvolgere, porgere… Il nostro contemporaneo è fatto di suoni stridenti e dinamicamente alti dove manca il silenzio. Siamo sopraffatti dal suono che diventa rumore. Quello del traffico delle città, delle suonerie dei telefonini, delle sirene, della musica propinata a volte in maniera violenta in un aereo, in un ristorante o una palestra…
Ciò porta ad annichilire il significato del silenzio come luogo abitabile da tutti. A volte abbiamo paura del silenzio. Perché ci ricorda di un’apparente non vita quando questa è rappresentata solo dal rumore invasivo. Interplay significa dunque anche conoscere il valore del silenzio che ci offre l’opportunità di dire al momento giusto e di attendere il dire dell’altro.
Miles era un maestro dell’interplay e del silenzio al punto da avere inventato una nuova forma di jazz: il jazz modale basato su frasi brevi (So What) basate sulla domanda e risposta, come si fosse in chiesa. Uno, due accordi minori come base per dialogare sorretti da uno swing smisurato. Cannonball, Coltrane, Evans, Miles… Personalità molto diverse che sapevano dialogare ascoltandosi per costruire una musica articolata e robusta ma mai gridata.
Ma interplay è anche rispettare l’altro.
È fermarsi per conoscere un’altra storia che non è la nostra, sentire e percepire un altro suono che racconta un’altra umanità, incontrare la diversità.
Ecco, per me significa percepire nell’ascolto. Nel momento di silenzio tra un suono e un altro. Tra una frase detta e quella successiva che deve agganciarsi nel discorso. Significa dunque anche lasciare lo spazio all’altro affinché quella frase appena detta possa essere ripresa da qualcuno che la fa sua e la sviluppa.
È una forma di intelligenza progettuale oltre che di capacità dialettica.
Un esempio che offro spesso ai miei allievi è quello di una pallina da ping-pong che un musicista lancia in aria sul palco e che non deve mai cadere a terra perché deve essere sempre raccolta da qualcuno. È il principio dell’assolo e dell’accompagnatore che sutura e impreziosisce mettendo insieme le idee degli altri.
È così che nascono i gruppi veri. Quelli che hanno un suono riconoscibile che è fatto dall’addizione delle personalità dei singoli. E quando parlo di gruppi veri intendo le orchestre di Fletcher Henderson, Duke Ellington o Count Basie, gli Hot Five e Hot Six di Louis Armstrong o i quintetti di Davis, i quartetti di Coltrane, i trii di Bill Evans o oggi le formazioni di Wayne Shorter o dell’ultimo trio di Keith Jarrett. Gruppi diretti da grandi leader capaci di comprendere la ricchezza della diversità dei musicisti che compongono un gruppo e che hanno fatto storia non solo per le loro capacità individuali ma anche per ciò che hanno costruito assieme.
E a proposito del silenzio generato dal dialogo c’è un bel libro del violoncellista Mario Brunello intitolato Silenzio! che ne parla, e c’è l’invito al silenzio di Claudio Abbado dopo l’ascolto della Nona Sinfonia di Mahler. Abbado, che ha scritto un libro intitolato Ascoltare il silenzio, chiede espressamente di non applaudire immediatamente e di attendere qualche minuto aspettando che la forza e lo spessore della musica del grande compositore boemo si stemperino.
La musica perde forza se non viene incorniciata dal silenzio.
È come se un Botticelli venisse esposto assieme ad una enorme quantità di altri quadri che anche toglierebbero lo spazio necessario per potere coglierne la bellezza. Il silenzio è dunque bianco come la parete di una stanza.
La musica esprime principi universali, anche se purtroppo troppo spesso non universalmente riconosciuti, come il rispetto dell’altro e la crescita individuale e collettiva tramite l’esperienza della condivisione: come persone e come musicisti ci riconosciamo parte di un sistema di valori, di cui ci facciamo portatori attraverso la musica. Tu però ti sei anche esposto in prima persona nella difesa della giustizia e della solidarietà in diverse occasioni: mi ricordo della tua adesione allo sciopero della fame per chiedere l’approvazione della legge sullo Jus Soli, di quando sei salito sull’Aquarius, hai suonato in carcere e all’interno di reparti ospedalieri…
Concordo totalmente con te su quali valori la musica rappresenta e veicola. Proprio perché ci facciamo portatori di questi valori è fondamentale che noi ci si esponga per dare l’esempio e per raccontare agli altri quale è la nostra idea di mondo pur sapendo di correre il rischio di venire insultati e di perdere qualche fan che non la pensa come noi.
Quando sono stato attaccato sui social media per essermi schierato a favore dello Ius Soli, oltre agli insulti alcuni hanno scritto che non avrebbero più né comprato né ascoltato un mio disco: risposi pubblicamente dicendo che chi non voleva più ascoltare la mia musica, poteva rispedirmi i cd che aveva e io avrei restituito loro i soldi. Non lo ha fatto nessuno e la cosa non mi ha sorpreso perché chi si nasconde dietro lo schermo di un computer per esprimere odio e cattiveria nelle loro forme più squallide e violente, raramente ha il coraggio di farlo pubblicamente, fuori dalla propria stanza.
È cruciale che la musica non conosca confini e possa contribuire ad abbattere tutte le barriere e tutti i muri che oggi si vanno innalzando. Del resto, il jazz non sarebbe nato senza le migrazioni dei primi del Novecento, è musica meticcia per antonomasia, capace di colmare le differenze, per metabolizzarle nel tempo presente. È proprio questa considerazione, con la sua apertura alla speranza, a mostrare quanto la diversità sia capace di arricchire la tavolozza timbrica e semantica della produzione artistica.
In questo senso abbiamo il sacrosanto diritto al rappresentarci, tutti e indistintamente come uomini e come artisti, attraverso i suoni. Per esprimere il nostro pensiero e per contribuire con lo strumento dell’arte, al cambiamento del pianeta e alla riflessione sul rispetto della nostra casa-terra. Questo diritto viene spesso calpestato in molti stati totalitari che tolgono alle persone e agli artisti la possibilità di esprimere le proprie idee, pena la privazione della libertà fisica, ma è un diritto che viene calpestato anche dietro l’angolo di casa nostra attraverso la gogna mediatica.
La nostra forza deve essere quella della perseveranza e della resilienza. La parola resilienza è una parola bellissima che da poco è entrata a far parte del linguaggio comune: in questo momento sociale e politico, assume un significato importante. Oggi il fatto stesso che molte persone abbiamo iniziato ad usare questa parola è di per se un fatto straordinario. Resilienza è la capacità di reagire positivamente a un evento negativo; è la possibilità di fronteggiare il trauma rimanendo aperti alle opportunità positive che l’esistenza offre mantenendo integra la propria identità.
Un enorme grazie a Paolo Fresu per il tempo che ha dedicato a questa chiacchierata. Paolo è un musicista straordinario che ha molto da dare, e non esclusivamente attraverso la musica.
Restiamo resilienti.