Gilda abitava a Voghera. Aveva i capelli cortissimi, gli occhi marroni, la pelle lattea. Da Gilda andavo per urgare. Non sempre ci riuscivo, ma quando ci riuscivo mi rimproveravo per i tappi. I tappi sono i tappi alle orecchie. Mi rimproveravo di non aver portato i tappi alle orecchie ogni volta che riuscivo a urgare. Mi rimproveravo più per i tappi che per il condom. Del resto, con l’età che avevamo potevamo farne a meno, dei condom. A certe battaglie ci si crede dai dieci ai ventisette. Dopo, ci si limita a trasmettere la credenza ai figli, se si hanno. Invece, superati i trentacinque, i tappi diventano fondamentali. Se ti vanno a quarantotto le orecchie, poi devi andare in giro dicendo ogni tre per due “Eh? Eh?” perché non senti bene o addirittura rivolgerti all’Amplifon. Chi vuole urgare con uno che ha l’apparecchio acustico? Sì, i tappi sono più importanti del condom. E anche le stampelle, se hai una gamba di legno.
Chi era Gilda per me?
Be’, Gilda per me era Gilda, ma forse più che raccontare chi fosse, posso cercare di far capire chi… chi fosse. E per farlo capire, posso raccontare la storia di Vota-Antonio. Vota Antonio era un nostro amico che si chiamava (prima che arrivasse alla fine della presente storia appena principiata, dove si legò una cintura di cuoio alla gola e ci disse addio a tutti abbandonando per sempre - sarà per sempre, sarà una sola volta - lo Zombie-Party in Zombielandia) Antonio. Antonio lo chiamavamo Vota-Antonio, così, tra amici, senza ragione. Era uno simpatico. Compagnone. A calcetto mi faceva sempre l’assist per i goal di testa. A calcetto mi ero fatto fama di essere un gran colpitore di testa. Specie dopo la volta che avevo colpito il pallone con una tal craniata che quello s’era ammaccato come una lattina, accartocciato. Tutti i colleghi, quella volta, a sguararsi, e a proclamarmi a gran voce eroe della serata. Comunque, quando Antonio prese a frequentare Ava, cambiammo Vota-Antonio in ‘tento!-Antonio, e qui però una ragione c’era. Vota-Antonio per pura guasconaggine era andato alla tre giorni del Bergamo Sex, e qui aveva urgato (termine vogherese, non bergamasco; ma Vota-Antonio era vogherese non bergamasco, e Ava era comasca) con un’attrice pornografica. Boh, all’inizio tutto bene. E anche alla fine. Non avevano mai cessato di urgare, e tutto quanto. Solo che poi ‘tento-Antonio si era reso conto di un semplice fatto: la pornodiva quelle cose incredibili che faceva con lui, le faceva anche con altri. E non stiamo a ricamare su quanti altri eccetera. Non era questione di quantità. Era questione di qualità. Pendere dal soffitto legata a un cavo allacciato a una singola caviglia, sono cose bellissime se ti capita di farle. Io mi innamorerei all’istante di una donna che fa cose così. Ma il problema è quando si chiudono i rubinetti. Le zone limitrofe di Los Angeles sono nella più totale siccità, il che non impedisce a Los Angeles di seguitare a essere Los Angeles. Insomma, i rubinetti si chiudono di qui, ma si aprono di là – e di là molto spesso è… Los Angeles. Questo è il concetto. La mente di Vota-Antonio non ha retto, a questo concetto arrivato alla sua testolina “All at once” (una delle canzoni, forse, più pornografiche di tutti i tempi), e si è impiccato.
Il fatto è che l’uomo è un deficiente. Una donna gli dà un po’ di confidenza tipo fare un figlio insieme o parlargli cinque minuti sul lavoro dalla fotocopiatrice, e quello si mette in testa delle cose. Cioè, tu parli con una figona spaziale e in quel lasso di tempo (che siano cinque anni o cinque minuti non cambia) pensi invariabilmente: a) forse non lo sa di essere una figona spaziale; b) forse, anche se sembra impossibile, nessuno uomo prima di me, mai, glielo ha fatto notare; c) forse non sono tanto male, dopo tutto. E a quel punto, le chiedi se vuole venire a cena con te. Poi, l’anello. La casa. I bambini. Ripeto, non cambia. L’uomo è un deficiente.
Cosa penso di Gilda? Penso quindi che Gilda sia Ava e le solite menate maschiliste dell’uomo dall’ego ridotto alla capocchia di uno spillo eccetera? No, neanche per sogno. Di Gilda penso che si sia sottoposta al Programma Monarch, ecco l’ho detto. Gilda si è sottoposta al Programma Monarch.
Ho cercato di dimenticarla, Gilda di Voghera. Ma poi, ecco che ottengo l’ultimo appuntamento. Del resto, una che non usa il condom nonostante battaglie di lunghissimo corso, vuoi che creda alla battaglia “dell’ultimo appuntamento”? Di non concedere l’ultimo appuntamento all’ex eccetera? Ah be’, certo. Si può concedere, questa leggerezza fatale, se l’ex non si considera ex, forse. Ecco il motivo dei femminicidi. Le donne si rivedono con uomini che non sono più ex. Forse, alla donna manca il concetto di ex. O lo hanno solo se vengono lasciate. Del resto, davvero considereresti ex l’Omino Michelin? L’uomo gonfia ingrossa ingrassa. E se una non è una disperata senza il becco di un quattrino, ma ha qualche soldo messogli di solito nel portafogli dal padre-pappone (“Vai e rovinali tutti, quei porci! E se hai bisogno di un paracadute, chiedi al papi!”), si stanca presto e passa ad amare il prossimo. Altro che ex. Fatto sta che Gilda mi concede l’ultimo tango… a Voghera.
Io mi vesto anche come Brando. Con il cappottone. È per il cappottone Frascati, se penso a tutta questa faccenda come a un “ultimo tango”. Nel mio armadio ho diversi soprabiti. Il giubbotto di tessuto a quadri di Fronte del porto. La t-shirt attillatissima di Un tram chiamato desiderio. Il “chiodo” indossato da Marlon sulla sua Harley nel film Il Selvaggio. Tra questi, ho scelto il cappottone, perché ho in mente un “ultimo tango” per la cara vecchia Gilda. Magari, cercherò di possederla in quel modo goffo e sublime con il quale Brando possiede Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi. Queste cose le ho pensate fino a quando non mi sono reso conto di avere una testa avvitata alle spalle; avrei potuto usare quella.
Per farla breve, so come fare con Gilda. Per dirne una, so a che orari presentarmi. Per dirne un’altra, so che a Gilda piacciono gli aneddoti piccanti, e narrati in modo faceto. Dunque, quando arriva il momento di un’allusione alla mia vita sentimentale post-Gilda ecco che le butto, lì per lì, una storiella coitale - che è poi - mia supposizione - quello che vuole sapere Gilda usando l’ombrello dell’espressione “vita sentimentale”. Le parlo della Vane. Della Vane nel posto dove lavoro gira questo soprannome di “aspirapolvere”. Che uno non sa, a indagare, se la chiamino “aspirapolvere” per una questione di difettucci causati da eccessiva casalinghitudine ovvero, parlando più cristiano, di un certo bernoccolo per ordine e pulizia, oppure se ci siano ragioni più ammiccanti. Se è così, in vita mia, ho sentito di peggio. “Venticello”, ad esempio. O “Parafango”. Parafango, santiddio! Parafango! Peggio di “Dio-Attaccapanni” nella gara delle bestemmie…! Comunque, caso vuole che finisca in camporella con la Vane, la quale ha un tono di voce monotono e afono, e lo sguardo fisso, e soffre anche di una cifosi mica da ridere che la ingobbisce al punto da avere il mento incassato nel collo, quasi incollato al collo, quasi saldato. Però, ha anche una quinta spaziale, e in generale attizza. In più, ho misurato la sua anima con il mio barometro interiore e l’ho giudicata a posto. Siamo a casa sua. Finisce che la gobba s’inginocchia, con me seduto su un divano, e mi fa un boccaciccio. E quello che succede… non posso crederci. Mentre Vane “l’aspirapolvere” va su e giù facendomi il boccaciccio, dopo un po’ si mette proprio a farlo, il rumore dell’aspirapolvere. Vuuu vuuu. Vuuuuu. Lo fa apposta. La eccita fare boccacicci facendo finta di trasformarsi in un elettrodomestico umano. Un’altra spiegazione, è evidente, non c’è, non può esserci, e a me non viene certo in mente di chiedergliela. Va su e giù con la faccia, in modo lento, meditabondo, con gli occhi arrovesciati all’insù manco avesse uno spiritello porcello infilato nel sedere e intanto vuuu vuuu vuuu, come un Rotowash che pulisca della moquette. Fine dell’aneddoto piccante. Gilda se la ride.
Dopodiché, dopo l’aneddoto piccante narrato in modo faceto, viene la parte dell’affondo vero e proprio e so bene cosa sfiorarle, alla Gilda, per farle partire il lapis e insomma, a farla breve, ecco che, nonostante i lipidi in eccesso, ci mettiamo a urgare. Sulla storiaccia dei lipidi tengo a chiarire, però, che io sarò anche stato l’Omino Michelin, ma lei ormai era da Museo delle Cere o meglio Museo delle Pere – anche se le sue andrebbero conservate in una teca muy special.
Urghiamo accomodandoci giusto sull’arma più letale di cui dispone Gilda, se togliamo se stessa in persona. Lo facciamo sul letto. Quel cavolo, cazzo di letto a due piazze dall’intelaiatura di metallo. Quante volte mi sono rivoltato nella bara (ormai essere defunto nel passato di Gilda) immaginandomi la spalliera di metallo di quel cazzo letto colpire a ritmi regolari il muro rivestito da una squallida tappezzeria a righine, tum!, tum!, tum!, tum!, calando su quella superficie come una sbarra d’acciaio, ossessionato al contempo dal cigolio prodotto dalla rete metallica. Gilda avrebbe dovuto anche aggiungerci un materasso ad acqua per farti partire ancora meglio il cervello. Sempre che uno riuscisse a coglierlo questo tappeto sonoro sotto le lupesche urla orgasmiche della letal weapon.
Ora che siamo a letto, mi viene in mente l’Uomo Tigre. Quando il Tigre afferra l’avversario per le caviglie e gli sbatte la testa contro ogni lato del ring. Ma ho in mente altro, per la cara gattamorta Gilda. La testa. Userò la testa. Ho fama di essere colpitore di testa, giusto? Per giunta, una volta, gasato dai colleghi, ho dato una testata a una macchinetta difettosa del caffè e quella s’è messa a funzionare. I miei colleghi sono impazziti dall’ebbrezza, per quel gesto. Mentre sono sopra Gilda, e assaporo la sua carne e odoro i suoi miasmi femminili, odori dolcissimi, sto pensando all’incredibile senso di perdita che ho provato quando mi sono reso conto di tutto quello che ho già detto e non ho voglia di ripetere con parole più precise, perché mi sono già tormentato abbastanza, e sto pensando che questo inenarrabile tormento sia arrivato in un periodo molto sbagliato nella mia vita perché riesca a sopportarlo, e io non sono Vota-Antonio, io il modo di reagire lo trovo, e allora mentre Gilda è sotto di me e come sempre penso ai tappi, e penso anche all’ultima scena della nona pellicola di Quentin Tarantino, con quella tizia che si esibisce in un urlo continuo per dieci minuti, ecco cosa produce Gilda: non una serie di gridolini di piacere, ma un unico, singolo urlo di appagamento, sempre più forte, sempre più intenso, avvolgente, ecco che le sferro la prima craniata, la penetro nel bassoventre e intanto le ammollo una craniata, la prendo al mento, credo che la bocca le si serri così di colpo che la lingua le salti via come un pesce rosso, un colpo di reni e una testata, lei perde i sensi, il volto insanguinato, il letto sembra spaccarsi tanto urghiamo forte (“Non ti sei dedicato abbastanza alle grandi labbra…” mi aveva detto un collega, al calcetto, dispensando perle di saggezza erotica), te le do io, le perle di saggezza erotica, te le do io, le grandi labbra, te lo do io, quello che mi hai fatto, testate, il volto sfigurato, l’intelaiatura di metallo del letto cede, ti ho amato Gilda, ti amo, ti amerò, ti amo, pim! pum! pam!, sbom!
Mi rimetto il cappottone. Cerco di pulire, ma è un disastro.
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