Artista fondamentale nella storia della ceramica e del design, dal dopoguerra ai nostri giorni, si avvale di un originale linguaggio che contempera la tradizione popolare e la ricerca contemporanea, dallo Spazialismo italiano all'Astrattismo internazionale.
A 14 anni, nel 1943, comincio a frequentare Brera e nel dopoguerra incontro mezzo mondo, all’Accademia: Carlo Carrà e Mauro Reggiani sono miei maestri… Poi giro l’altra metà del mondo a volo d’uccello… ho vent’anni viaggio e viaggio, resto tramortita in Francia, a Vallauris, dalle ceramiche di Picasso, ad Amsterdam da Vermeer. Più tardi mi occupo della mia ricerca etnosocioantropologica, dalla Scandinavia, Germania, Austria, Belgio, Olanda, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, fino al Meridione italiano, lavoro con i cocciari, i sopravvissuti, e dormo nei loro retrobottega con le loro terre. Pressoché immobile, a più di 90 anni viaggio e vado ancora in giro per il mondo e con le mie terre, da Faenza a Tokyo ad Andromeda con i miei Cosmopiatti.
Come è nata la sua passione per la ceramica?
È una lunga storia… mia madre era gemmologa, mio zio argentiere, mia zia orafa e una bisbisnonna costruì uno stupendo forno per la porcellana, avendo reclutato alcune maestranze da Capodimonte per lavorare in Brianza. Però, la prima botta d'innamoramento per la ceramica per me è stata un’improvvisa, attonita visione colorata, quasi una apparizione sognata, nel ricordo dei miei occhi di bimba (erano gli anni ‘33/’34 del ‘900):a Salsomaggiore Terme, come una pioggia di arcobaleno, i colori delle faience lustrate di Galileo Chini, come una premonizione. Poi a dieci anni in Liguria una giovane donna di Albissola, con pennello d’oca mi insegnò “il bianco e blu del Vecchia Savona”. Il bianco e blu mi è rimasto addosso. Infine, a Milano, sotto i bombardamenti, nel rifugio, mi divertivo a giocare alla principessa russa, Sonia, che, provetta artista, allestiva immaginarie esposizioni.
Al nuovo Museo del Design Italiano della Triennale di Milano è esposto un suo vaso: può descrivere la struttura e il significato della sua opera?
Il mio pezzo invetriato bruno manganese è accompagnato dal telefono Grillo di Zanuso, dove si possono sentire le parole che qui trascrivo: “Una storia corale, disegno dolce, mano più mano, sentire il tempo lontano inesorabile dentro al vaso e volere riagganciarsi al qui e ora serbando il gesto antico e il sapere, esigenza esistenziale; il verde del rame, il bruno del manganese, il giallo del ferro e il luogo: le fratte fiorite di ginestra, la macchia mediterranea, i calami e cime di vento e di mare di Fratterosa, Pesaro e la bottega dei Mastri Fabiani 1958-1963. Ricerca socio-etno-antropologica. Lavoro sperimentale di gruppo. Progetto pilota. Edizioni limitate e siglate. Centri tradizionali popolari della ceramica italiana: i cocciari i pignattari, i vasai tutti i sopravvissuti sono una vasaia anch’io”.
Di lei è stato scritto che “È l'espressione dell'essenza femminile celata nell'arte che la circonda ...”: si riconosce?
Sì, infatti, anche Levi Strauss e le sue leggende indios… ne La vasaia gelosa convalida che è la donna che fa la ceramica e che ritrova, dopo averla perduta, caduta dal cielo, la creta, che raccoglie e ne fa il vaso. La ciotola, il grembo, il nutrimento, e nel vaso la sacralità della raccolta dell’acqua, del tempo e della memoria. La ceramica per me ha quasi sempre avuto una valenza di funzione utilitaria, questo è tipicamente femminile: i miei vasi sono doppi, un vaso entra nell'altro, in modo che si possano mettervi fiori dal gambo lungo o dal gambo corto e vi si possa trasportare acqua senza fatica; come ha scritto Silvia Vegetti Finzi: “Noi donne siamo come le matrioske”. Mi permetto un aneddoto: ho accompagnato una mia nipotina, Laura, cinque anni, al Museo della Triennale, dove è esposto un mio vaso, la sua reazione è stata: “Non mi piace, sembra una pentola”… miglior complimento non mi poteva fare... Messaggio passato dalla mia lunga ricerca etnosocioantropologica. A volte mi devo esprimere con il mio pezzo unico come per una mia necessità interiore, un desiderio.
Suo marchio è la ruota dentata: che significato ha?
È un insieme, è un meccanismo di convivenza, di integrazione di maschile e femminile, di abitare, vivere insieme, è un'espressione di esistenza comune. È un simbolo quasi religioso nel senso di ‘religare’. È un sigillo che chiude il volume 108 della collana dell’Arte Moderna Italiana all’Insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller (Milano, 1995). In questo libro sono presentata da Carlo Bertelli.
Ha detto: “Per me è importante la concentricità...” infatti i Cosmopiatti sembrano narrare una storia profonda, quei giri concentrici portano al punto centrale che sembra condensare tutta l'intensità di senso e di significato che il piatto contiene. Ce ne può parlare? Cosa rappresentano per lei? Cosa dicono di lei?
La concentricità, il potere del centro, riprendendo un concetto di Rudolf Arnheim, per me sono molto importanti, si crea così una forte tensione centripeta che ha dell’ipnotico. Del resto, la centralità la possiamo trovare, andando indietro nel tempo, anche nei Bianchi del Compendiario, uno stile sviluppato a Faenza nel ‘500.
Fare ceramica, manipolare materiale vivo e da lì generare forme e contenuti. Quali sensazioni cenestesiche? Quali sobbalzi dell'anima quando via via appare l'opera con una sua identità? È qualcosa di pensato a priori, di immaginato, quasi un sogno che diventa realtà o è una sorpresa che nasce dalle sue mani?
Ho operato con disperata assiduità e abbandoni alla ricerca di una contiguità. Nella pianura amata ho trovato una terra arcana bianca, tutti i colori dell’arcobaleno, terra rispetto, terra intimità, terra compagna. Accettando il tempo di stagione in stagione, una terra lontana aspettava dal fuoco la sua sublimatio, la porcellana, terra di conchiglia, biscuit d’amore, 1280°, fuoco in atmosfera riducente.
Sublime la poesia della creazione-trasformazione, dell'incontro amoroso infuocato. Davvero solo il pensiero poetico può avvicinarsi e dare forma ad un'esperienza mente-corpo così intima. E la sua tecnica?
Il primo riferimento del mio lavoro sono i Della Robbia, soprattutto per la materia, la terracotta invetriata e la maiolica. Insisto molto su questa tecnica. È antichissima e richiede una grande padronanza del mezzo: man salda e cuor sicuro. Un’altra ispirazione importante sono i vasi da farmacia: gli Albarelli, che ho visto negli anni ‘50 nella Collezioni Chini del MIC (Museo della Ceramica di Faenza), dove, nel 2010, ho avuto una personale di centotrenta pezzi curata da Franco Bertoni. Negli anni ’60 ho guardato Kenneth Noland e certa arte contemporanea americana. È la tradizione italiana, la faience, che ispira la mia tecnica: pennello e filettatura a mano sul torniello, però, ho operato anche con materiali e temperature diverse. La coralità e la concettualità che ci possono essere dietro, nulla tolgono alla realizzazione finale. Lavorando con gli artigiani tradizionali, creo un piccolo modello al tornio, poi ognuno gli imprime un tocco personale e bisogna prestare attenzione a non prevaricare le singole personalità per non inficiare la coralità. È necessario inoltre notare che c’è molta differenza tra i lavori commissionati, soprattutto quelli industriali, e quelli “creativi”, come, ad esempio, miei Cosmopiatti, comunque, quello che è essenziale sono il progetto e la concettualità; però, tra la concezione estetica e la realizzazione pratica intercorre un grande spazio.
Si sente molto rispetto per la materia e per le persone, la tanta sottolineata coralità. Sembra proprio inverare un pensiero di Kant: “Le intuizioni senza concetti sono cieche, i concetti senza intuizioni sono vuoti.” La loro integrazione dà origine ad un pensiero maturo e completo. E siamo ai Cosmopiatti…
I Cosmopiatti sono in maiolica bianca, caratterizzati da anelli di colore concentrici, ispirati dall’atmosfera delle imprese spaziali; ogni piatto è legato a una particolare stella o costellazione, come l'Orsa Minore, i Gemelli, Andromeda, Almagesto, Epsilon Tauri e ne ho dedicato ai geni delle grandi scoperte universali Galileo, Keplero, Ticho Brahe, Aristarco... Per realizzarli approntavo un piatto, come prova di pennello, sempre “con mano salda e cuor sicuro”. Il Cosmopiatto viene da dentro e presuppone una concentrazione e una tensione particolari, il pennello deve essere guidato da una forza interiore nel pieno rispetto della materia, trasmettere il potere che viene dal centro ed avere un’intensità precisa, un ritmo determinato come per coinvolgere chi guarda. Nel '67 ho esposto 31 Cosmopiatti alla mitica Galleria Il Sestante, con cui ho collaborato dal 1958 al 1983, li ho venduti tutti tranne due che conservo gelosamente. Due li ha comprati Lucio Fontana, sempre generoso con i giovani di cui apprezzava il talento. A quell’epoca facevano parte della scuderia del Sestante artisti e progettisti come Ettore Sottsass jr., i fratelli Pomodoro, Bobo Piccoli, Hans von Klier, Bassoli. Nel 2015, poi, ho esposto su un’immensa parete blu cobalto, alla Triennale di Milano, una costellazione di cento Cosmopiatti.
Come ha dialogato e dialoga la ceramica con l'arte contemporanea?
Se è arte, la ceramica è arte contemporanea. Nella mia opera è sostanziale il nesso tra tradizione e contemporaneità. Tutte le cose devono avere continuità, devono essere calate nel nostro tempo. Ora sto lavorando al Raku, è una tecnica antica di origine giapponese mediata da un'interpretazione occidentale. Lavoro con grande rapidità e intensa fisicità, per ricevere la potente energia della materia stessa.
Dell'Accademia di Brera dei tempi della sua frequentazione cosa vuole ricordare?
Quando m'iscrissi a Brera a 14 anni e si diceva che lì non si studiava niente e si disegnava tutto il giorno; ho comunque avuto grandi insegnanti come Carlo Carrà, Mauro Reggiani, Enzo Morelli, Marussig e Guido Ballo. In quegli anni eravamo in 100 al liceo e 100 all’Accademia. Oggi ci sono 5000 iscritti.
Ha lavorato molto negli anni ‘60, che importanza aveva la ceramica in quel decennio?
Ho partecipato, invitata, a importanti manifestazioni, la Biennale di Venezia, tre Triennali di Milano, mostre in svariati musei. In quel periodo la ceramica era molto apprezzata anche dagli architetti, figure come Alik Cavaliere, Fausto Melotti e Bobo Piccoli ne erano convinti ed ispirati artefici. Ho potuto lavorare con M. A. Arnagoldi, Melchiorre Bega, Franco Marescotti, Roberto Menghi, Alberto Scarzella, i Latis e ho realizzato camini, tavoli, pannelli. Ricordo che anch'io e una compagna di Accademia avevamo lavorato per un Istituto di Bellezza in San Babila, dove abbiamo rivestito l'armadio con ceramiche, realizzando anche portaombrelli, maniglie e vasi. Ci hanno pagato metà in denaro e metà in trattamenti…
Tra i personaggi che ha incontrato in quegli anni ce n'è qualcuno che ha dato un'impronta particolare?
Devo molto a Bobo Piccoli un artista straordinario che ha saputo coniugare al contemporaneo l’unità delle arti, trasportando la sua pittura in opere pubbliche come quelle per il Palazzo delle Stelline a Milano, o addirittura la piazza di Cislago. Ho visto con lui tutte le Biennali di Venezia, mi ha introdotto alla Galleria dell’Ariete a Milano, con cui lavorava. Frequentavamo insieme gli artisti e le gallerie. In un giorno polare d’inverno ci siamo trovati nella galleria di Guido Le Noci per la performance del blu di Klein con la modella che si rotolava sulla carta coperta solo di pigmento blu. Avevamo un’affinità elettiva, un dialogo aperto, continuo, quotidiano, condividevamo l’arte e l’estetica. Nel 1965 ci siamo sposati. Il disegno è stato una pratica che ci ha unito, Bobo disegnava moltissimo, ed io pure ho sempre tanto disegnato, ho cartelle piene di disegni, l’Archivio Bobo Piccoli sta catalogando oggi un enorme corpus di disegni. E poi gli amici sono stati fondamentali nel percorso, come Nini e Ugo Mulas, Rosabella e Franco Marescotti, Arnaldo e Gio Pomodoro, Marisa e Alberto Scarzella che hanno fondato Il Sestante, Marirosa e Aldo Ballo, Adriana e Alik Cavaliere, Ettore Sottsass e Fernanda Pivano.
Ci accompagni a scoprire i tesori della ceramica a Milano.
Citerei alcune opere di Fontana, come la Via Crucis al Museo Diocesano e la Pala in S. Fedele; tra i Palazzi, i suoi inserimenti nel condominio di via Lanzone 6, degli architetti Vito e Gustavo Latis e Piero Cupello e quelli dell’edificio di via Senato 11 degli architetti Roberto Menghi e Marco Zanuso, inoltre il fregio degli arlecchini bianchi, blu, rosa nell'omonimo cinema, trasferito poi alla Fondazione Prada. Mie ceramiche sono in via Maroncelli 17, interne all’edificio di F. Marescotti. E sempre di Marescotti e Rizzi un’opera mia e di Bobo Piccoli in via Valparaiso.