Quest’anno, al Festival di Venezia, la 28ma Settimana Internazionale della Critica è stata aperta dal film d’animazione L’arte della felicità, opera prima del regista Alessandro Rak. La produzione tutta italiana di Luciano Stella, co-sceneggiatore dell’opera insieme allo stesso Rak, ha coinvolto numerosi artisti e professionalità del mondo partenopeo, riuscendo a realizzare la pellicola in due anni e con un budget ridottissimo di soli 800 mila euro.
Il film, Premio Arca Cinema Giovani per il miglior film italiano a Venezia - assegnato da una giuria con più di settanta ragazzi tra i 18 e i 26 anni -, è un lavoro originale e coraggioso che ha visto un mondo di giovani appassionati scambiarsi i ruoli e le conoscenze nell’ottica di una crescita personale e di una lotta per far emergere un genere, quello dell’animazione per adulti, nel nostro paese ancora sconosciuto. A L'arte della felicità, infatti, è andata anche la menzione speciale della Fedic (Federazione Italiana dei Cineclub), "perché è un esperimento intelligente e coraggioso di animazione italiana che utilizza, sullo sfondo di una Napoli finalmente non convenzionale, questa tecnica anche per sviluppare tematiche attuali adulte".
Grazie alla forza armonica e melodica della colonna sonora dei musicisti Antonio Fresa e Luigi Scialdone e di altri professionisti del mondo partenopeo, le immagini popolano lo schermo e si ingigantiscono vibranti e acquose all’occhio stupito dello spettatore che s’immerge nel mondo putrido e debordante di una città al limite del collasso e di un carattere – quello della napoletanità – tendente al disordine e al lamento chiassoso. Il film, distribuito da Istituto Luce Cinecittà, è stato presentato al Multicinema Modernissimo di Napoli nell’ambito della nona edizione de L’Arte della Felicità - Incontri e conversazioni dedicata al “Desiderio”, tenutasi dal 23 al 29 settembre, e sarà in sala nei cinema italiani per la fine di ottobre. Patrizia Boi ha intervistato il gruppo degli artefici della casa di Produzione Mad, il Produttore Luciano Stella, il Regista Alessandro Rak e i musicisti Antonio Fresa e Luigi Scialdone.
Luciano Stella, L’Arte della Felicità “è la proposta di un dialogo aperto, positivo, capace di prolungarsi e moltiplicarsi nel tempo. È un dialogo tra scienza e religione, tra filosofia e spiritualità, tra gente comune e testimoni d’eccellenza. È un invito alla parola, al confronto non parlato, alla comprensione, all’apertura”. È da questo che nasce il titolo del film? Dalle tue convinzioni e passioni?
Il film nasce anche dal titolo di questa manifestazione che organizzo insieme a Francesca Mauro da nove anni. L’Arte della Felicità è l’arte della vita, intesa come l’arte di saper reagire, di essere consapevoli di quello che ci succede, di trovare soluzioni per ristabilire un equilibrio, un positivo stupore delle cose che ci possono capitare. È un’arte del mutamento, non un’arte della fissità, perciò ogni anno decliniamo un tema del vivere quotidiano come può essere la rabbia, la paura, l’amore, la felicità, la solitudine e, quest’anno, il desiderio. Invitiamo ospiti nazionali e internazionali di cui spesso abbiamo sentito parole interessanti, non accademiche, istruzioni e tecniche provenienti da diverse tradizioni del pensiero e dell’azione umana – come la psicologia, la sociologia, i percorsi spirituali –, utili a ognuno di noi. Il confronto è sempre estremamente aperto e genera un calderone, tutto napoletano nel senso migliore del termine, che mischia senza barriere i più diversi protagonisti – compreso lo stesso pubblico napoletano – incrociando la necessità di creare comunità e dialogo in una realtà, che la crisi – sia essa economica, sociale, familiare, personale, etica –, mette in evidenza.
Napoli è una società difficile e questo favorisce L’Arte della Felicità, è nelle situazioni estreme che l’essere umano, sentendo un terreno poco solido sotto i piedi, viene messo a dura prova passando attraverso le più svariate emozioni. Da tutto questo nasce il film che, fortunatamente, non è nulla di pedagogico, non è nulla di confuso, ma, grazie all’incontro con Alessandro Rak e a tutti i giovani artisti e tecnici che hanno collaborato con straordinaria passione sotto la sua guida, è diventato un’altra cosa. È una storia di finzione, quindi è una storia più vera ancora, non è un dialogo di gente saccente, ma la storia finta/vera di persone che perdono qualcosa, attraversano un tunnel di dolore e cercano un loro nuovo equilibrio. Il film si esprime con qualità artistiche, di narrazione, visiva e musicale, di linguaggio nuovo – l’animazione per adulti – individuando, grazie alla sperimentazione che Alessandro Rak ha messo in scena in maniera forte e sentita, una forma di narrazione cinematografica innovativa che è stata riconosciuta anche a Venezia.
Luciano Stella, “mutare prospettiva è spesso uno degli strumenti più potenti ed efficaci che abbiamo a disposizione quando ci confrontiamo con i problemi quotidiani della vita”, come possiamo creare la nostra felicità? Come muta prospettiva il protagonista della nostra vicenda?
Non ci sono ricette, ovviamente. Ognuno di noi possiede un certo bagaglio di esperienze a disposizione. Un primo passo utile è la consapevolezza di ciò che ci accade, la capacità di vedere i propri pregi ma anche i propri difetti, le proprie contraddizioni in ciò che sta accadendo, di osservarne i meccanismi per comprenderci meglio prendendone una sana distanza. Come dice nel film lo zio Luciano: “In realtà il segreto della felicità è un segreto che costruisce ognuno, cioè è la propria singola capacità di fare i conti con la propria vita e il proprio destino”.
Alessandro Rak, un film è sempre un gioco di squadra che vede il regista come un grande allenatore, come hai composto e condotto la tua squadra? E come la tua squadra ti ha fatto crescere in questo gioco?
Vivendo a Napoli da sempre, frequentando i luoghi del fumetto, dell’illustrazione e dell’animazione, ed essendo l’animazione un percorso poco noto in questo territorio, conoscevo il panorama degli appassionati di queste arti. In questi ambienti, inoltre, c’è sempre stata la voglia di coinvolgersi vicendevolmente all’interno dei progetti – parlo dei lavori di gruppo come l’animazione piuttosto che di fumetto e illustrazione che sono discorsi più intimisti. Infatti si genera una crescita inevitabile nel confronto dei modi di intendere il segno, il rapporto tra forma e contenuto, uno scambio reciproco che arricchisce tutti. Un altro disegnatore non fa le stesse cose tue e non osserva il mondo allo stesso modo, ma vede un altro universo complicatissimo e questo tra gli appassionati stimola una reciproca curiosità.
Una delle più facili strade di esplorazione è quella del sogno, il quale attiene al concetto di archetipo. Lavorare sull’archetipo è il modo migliore di creare comunione tra degli artisti, possono esserci circostanze culturali di nascita, di genesi, come la napoletanità, in cui è più facile coordinare i disegnatori. La scena che riguarda il Vesuvio, per esempio, è stata aiutata da questo meccanismo che ha consentito di costruire in comune accordo l’immagine, mettendo in rilievo, attraverso il parabrezza di un taxi, l’ esplosione dell’’inconscio privato del protagonista mescolato con l’inconscio collettivo della napoletanità.
Alessandro Rak, ci racconti come nasce un’animazione? Quanta fatica c’è dietro la velocità di un disegno? Quante persone sono necessarie per muovere l’immagine fissa del foglio? O lo schermo immobile del computer?
Non ci sono regole precise, il discorso è molto elastico. Nel caso specifico del nostro film, ci sono state scene più intime che rappresentavano un momento privato del protagonista gestite con spontaneità da un unico disegnatore e scene che hanno richiesto un lavoro molto più complesso di partecipazione di tutte le diverse professionalità dell’animazione, come la scena del Vesuvio, costruita facendo lavorare in parallelo più artisti con tecniche diverse. Il nostro pensiero-guida è stato di creare una corrispondenza tra quello che si metteva in scena e come lo si metteva in scena, anche perché la corrispondenza tra ciò che si mette in scena e i retroscena crea più ispirazione e facilita la creazione.
Alessandro Rak, come hai coniugato la caratteristica del film di essere a tratti poetico e romantico con questa tua Napoli traboccante di spazzatura e di chiasso che diventa frastuono?
Penso che Napoli abbia tutte e due le anime: noi l’abbiamo voluta cogliere in un momento di massima defaillance, ma è la stessa città che ci fornisce quegli elementi romantici, passionali e di emozione forte che il film mette in luce.
Alessandro Rak, secondo il Dalai Lama Tenzin Gyatso “dobbiamo imparare bene le regole, in modo da infrangerle nel modo giusto”. Quali sono le regole della tua città? Quali regole infrange Sergio per sopravvivere? Ci sono regole nella patria dell’assenza di regole?
Ti rispondo con una frase del protagonista che dice: “Sono confuso perché ci vedo chiaro”, vale a dire che in un momento in cui riesco a fare un po’ di luce sulle regole che imprigionano il nostro vivere non è che mi si illumini la strada di come andare a risolvere un mio percorso privato o sociale. Nel costruire si cerca di darsi delle regole che invitano a infrangere il nostro modo strutturato di percepire. Costruiamo delle regole di cui siamo artefici e infrangiamo regole di cui siamo vittime.
Alessandro Rak, la spazzatura che intasa Napoli è un microcosmo che ricorda il macrocosmo del nostro paese? Quali sono i valori perduti? Qual è la prospettiva di Sergio? E quella di suo fratello, Alfredo, il grande assente?
L’immondizia viene presentata come un discorso avanguardistico dell’Apocalisse, il problema dei rifiuti in Campania cioè si estenderà a tutto il mondo se non troviamo delle soluzioni a questa produzione. La spazzatura metaforicamente può rappresentare la storia precedente che, anziché spianare la strada al futuro, illuminarla o chiarirla, diventa ostacolo del presente. Il taxista non risolve minimamente il problema, nessuno dei due è in grado di farlo, ma ognuno di loro fa fronte alla storia in modo diverso: il tassista finisce per girare in tondo all’interno della propria città, nella propria storia, nel proprio vissuto, in una ciclicità che lo blocca mentre la spazzatura continua a crescere, mentre l’altro fratello costruisce un suo percorso lineare che va dalla nascita alla morte attraverso questa idea del viaggio, dello spostamento alla ricerca del sé. E in questo percorso non guarda più agli ostacoli come a qualche cosa che impedisce di continuare l’esplorazione ma come a una parte integrante del percorrere.
Alessandro Rak, il tuo film è stato definito logorroico e ridondante, mentre, come suggerisce Tenzin Gyatso: “Ricorda che talvolta il silenzio è la migliore risposta”. Dove metti in atto questo principio? In quali scene fai parlare il silenzio?
Il fatto che ci sia un grande scorrere, un gran parlare all’interno della messa in scena per me non rappresenta un obbligo all’ascolto, spesso il parlare è scavalcato dalla musica, forse questa ridondanza è un valore che danno gli altri. Io ho cercato di rappresentare il parlare come un frastuono…
Luciano Stella: il protagonista sta in uno stato di ruminazione di pensieri costante, nella condizione di mente disordinata, perché chi si mette in silenzio in realtà sente un rumore immenso, osserva la sua mente/parola senza parola arrivando quasi a uno stato di shock perché scruta le proprie paure e angosce. Anche Alfredo alla fine parla troppo, nemmeno lui riesce a stare veramente in silenzio, perché in realtà se non sai stare nel rumore delle piazze, laddove c’è il rumore del mercato invasivo e forte, non c’è silenzio che tenga. La salvezza non sta nel silenzio ma nell’attraversare il rumore…
Alessandro Rak, se non è il chiasso è l’armonia e il ritmo che riempie ogni spazio, come hai vissuto questa simbiosi appassionante e catartica con Antonio Fresa e Luigi Scialdone?
Al di là di Gigi e Antonio che chiaramente hanno contribuito tantissimo alle musiche, c’è stata tutta una scena partenopea che bisogna mettere sullo stesso piano. Antonio e Gigi hanno composto dei pezzi appositamente per il film, ma ci sono stati altri musicisti come Luca Di Maio o Dario Sansone che hanno lavorato con noi in maniera quasi simbiotica. Dario è il cantante dei Foia, un gruppo napoletano emergente, e, mentre lavorava all’interno del discorso visivo, allo stesso tempo preparava il suo CD. Tutti quanti eravamo appassionati della scena musicale partenopea, che in questo periodo è molto viva, perciò sentivamo con piacere i pezzi di amici e conoscenti mentre lavoravamo al film, al punto che questi disgraziati musicisti ci deformavano le scene. Così abbiamo deciso di inserire alcuni dei loro pezzi… tutto il film è nato da talenti che sono emersi nel corso dei lavori…
Antonio Fresa e Luigi Scialdone, laddove abbondano spazzatura e chiacchiere, sboccia invece la musica… Come avete lavorato per riempire le scene di malinconia e tristezza, di armonia e ritmo?
Antonio Fresa: Il fatto che Alessandro abbia scelto dei pezzi con questa sperimentazione ha reso più interessante la musica, perché la parte più ritmica e più discorsiva della narrazione del film era in qualche modo risolta. Noi ci siamo così dovuti occupare solamente di accompagnare i momenti del film in cui l’emotività saliva. Al di là del tema principale dei due fratelli su cui avevamo fatto una ricerca musicale che senza dubbio ci ha influenzato, dovevamo andare a tessere – come si fa con l’organo nella musica sacra – dei momenti su cui poggiare alcuni dialoghi. In questo Alessandro è stato molto esigente perché voleva che la musica avesse una serie di ripartenze, non fosse affollata nel pensiero ma in qualche modo lo contenesse e quindi ci ha messo a dura prova costringendoci a scrivere parecchia musica prima di trovare i motivi giusti. L’esperienza è stata molto utile perché, nella composizione della musica per immagini, gli spazi sono sempre molto ravvicinati, invece in questo film abbiamo potuto sperimentare una composizione in cui gli spazi sono molto dilatati e vedo che ci è riuscito bene.
C’è da dire un’altra cosa io scrivo musica con Luigi Scialdone da una decina d’anni e questa è una cosa rara, presuppone un’affinità spirituale non indifferente, una grande stima reciproca. Noi veniamo da approcci musicali molto diversi, Luigi è un’autodidatta, mentre io sono più accademico: molto spesso mi trovo ad essere interessato al suo approccio, lui mi fa scoprire lo specchio di quello che qualche volta posso non trovare dentro me stesso e questo succede sia nella composizione che nell’esecuzione. Il tema dei due fratelli ci appartiene perché la nostra è una collaborazione che va avanti anche se non ci confrontiamo verbalmente. Noi abbiamo la fortuna di essere interscambiabili, anche se io sono pianista e lui chitarrista, eppure Gigi a volte scrive pianoforte, cosa che dovrebbe essere il mio mestiere, oppure capita a me di scrivere un pezzo, ma è come se lo avesse scritto Gigi, perché non è la mia cifra, sono progressioni armoniche più tipiche della sua esperienza musicale, mentre io provengo da un’esperienza jazzistica infarcita di armonici superiori…
Luigi Scialdone: Da lui io ho preso anche molto della musica classica, l’uso dell’orchestra, come scrivere, lui è un maestro che spesso non ha una scrittura propriamente classica, insomma tra noi c’è un interscambio totale. La scena del gabbiano iniziale, un pezzo più propriamente classico che appartiene come formazione più a lui, invece l’ho concepito io e poi abbiamo continuato insieme…
Antonio Fresa e Luigi Scialdone, quali giocatori compongono la vostra squadra e con quali strumenti attaccano o si difendono?
AF: Le altre musiche vengono dalla scelta del regista, noi abbiamo semmai supportato le altre musiche…
LS: Noi abbiamo composto all’incirca la metà della musica, di fatto una sorta di ponte tra le varie scene, mentre la musica proposta dal regista descrive il momento della scena, noi siamo la voce narrante e i protagonisti assoluti nel descrivere il rapporto tra i fratelli che viene poi eseguito pianoforte- violino…
Antonio Fresa e Luigi Scialdone, come colloquia la vostra musica con il protagonista della storia? In quali momenti vi confondete con Sergio? Che cosa rappresenta la musica per la loro napoletanità?
AF: Una caratteristica della napoletanità di Sergio è che lui cerca un risultato nell’arte, non nell’affermazione della produzione della sua arte, un contratto discografico è qualcosa di marginale, l’importante è fare musica per un piacere interiore, per una ricerca della qualità e dell’introspezione attraverso l’arte… Noi siamo i due protagonisti, i due fratelli ma senza una identificazione precisa. I due fratelli sono un’unica cosa che poi si scinde per provare nuove strade: Alfredo decide di andare dove vuole andare e Sergio decide di andare dove i passeggeri gli chiedono di andare, un po’ una metafora della vita…
LS: I due fratelli rappresentano ciò che la musica o in generale l’arte è. La musica ti arriva da una sensazione, da uno sguardo, da un sorriso o da un rapporto stretto con una persona. E quando la musica finisce, quando non c’è più una relazione, quando i due fratelli si dividono, la musica scompare. La musica è qualcosa che arriva dalla comunicazione con gli altri, dall’esterno, non è qualcosa che nasce dall’interno, tu sei solo un canalizzatore, più la tua antenna è bassa più dall’alto ti arriva…
Antonio Fresa, quando sali in cattedra il tuo pianoforte come è connesso con i desideri dell’anima? Qual è il volo che vorresti fare? E quello più alto che hai già fatto?
Il volo che vorrei ancora fare è continuare a fare quello che sto facendo: mi sembra la cosa più difficile che esiste, ma io vorrei continuare a dare corso a questo circolo d’energia. Mi sono sempre annoiato a lavorare da solo, l’ho dovuto fare molti anni della mia vita perché sono diplomato in pianoforte, non puoi immaginare quanta solitudine richiede lo studio del pianoforte. però fondamentalmente sono una persona che ama lavorare insieme agli altri. Mi sono ritagliato, infatti, insieme a Luigi e a Luciano, un ruolo di coproduttore per aiutare gli altri, i giovani, a emergere. Voglio cercare di salire sul palco finché ho forza, continuare a scrivere musica e mettere in circolo le idee e la creatività di quelli che mi stanno attorno, mi sembra il volo più alto da fare…
Luciano Stella, cos’è il tempo nel mondo del desiderio? In quale spazio di sogno si muove il volo di Sergio?
Il suo tempo è proprio il tempo della memoria, del presente e di un futuro incerto. In qualche modo lui sta in tutto quello che a qualunque essere umano capita, c’è la compresenza del tempo presente e di altri tempi, il desiderio del futuro, la memoria del passato… Sergio attraversa il disagio dei tempi, non riesce a trovare una stabilità tra presente, futuro e passato, attraversa di fatto tutti i tempi. Il fratello Alfredo, invece, dovendo fare i conti con la forte presenza della fine del tempo – almeno inteso come il tempo della vita – vive una fase estrema che gli consente di vivere il presente, di stupirsi ancora, di svegliarsi, lavarsi, respirare, sentire il fruscio della natura, la musica… Sergio scopre pian piano il tempo del presente con la sua possibilità di cambiamento attraverso il desiderio. Lui desidera incontrare una donna misteriosa, anzi la sua possibilità di equilibrio rinasce dall’innamoramento che mette in luce il tempo del desiderio e della riapertura del cuore a tutti i tempi, il futuro angoscioso, il passato confuso, il presente con un nuovo stato di benessere…
Luciano Stella, cosa hai seminato nell’inverno del tuo film? Cosa è germogliato ora? Cosa raccoglierai e accoglierai nel tuo futuro di produttore?
Il mio futuro ha un desiderio legittimo e semplice che nasce dal percorso, fatto per costruire un film di animazione sull’arte della felicità. Quando si è aperta la possibilità di produrre questo film, c’è stato l’incontro con una serie di persone straordinarie, musicisti, disegnatori, il regista Rak e anche giovani informatici, ragazzi di talento provenienti da tutte le classi sociali della città. L’occasione di aver lavorato con questi talenti più giovani di me, di essere riuscito a non essere banalmente pedagogico e nostalgico per la mia età, di aver avuto un’apertura anche personale a questa differenza di età, di energie, di cultura, si trova tutta dentro il film. Questo è quello che vorrei continuare a fare. Vorrei continuare sulla strada dell’animazione. Da questo mio desiderio è nata una factory, la società MAD Musica Animazione Documentari, dove Mad significa anche Pazzo perché rappresenta la lucida follia di voler tenere insieme i personaggi incontrati nel fare questo film, un calderone di talenti creativi non da imprigionare ma a cui dare un terreno di confronto per favorire altre possibili fioriture…
Luciano Stella, quanto hai dovuto vivere nella stessa gabbia per dimenticarti delle sbarre che ti impedivano di volare via? Sei già volato via o volerai più alto?
Sto nella gabbia ogni giorno, sono incapace di non crearmi gabbie, poiché amo il lavoro e costruire cose finisce per costruire gabbie. L’importante è averne consapevolezza e non averne frustrazione, questo ci rende relativamente imprigionati. Se sappiamo che stiamo anche costruendo limiti siamo sempre in gabbia e mai in gabbia. Nessuno può pretendere di non avere vincoli, l’importante è conviverci con consapevolezza. Il film vuole essere un superamento della gabbia. Anche la gabbia insegna ad accettare i limiti.
Luciano Stella, come è nato 'Fotogrammi di desideri', le cinque anteprime che sono state trasmesse al Modernissimo di Napoli?
Il tema di questa nona edizione come abbiamo detto è il desiderio, come sempre affrontato attraverso conversazioni in case private o in luoghi più ampi, attraverso spettacolo, arte e cinema. Il cinema è sempre stato presente, ma quest’anno abbiamo dedicato vari momenti cinematografici al tema del Desiderio declinato in molti modi…
Luciano Stella, ci racconti quale è stato il programma?
Il cinema, il documentario e non solo, aiutano il confronto emotivo, visivo… c’è uno psicoterapeuta che ha fatto un montaggio di frammenti sul desiderio. Si trattano anche le situazioni sociali di conflitto, di desiderio, di libertà come la situazione palestinese, possono essere desideri di libertà o anche desideri imprigionati che si scontrano e si applicano a tutti noi. Abbiamo proposto al Modernissimo ben cinque anteprime di qualità oltre all'atteso lungometraggio del nostro film: lo spagnolo Arrugas di Ignacio Ferreras, già considerato un piccolo capolavoro dell'animazione per adulti; il documentario dell'artista iraniano Shahram Karimi Open the door realizzato con i detenuti del carcere di Spoleto; Il riscatto di Giovanna Taviani, documentario sull'avventura umana di Salvatore Striano; The black power mixtape dello svedese Goran Ollson sul movimento americano dal 1967 al 1975; 5 broken cameras di Emad Burnat e Guy Davis, primo documentario palestinese candidato quest'anno agli Oscar e già vincitore a Sundance…
Luciano Stella, che regalo ti ha fatto questo lavoro con un’equipe di giovani?
È stato davvero un grande scambio di energia. Alla mia età l’energia va verso la depressione, ma l’esperienza con questi meravigliosi giovani talenti è stata veramente rivitalizzante…
Che cosa possiamo ancora dire di questa meravigliosa esperienza napoletana dentro gli studi di MAD? È come ci avessero trasmesso l’arte della felicità facendoci riflettere sull’importanza del rispetto per l’altro e dell’ascolto dell’altro. Abbiamo visitato gli studi della MAD e incontrato tanti giovani intenti alla creazione delle immagini fantasticando sui loro sogni e desideri e, dalla meravigliosa Piazza del Gesù in cui si trova la società, abbiamo fatto un salto al Monastero di Santa Chiara. Dopo le tre ore di interessante intervista, un’immersione nella quiete e nella bellezza di quest’oasi di pace, ci ha consentito di approfondire la riflessione stimolata. Sfogliando l’opuscolo che ci ha donato Luciano Stella abbiamo poi concluso il viaggio con questa poetica frase: “Se esprimi un desiderio è perché vedi cadere una stella, se vedi cadere una stella è perché stai guardando il cielo, se stai guardando il cielo è perché credi ancora in qualcosa” (Bob Marley).