Nei secoli XVI e XVII mendicità e vagabondaggio hanno costituito in Italia un fenomeno dilagante, dove la miseria del popolo, che la carità pubblica e privata non riuscivano a sollevare, generava anche problemi che oggi chiameremmo di ordine pubblico. Dalla seconda metà del Cinquecento la crisi economica seguita al Sacco di Roma (1527) e alla diminuzione delle entrate provenienti dai paesi protestanti, accentuò drammaticamente i fenomeni della povertà urbana.
Nella città di Roma, in particolare, vagavano torme di miserabili, infittite da immigrati di vario genere che apparivano particolarmente pericolosi: gente senza mestiere, pellegrini arenati nell’Urbe, contadini e braccianti che l’estendersi del latifondo aveva privato della sussistenza. In questa città, oltre che per l’inurbamento, anche per le ricorrenti alluvioni, le carestie e le epidemie, il problema fu particolarmente grave e per contenerlo furono intraprese alcune iniziative e realizzato luoghi di assistenza, definiti complessivamente “luoghi pii”, istituiti e gestiti da vari soggetti: ordini religiosi; benefattori privati; “Università”, cioè associazioni professionali; “Nazioni”, ovvero stati esteri al Pontificio. I “luoghi pii” erano strutture limite tra “ospedale” e “ospizio”, cioè organismi che elargivano cura e contenimento. In entrambi i casi si trattava di fornire ricovero, cibo, cure, ma anche contenimento, a persone che non erano in grado di provvedervi autonomamente, e che per questo stesso fatto costituivano un fenomeno disturbante e allarmante per l’ordinaria gestione della città.
La Chiesa, che nello stato pontificio gestiva anche il potere civile e amministrativo, fu il primo soggetto che in città istituzionalizzò le attività di sostegno ai poveri, esaltandone ideologicamente il carattere religioso e caritativo, ma anche costituendone le forme segreganti. Al fine di tentare di arginare il fenomeno si costituirono organizzazioni stabili e legalmente riconosciute che si prefiggevano di soccorrere poveri, invalidi, orfani, zitelle, vecchi e bisognosi in genere. Vennero edificate quindi strutture apposite, quali orfanotrofi, carceri, conservatori, ospedali, ospizi, come quello che monsignor Tommaso Odescalchi (nipote del futuro papa Innocenzo XI) istituì nel 1673 a Piazza Margana in Rione Campitelli. Quest’ultimo, denominato “Collegio di San Michele dei poveri orfani”, fu trasferito nel 1686 a Trastevere divenendo poi l’Ospizio Apostolico di San Michele, prima significativa e concreta iniziativa volta a risolvere la piaga sociale del pauperismo nella città dei papi.
La costruzione dell’edificio
Il nucleo originario della fabbrica del San Michele fu stabilito nella proprietà Odescalchi immediatamente alle spalle del porto fluviale di Ripa Grande, affinché un nuovo edificio accogliesse gli orfani assistiti dall’opera pia di famiglia e li indirizzasse ad apprendere un mestiere. A questo scopo il progetto comprendeva un lanificio e botteghe artigiane.
Si decise quindi di riorganizzare l’assistenza pubblica di Roma, cominciando con il raccogliere in un’unica istituzione e in un unico luogo l’infanzia abbandonata, e progettando di concentravi anche altre categorie di poveri. Tra ripensamenti progettuali, ampliamenti e lunghi periodi di interruzione dei lavori, l’ambizioso progetto fu portato a termine soltanto dopo 150 anni, soprattutto attraverso i pontificati di Innocenzo XI, Innocenzo XII, Clemente XI e Clemente XII.
L’originario nucleo dell’Ospizio fu la fabbrica, realizzata tra il 1686 e il 1689 su progetto degli architetti Mattia de' Rossi (1637-1695) e Carlo Fontana (1634-1714) destinata a Conservatorio dei Ragazzi.
Il Fontana, architetto, ingegnere e scultore, apparteneva ad una nota famiglia di artisti del Canton Ticino (nato a Rancate il 22 aprile 1638) e giovanissimo si era trasferito a Roma, dove aveva lavorato a Palazzo Montecitorio, alla chiesa di Santa Rita in Campitelli, alla chiesa di Santa Maria dei Miracoli, alla Basilica dei Santi XII Apostoli, alla Biblioteca Casanatense.
Al Conservatorio dei Ragazzi seguirono il Carcere dei Ragazzi (1701-1704), il Conservatorio dei Vecchi e delle Vecchie (1708-1713), la Caserma dei Doganieri (1706-1709), la Chiesa della Madonna del Buon Viaggio (1710-1714), la Chiesa Grande (1710-1715). Edifici tutti progettati da Carlo Fontana, alcuni dei quali ultimati da suoi stretti collaboratori, come l'architetto Nicola Michetti e Filippo De Romanis, che dopo la sua morte nel febbraio del 1714 dettero avvio tra l’altro al Conservatorio delle Zitelle (1719) e alla realizzazione del prospetto sul lato del Tevere (completato nel 1730) che finì per conferire l’unitarietà formale che oggi vediamo all’insieme architettonicamente discontinuo dei molti edifici che nel corso dei decenni erano stati affiancati. Sulla lunghissima facciata modulare ritmata da lesene a tutta altezza che all’interno sostengono archi di irrigidimento, il piano terra è caratterizzato da numerose aperture di accesso a botteghe e taverne, che l’Istituto dava in affitto a privati per attività commerciali e artigianali, come la Taverna Spagnola dove nell’Ottocento erano soliti riunirsi artisti ed intellettuali. Il fiorentino Ferdinando Fuga (1699-1781) in qualità di architetto dei Palazzi Pontifici e noto per aver progettato la facciata della basilica di Santa Maria Maggiore, realizzò infine nel biennio 1734-1735 il Carcere Femminile.
A quest’ultima data il complesso si poteva dire completato, nell’aspetto che conosciamo oggi, con le sue dimensioni rilevantissime: 334 metri di lunghezza, 80 di larghezza media, per una superficie di oltre 2 ettari e mezzo (26.750 metri quadrati). Tuttavia, soltanto nel 1835 la Chiesa Grande fu completata dall’architetto Luigi Poletti (1792-1869), che fu anche insegnante interno all’istituto.
La taverna spagnola
Tra le numerose botteghe e osterie poste a piano terra del palazzo, che l’Istituto affittava a privati al fine di introitare denari, c’era la Taverna Spagnola, dove nel XIX secolo erano si riunivano intellettuali e artisti internazionali. L’Osteria del San Michele, paragonabile all’Antico Caffè Greco di via dei Condotti, svolgeva un ruolo di primo piano nella multiforme vita artistica romana del tempo. Era nota agli intellettuali, oltre che come luogo di aggregazione, anche per gli ottimi vini stranieri, il marsala e i frutti di mare serviti. La Taverna è stata raffigurata dal pittore berlinese Franz Ludwig Catel (1778-1856) nell’opera Il principe ereditario Ludwig di Baviera e i suoi amici all’Osteria Spagnola di Ripa Grande, conservata alla Neue Pinakothek di Monaco di Baviera, la cui riproduzione in scala maggiore è stata recentemente affissa in una parete della stessa Taverna del San Michele. Il dipinto ad olio, firmato e datato 29 febbraio 1824, è fedele esempio dell’atmosfera dell’epoca, all’interno dell’eclettico mondo artistico romano nella prima metà dell’Ottocento, testimonianza della vivacità culturale dell’allora capitale pontificia che in quel periodo assunse, insieme a Parigi, il ruolo di capitale artistica internazionale.
L’opera fu commissionata a Catel da Ludwig von Bayern, autentico amatore d’arte e mecenate di vari artisti. La caratterizzazione dei personaggi, gli oggetti, le bottiglie in primo piano e l’ambiente descritti in modo sottile forniscono a questa opera una vivacità intrinseca, ravvivata da una pittura naturale che fedelmente riproduce la vita all’interno dell’osteria e all’esterno, cioè sul fiume Tevere e sugli argini, con i pescatori e l’atmosfera popolare dell’Urbe. Sullo sfondo, infatti, una grande arcata lascia vedere fuori dal locale con in alto il colle Aventino e le fabbriche dell’Ordine di Malta, e in basso i pescatori attivi nei loro abituali lavori. Il committente dell’opera, il principe ereditario Karl August Ludwig di Baviera della Casa Wittelsbach, asceso al trono di Baviera con il nome di Ludwig I re di Baviera il 13 ottobre 1825, era un grande cultore dell’antico e dell’arte. Con una certa frequenza veniva a Roma, in realtà non solo per motivi culturali, essendo infatti l’amante di Marianna Florenzi, moglie del marchese Ettore. Anche da re manterrà una spiccata sensibilità verso le donne avvenenti, come la ballerina Lola Montez, detta la “spagnola” con la quale avrà una intensa relazione. Il vivace dipinto ci fa rivivere una allegra festa nell’osteria con il principe che brinda assieme ad alcuni artisti suoi invitati, nel quadro si vede infatti a destra il principe circondato da artisti tedeschi e signori della corte fra i quali lo stesso autore Catel. Tra i presenti si distingue Ludwig con il braccio sinistro alzato; facendo il giro del tavolo, alla sua destra si riconoscono il suo architetto personale Leo von Klenze, lo scultore Johann Maria von Wagner, Philipp Veit, J. Nepomuk von Ringseis, Schnorr von Carolsfeld, Hofmarschall von Gumppenberg, Franz Catel, che si è raffigurato con matita e album di schizzi, il conte K. Seinsheim, e il più noto tra i presenti, lo scultore danese Bertel Thorwaldsen (1770-1844). Sulla sinistra si vede anche l’oste Raffaele Anglada (o Aglada) porgere altre bottiglie di vino al gruppo di amici colti nell’atto di brindare.
Franz Ludwig Catel nasce a Berlino nel 1778, figlio di un negoziante di giocattoli con poco interesse per la scuola, aveva inizialmente con il fratello maggiore Ludwig avviato una fabbrica di marmi. Franz, tuttavia, parallelamente a questa attività disegnava per conto di alcuni editori vedute e paesaggi. Nel 1811 arriva a Roma dando una svolta positiva alla sua vita: qui infatti troverà monumenti e prospettive che riprese con grande capacità e che, essendo anche valido uno d’affari, vendeva a prezzi considerevoli.
La produzione e la figura di Catel va tuttavia analizzata anche considerando la grande fortuna che ebbero, in quel periodo, la pittura di genere e quella di paesaggio, in conseguenza al mutamento della richiesta della committenza e del mercato che precedentemente prediligeva la “pittura di storia”. Naturalmente Franz dalla vicinanza e l’amicizia con il principe trasse vantaggio, ricevendo ordinazioni anche dai membri della casa reale prussiana residenti a Roma, quali il principe Heinrich di Prussia e il conte Jugenheim. Ecco perché tra gli acquirenti delle sue opere troviamo nobili, mecenati, nobildonne, letterati, alti prelati. Il pittore divenne ben presto uno dei maggiori testimoni delle dinamiche artistiche romane, sulla scia di un facile successo economicamente molto remunerativo. È proprio grazie ad un cospicuo lascito che il Pio Istituto Catel, nato secondo una sua volontà, opera ancora oggi nella sede di Trastevere a favore di giovani artisti sconosciuti e bisognosi, rispettando il desiderio dell’artista tedesco.