La Basilica di Santa Cecilia sorge a Roma, nel Rione Trastevere, sulla casa familiare di una giovane chiamata Cecilia. Questa è stata una nobile romana convertita al cristianesimo, vergine e martire, uccisa intorno al 230 d.C. Oggi è Patrona dei musicisti.

La ragazza convertì il marito Valeriano, nobile cavaliere romano. Si racconta che il giorno delle nozze nella casa di Cecilia risuonassero organi e lieti canti ai quali la ragazza, accompagnandoli, cantava nel suo cuore: “conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa”. Da questo dettaglio è stato tratto il merito di protettrice dei musicisti.

Prima di sposarsi, il giorno del matrimonio, Cecilia riferì al futuro sposo il suo voto di perpetua verginità, dicendogli: “Nessuna mano profana può toccarmi, perché un angelo mi protegge. Se tu mi rispetterai, egli ti amerà, come ama me”. Valeriano accettò e la prima notte di nozze ricevettero il battesimo da papa Urbano I (222-230).

Qualche giorno dopo Valeriano tornando a casa vide Cecilia prostrata nella preghiera con un giovane: era l'angelo che vegliava su di lei. Insospettito, chiese una prova dell'effettiva natura angelica di quella presenza che fece apparire due corone di fiori ponendole sul capo dei due sposi. Ormai credente convinto, Valeriano pregò affinché anche il fratello Tiburzio ricevesse la stessa grazia e fu esaudito.

Ma la persecuzione verso i cristiani imperversava e il prefetto Almachio condannò a morte Valeriano e il fratello, per aver dato sepoltura a cristiani giustiziati. Prima del supplizio i due convertirono il loro carceriere, Massimo. Subirono il martirio il 14 aprile del 229 e furono sepolti da Cecilia in una località posta a quattro miglia da Roma definita Pagus.

A Cecilia fu imposto il supplizio per tre giorni nel calidarium di un vasto complesso posto nei sotterranei denominati oggi “bagno di Santa Cecilia”, ma i caldissimi vapori non fecero soffocare la giovane che ebbe la forza di cantare lodi al Signore. Allo scadere del terzo giorno i suoi aguzzini la decapitarono ma la giovane non morì, restando per tre giorni agonizzante. Correva l’anno 230. Fu Urbano I, testimone del supplizio, a renderle degna sepoltura nelle catacombe di San Callisto.

Rifacimenti, aggiunte e nuove edificazioni

La casa della martire, già trasformata in Titulus denominato Caeciliae, grazie alla volontà di Gregorio Magno (540-604), divenne chiesa. Nel tempo questa ha subito continue aggiunte e rifacimenti, papa Pasquale I nel IX secolo la fece ampliare in forma basilicale facendovi traslare il corpo di Cecilia. Tra il XII e il XIII secolo, si edificò il maestoso campanile, il portico e il chiostro. Alla fine del XIII secolo il grande artista romano Pietro Cavallini (1250-1330) decorò la chiesa con affreschi di cui si conserva il solo frammento del Giudizio Universale. Negli stessi anni veniva compiuto il monumentale ciborio di Arnolfo di Cambio.

Alla metà del XV secolo, in piena rinascenza economica e culturale, le navate laterali furono coperte da volte e realizzata la Cappella della famiglia Ponziani decorata da affreschi.

Sempre Pasquale I edificò l’attiguo Monastero, dove, lungo i secoli, si sono susseguite differenti presenze monastiche. Inizialmente, questo fu abitato dagli Umiliati, dediti all'arte della lana, il cui ordine fu soppresso nel XVI secolo. Rifondato il 25 giugno 1527 fu affidato ad un gruppo di monache Benedettine che nel 1935 cederono l’ala destra della fabbrica alle Suore Francescane del Cuore Immacolato di Maria. Nel 1637 si costruirono nuove celle.

Nel 1599, durante i lavori di restauro commissionati dal cardinale milanese Paolo Emilio Sfondrati, si aprì il sepolcro di Cecilia, facendo così rinvenire il corpo con le ferite sul collo.

Allo scultore Stefano Maderno (1576-1636) fu affidato l’incarico di realizzare una statua in marmo bianco, che secondo la tradizione riproduce l’esatta posizione in cui fu ritrovato il corpo della Santa. Il capolavoro del Maderno vede raffigurato il corpo di Cecilia, che ricollegandosi alla Legenda aurea di Jacopo da Varagine, comunica l’eloquente messaggio della giovane che con la mano destra forma il numero tre e con la sinistra il numero uno, ad indicare le tre Persone della Santissima Trinità ma un’unica sostanza, ma anche i tre colpi di lama subiti nella decapitazione. Sul collo si vedono infatti i tre tagli da cui esce del sangue, il capo reciso è avvolto delicatamente da un sudario. La scultura realizzata nel 1600 è oggi collocata sotto l’altare.

A partire dal XVI secolo, la basilica fu continuamente restaurata, rispettivamente, per cura dei cardinali Giacomo Doria e Francesco Acquaviva, con l’aggiunta della facciata barocca monumentale che conserva le antiche colonne in breccia africana e in granito rosa ad opera dell’architetto fiorentino Ferdinando Fuga (1699-1782). La data precisa nel quale la facciata fu costruita si evince dalla iscrizione collocata sul cornicione che cita il committente dell’opera: “Troiano Acquaviva S.R.E. Card.”, titolare della basilica dal 1724 al 1748, anno della morte.

Nel 1929 fu ridisegnato il giardino e venne presa la decisione di spostare al centro l’enorme e straordinario cantharus romano (vaso cinerario) precedentemente ubicato sul lato destro.

L’interno della basilica, diviso in tre navate, annovera nel catino absidale il mosaico che rappresenta il Redentore benedicente con i santi Paolo, Cecilia, Pietro, Valeriano e Agata insieme al Papa Pasquale I raffigurato con il modellino della chiesa realizzato nel IX secolo. In controfacciata, Pietro Cavallini realizza alla fine del XIII secolo il Giudizio Universale. Sulla volta nel 1727 Sebastiano Conca realizza l’affresco con l’Apoteosi di Santa Cecilia.

Nel 1824, su incarico del cardinale titolare Giorgio Doria, le colonne interne della basilica furono inglobate in pilastri possenti e le sovrastanti arcate furono alternate ad architravi.

Alla fine del XIX secolo nei sotterranei della chiesa sono stati riportati alla luce alcuni ambienti riferibili a un impianto termale e ad abitazioni antiche di cui rimangono i pavimenti a mosaico bianco e nero. Ma è nel presbiterio che nel 1293 viene realizzato il capolavoro gotico firmato di Arnolfo di Cambio: il ciborio in marmi neri e bianchi.

La basilica, nonostante le varie fasi edificatorie rimane un compendio armonioso di differenti periodi dell’arte, che è riuscito a salvaguardare una sua mistica unicità nel solco di Santa Cecilia.

Il ciborio gotico

Arnolfo di Cambio nato in provincia di Siena nel 1245 fu scultore e architetto, attivo in particolare a Roma e Firenze. Il ciborio, firmato dall’artista toscano e datato 1293 della chiesa di Santa Cecilia in Trastevere è un connubio di architettura e scultura, si presenta infatti come un grande edicola impostata su quattro colonne di riuso rivestita di forme gotiche.

Tra gli elementi dichiaratamente gotici di quest’opera abbiamo gli archi Trilobati a traforo; i pennacchi con i bassorilievi; i bassi timpani con i piccoli rosoni sostenuti da angeli; i pinnacoli non molto alti e sporgenti; le edicolette. Tuttavia gli archi acuti non sono aguzzi ma molto ribassati dando al ciborio una leggerezza e una compostezza che sembrano classiche.

Arnolfo, già otto anni prima, nel 1285, aveva eseguito un altro ciborio, quello della basilica di San Paolo fuori le mura. Carico di cultura gotica rielaborata con figure classiche, annovera un perfetto equilibrio tra guglie e frontoni, l’arco gotico racchiude elementi trilobi. Arnolfo lavora in San Paolo con Pietro, forse Cavallini.

Rispetto a quello, lo scultore toscano diminuì a Trastevere la verticalità gotica, aumentò la visione in movimento, ruotando i pinnacoli, dimostrando di aver metabolizzato l’arte classica con alcune citazioni, come nella rappresentazione di San Tiburzio a cavallo posto in uno degli angoli del ciborio derivante dalla statua equestre bronzea del Marco Aurelio.

I restauri prima del Giubileo del 2000

L’ultimo restauro globale effettuato sul monumento risale al periodo antecedente il Grande Giubileo del 2000 quando si è avviata sia la conservazione della struttura architettonica che il trattamento degli intonaci, delle finiture, dei rilievi e delle decorazioni.

Nel 1978 la Soprintendenza di Stato avvia una vasta ricognizione sul complesso monumentale per valutare lo stato di degrado della chiesa. Negli anni seguenti fu avviato un primo esteso programma di restauro ad iniziare dalle coperture dell’abside, per poi proseguire con il rifacimento delle coperture della navata centrale e delle navate laterali.

Seguirono consolidamenti della volta settecentesca che presentava segni di un abbassamento progressivo causato dal carico delle sue stesse strutture non più sostenuto dalle armature lignee ormai fatiscenti e lesionate.

Dal 1978 al 1990 Responsabile del progetto e direttore dei lavori è stato l’architetto Bernardo Meli; dal 1990 al 2000, Responsabile del progetto e direttore dei lavori è stata l’architetto Patrizia Marchetti, entrambi della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Roma. Nel 1980 furono restaurati gli affreschi del Cavallini raffiguranti il Giudizio Finale e protetti da quelle infiltrazioni di acqua che avevano contribuito al loro deterioramento, mediante una serie di opere murarie sulle pareti d’ambito e sulle coperture.

In quello stesso periodo è stato condotto l’intervento di restauro al campanile medievale che per le vibrazioni dovute all’oscillazione delle possenti campane e per vetustà delle strutture presentava lesioni passanti, fessurazioni di grave entità e una forte inclinazione.

Nei primi anni Ottanta vennero condotti scavi archeologici volti al ritrovamento dell’antico calidarium e al battistero a pareti curvilinee risalente ai primi secoli del cristianesimo e furono compiuti lavori di deumidificazione del lato destro della basilica.

Prima del Giubileo, nel corso del 1998, sono stati restaurati i prospetti esterni della basilica, in condizioni di forte degrado da non far più risaltare la spettacolare architettura barocca della facciata, del cortile e del porticato di accesso.

Conclusioni

“Questa chiesa, notevole per tanti aspetti, costituisce una via alla scoperta del senso della religiosità e del mistero di Dio attraverso la bellezza degli artisti che a tale mistero di sono ispirati. È un’altra forma di predicazione, talvolta più efficace delle parole, una via che conduce a Dio nel fascino dell’arte” (Guerino Di Tora, dalla presentazione al libro di Patrizia Marchetti, “Santa Cecilia in Trastevere. Storia e restauro”, Gangemi Editore, Roma 1999).