In epoca moderna il primo intervento di restauro che modifica la struttura muraria interna della Cattedrale Lateranense fu realizzato, tra 1592 ed il 1601, durante il pontificato di Clemente VIII (1592-1605). In occasione del Giubileo del 1600, papa Aldobrandini, all’interno del suo programma culturale che attuava i principi della Controriforma, decise di compiere una ristrutturazione della più importante basilica simbolo della chiesa primitiva: San Giovanni appunto. Clemente fece ricostruire il transetto su progetto di Giacomo della Porta, dopo la demolizione del transetto medievale costruito tra il 1141-1142 sotto Innocenzo II (1130-1143), e comprese nei lavori il restauro delle Sagrestie poste oltre il braccio sinistro del transetto.

Tuttavia fu lo straordinario e definitivo restauro compiuto da Francesco Borromini tra il 1646 ed il Giubileo del 1650 il secondo e decisivo intervento di restauro capace di lasciare un segno indelebile alla basilica.

Per questo motivo la controfacciata concava del tempio contiene una grande epigrafe commemora di questo restauro voluto da Innocenzo X (1644-1655):

Innocentius x
pont.ma
Lateranensem basilicam
Constantini Magni Imperatoris
religione ac munificentia extructam
summorum pontificum pietate
saepius instauratam
vetustate iam
fatiscentem
nova molitione ad veterem
ex parte adhuc stantem conformatam
ornatu spendidiore restituit
anno iubilaei MDCL pont.vi.

È infatti durante il pontificato di papa Pamphili che si svolsero i lavori che ci restituiscono l’aspetto odierno dell’interno dell’edificio, dall’ingresso principale fino al transetto.

Nell’aprile 1646 la chiesa di San Giovanni si presentava molto degradata e con gravi problemi statici, nonostante episodici interventi di consolidamento le pareti della navata maggiore erano disallineate di circa mezzo metro e le colonne dell’arcata della navata stessa erano troppo deboli per sopportare il peso delle pareti. Innocenzo X decise quindi di porre mano alla sistemazione della chiesa, uno dei più venerati simboli del cristianesimo primitivo, entro l’anno giubilare del 1650.

Il papa scelse come soprintendente dei lavori per l’impegnativo restauro il suo elemosiniere segreto, Virgilio Spada, e l’architetto da lui consigliato: Francesco Borromini.

L’intervento borrominiano si svolse con grande rapidità: per la fine del 1647 la struttura era completata, per l’ottobre del 1648 era finita la copertura delle navate minori, e per l’ottobre del 1649 era terminata anche la decorazione in stucco dell’interno. Ma il risultato di questa sistemazione si presenta come il frutto della commistione tra il progetto originario, che comprendeva la sostituzione del soffitto a lacunari della navata centrale con una grandiosa volta a botte sorretta da pilastri, e l’imposizione del pontefice e del Capitolo del Laterano di mantenere intatte le linee generali della struttura dell’edificio (principalmente per quanto riguardava la divisione a cinque navate ed il soffitto ligneo della navata maggiore), limitando gli stravolgimenti strutturali e, probabilmente, le conseguenziali spese.

Quindi furono ristrutturate le cinque navate, ma non venne toccata la facciata, né si apportarono modifiche alle misure fondamentali della basilica, che fino a quel momento aveva sostanzialmente mantenuto l’aspetto paleocristiano sia all’esterno che all’interno. Nonostante questo, degli antichi interventi artistici rimase ben poco, ed i dipinti eseguiti nel periodo di Sergio III (904-911), come gli affreschi di Gentile da Fabriano e di Pisanello compiuti entro il Giubileo del 1450 durante i sostanziali lavori di Martino V (1417-1431) ed Eugenio IV (1431-1447), furono cancellati.

Borromini abbatté e ricostruì completamente le navate laterali perché erano troppo basse e male organizzate, mentre, nella navata centrale, si concentrò sulla sistemazione delle pareti “sudando sangue” (come scrisse) per salvaguardare la copertura cinquecentesca.

Nel 1651 restaurò anche il pavimento quattrocentesco, composto secondo lo stile cosmatesco, da marmi policromi, alcuni di origine romana, e già più volte restaurato, mantenendone lo stemma di Martino V, mentre sostituì il pavimento nelle quattro navate laterali.

Restauri alla navata maggiore

La navata maggiore ha una lunghezza fino all’abside di 130 metri ed una altezza di 30 metri, al di sopra del quale si trova il soffitto a lacunari.

Il Borromini modulò le pareti della navata centrale costruendo, per ogni lato, cinque grandi arcate, ottenute inglobando in una muratura le antiche colonne di granito, trasformandole così in doppi pilastroni alti fino al soffitto. Divise ulteriormente la parete ottenuta con un cornicione orizzontale, il quale interseca le paraste che decorano i pilastri.

Il numero di questi pilastroni è dodici partendo dalla controfacciata, sei per lato. All’interno sono inseriti altrettanti tabernacoli decorati da una cornice in pietra paonazza, preceduta da due colonne di marmo verde antico, provenienti dalle navate minori, che sostengo a loro volta un timpano convesso, contenente la colomba pamphilia, simbolo della famiglia di Innocenzo X.

Non è chiaro cosa dovessero contenere questi tabernacoli nel progetto decorativo del Borromini, alcune fonti parlano delle statue degli Apostoli più quelle dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, altri ritengono che avrebbero dovuto ospitare quattro Evangelisti e otto Dottori della Chiesa. Certo è che questi spazi riceveranno le grandi statue degli Apostoli, che li ornano attualmente, solo nel secolo successivo, durante il pontificato di Clemente XI (1700-1721).

Le nicchie, o più propriamente tabernacoli, secondo la definizione di Carlo Fontana, sporgono dalle pareti seguendo una sezione ovale ed inserendo un elemento di movimento nelle linee costruttive della navata, a questo si aggiunge il forte contrasto cromatico, dato dal verde delle colonne di marmo ed il grigio scuro del bardiglio nero dei basamenti e dei frontoni, che si scontrano con il bianco dei piedritti e dei pilastri. L’innegabile valore coloristico, e quindi estetico, di questi marmi, fu accompagnato anche da motivazioni pratiche, come testimonia, per la scelta del bardiglio, uno dei numerosi documenti che ci ha lasciato Virginio Spada, in cui afferma di preferire quest’ultimo materiale perché “...non patisce le macchie ne insudicia come il bianco…”.

Importante elemento della progettazione borrominiana fu la controfacciata concava su cui si apre la navata, nella quale costruì le prime due nicchie, e che avrebbe dovuto fungere da raccordo con la mancata copertura a botte del soffitto. Questa e arricchita con una “scenografia” fortemente barocca, in cui si creano particolari giochi di luce grazie ad un finestrone, che illumina teatralmente una colomba che sbuca tra le nuvole, insieme simbolo dello Spirito Santo e della famiglia Pamphili.

La decorazione della navata si sviluppa lungo i pilastri in tre fasce orizzontali, la prima composta dalle nicchie con le statue degli Apostoli inseritevi tra il 1705 ed il 1718; al di sopra, una seconda fascia con riquadri ad altorilievo in stucco disegnati da Alessandro Algardi e realizzati da scultori coevi, tra il 1648 ed il 1649, raffiguranti scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, che riprendono la decorazione dell’antica basilica costantiniana; infine, nella fascia più alta, tra le dieci finestre rettangolari, limitati da cornici a stucco e coronati da timpani mistilinei che sovrastano le arcate tra i pilastri, dodici ovali a festoni di palme con figure di Profeti, realizzati ad olio su tela entro il 1718, e coronati da un fregio con monogrammi costantiniani, colombe con il ramo d’ulivo, palme incrociate, festoni di lauro.

Le sculture con gli Apostoli e i dodici ovali con Profeti

Andando quindi ad analizzare la decorazione di ogni singolo pilastro possiamo ricostruirla come segue, a sinistra, dall’esterno verso l’abside, dal basso verso l’alto:

  • S. Simone” di Francesco Moratti, “Giona nel ventre del pesce” di Gervaise de Ruonet; “Michea” di Pierleone Ghezzi;
  • S. Bartolomeo” di Pierre Le Gros, “Mosè conduce gli ebrei fuori dall’ Egitto” di Michel Anguier, “Abdia” di Giuseppe Chiari;
  • S. Giacomo Minore” di Angelo de’ Rossi, “Giuseppe venduto dai fratelli” di Francesco Pinazzi, “Joele” di Luigi Garzi;
  • S. Giovanni” di Camillo Rusconi, “il Sacrificio di Isacco” di Domenico Rossi, “Daniele” di Andrea Procaccini;
  • S. Andrea” di Camillo Rusconi, “Le Reliquie dei viventi salvate nell’arca” di Michel Anguier, “Baruch” di Francesco Trevisani;
  • S. Pietro”, di Pierre Monnot, “Adamo cacciato dall’Eden” di Giovan Battista Morelli, “Isaia” di Benetto Luti.

A destra della navata centrale, dall’esterno verso l’abside, dal basso verso l’alto abbiamo:

  • S. Taddeo” di Lorenzo Ottoni, “la Resurrezione” di Giovanni Lazzoni, “Nahum” di Domenico Maria Muratori;
  • S. Matteo” di Camillo Rusconi, “Cristo al Limbo” di Giovan Francesco Rossi, “Giona” di Marco Benefial;
  • S. Filippo” di Giuseppe Mazzuoli, “Cristo venduto” di Alexandre Grenoble, “Amos” di Giuseppe Nicola Nasini;
  • S. Tommaso” di Pierre Le Gros, “Cristo con la croce” di Antonio Raggi, “Osea” di Giovanni Odazzi;
  • S. Giacomo Maggiore” di Camillo Rusconi, “Battesimo di Cristo” di Antonio Raggi, “Ezechiele” di Giovan Paolo Melchiorri;
  • S. Paolo” di Pier Monnot, “Il buon ladrone accolto in Paradiso” di Michel Anguier, “Geremia” di Sebastiano Conca.

I rilievi in stucco sono coevi al restauro giubilare del 1650, pertanto furono concepiti sotto la direzione di Virginio Spada. In principio intesi come modelli che in seguito avrebbero dovuto essere sostituiti da rilievi bronzei, non furono poi più tolti, ed assunsero il valore di una decorazione permanente.

L’intervento dello Spada riguardò anche la loro definizione iconografica, che venne stabilita in accordo con l’erudito Annibale Albani, custode della Biblioteca Vaticana. Le scene furono consapevolmente scelte per far coincidere parallelamente i contenuti del Vecchio e del Nuovo Testamento, e nello stesso tempo imitare la decorazione paleocristiana della basilica.

Gli spazi occupati dai profeti erano stati lasciati liberi dal Borromini, in modo tale da permettere la vista del muro dell’antica basilica costantiniana. La scelta era motivata dal desiderio di assecondare la linea ideologica del pontefice, che vedeva in San Giovanni in Laterano una grandiosa reliquia, le ghirlande diventarono così dei reliquari che esponevano la porzione del muro “sacro” della “prima basilica cristiana”.

Come accennato, il completamento della decorazione della navata centrale borrominiana, composto dall’inserimento delle statue degli Apostoli nelle nicchie e dai dipinti dei Profeti negli ovali, avvenne durante il pontificato di Clemente XI, e rappresentò indubbiamente una pietra angolare del suo programma artistico per la città di Roma. Programma che prevedeva, non solo la continuazione delle opere dei precedenti papi, ma anche il restauro degli edifici paleocristiani più importanti, tra cui il Laterano naturalmente primeggiava.

Ma le aspirazioni papali si scontrarono con il costo eccessivo dei lavori, sia per le dodici statue che per le tele dei profeti, che vennero in parte realizzate grazie alle donazioni di vari personaggi dell’epoca. Per quanto riguarda gli Apostoli, ricordiamo il re di Spagna Pedro II che commissionò il S. Tommaso di Pierre Legros, ed il S. Bartolomeo, sempre dello stesso autore, finanziato dal card. Lorenzo Corsini, poi papa Clemente XII, o il S. Giovanni di Camillo Rusconi, commissionato dal card. Benedetto Pamphili.

Anche se Clemente XI si interessò considerevolmente delle sculture, molte delle decisioni principali furono prese da una Congregazione, un comitato nominato dal papa, con a capo il card. Benedetto Pamphili, con Giulio Bussi e Monsignor Curtio Origo che si occupavano del lavoro giornaliero e Orazio Albani, fratello del papa, presente essenzialmente come suo emissario, per riferirgli personalmente sul progresso del lavoro.

La direzione artistica del progetto fu invece il frutto della collaborazione di un architetto, Carlo Fontana, e di un pittore, Carlo Maratta. Il primo diede una consulenza che riguardò le dimensioni ed i rapporti che le statue avrebbero dovuto avere in funzione dei tabernacoli che le ospitavano, il secondo fornì i disegni per le statue.

Tra le statue degli Apostoli primeggiano per qualità e forza compositiva le quattro di Camillo Rusconi, realizzate tra il 1708 ed il 1718 (S. Andrea, S. Matteo, S. Giacomo Maggiore, S. Giovanni Evangelista). Qui il Rusconi si presenta con una soluzione sintattica nuova tra la cultura barocca e quella rococò. La materia delle statue è scolpita con una forza pittorica che predilige l’affiorare della luce dal modellato stesso del marmo attraverso la caratteristica lavorazione a gratinato, la pietra è cioè scalpellata in modo da lasciare il segno della raspa senza levigature successive, così da ottenere una sorta di “non finito”, che crea un complesso gioco di profili tra i volumi compenetrati dalla luce. A questo si aggiunge la costruzione complessiva degli Apostoli, ognuno si pone in obliquo con tre punti di vista diversi rispetto alla nicchia, alleggerendo così la figura altrimenti colossale.