Chi si trovasse a Roma dalle parti di piazza santi Apostoli, su via Quattro Novembre scoprirà una stradina che giunge fino all’inizio dei Mercati Traianei: è via dei Fornari. Se si esclude la suggestione di uno squarcio su via dei Fori Imperiali, l’importanza di questa via è racchiusa tutta in una targa che ricorda che qui sorgeva l’abitazione romana del più grande artista di tutti i tempi: Michelangelo Buonarroti.
Idolatrato, odiato, amato ed invidiato da pontefici e da regnanti, da artisti e dalla gente comune, Michelangelo fu uno dei rari esempi di genio riconosciuto ed apprezzato universalmente in vita, diremmo oggi un uomo arrivato al massimo della gloria. Eppure non si godette mai questi onori, fu sempre scontento della sua esistenza tanto da lasciare ai posteri queste amare parole (riportate da padre Francesco Avidano nel Segreto della felicità) pronunciate poco prima di morire: "Ho camminato lunghi anni per giungere alla mia ultima ora, ed io finalmente, ma troppo tardi, ti conosco mondo miserabile ed insensato! Ora so quali sono le tue gioie, va ora a promettere ad altri la pace che tu stessa non hai mai conosciuto!". In questo articolo non ci proponiamo di parlare della grandezza dell’artista e delle sulle opere, fin troppo conosciute, ma del Michelangelo privato, un uomo ancora tutto da scoprire.
Un'infanzia difficile
Era nato, possiamo dire per sbaglio, nella cittadina aretina di Caprese, nel 1475, in Valtiberina, da Ludovico Buonarroti Simoni e Francesca di Neri del Miniato del Sera. Suo padre era stato inviato in questo piccolo centro con l’incarico di podestà per un solo anno, altrimenti il nostro artista sarebbe nato certamente a Settignano, dove da più di un secolo risiedeva la sua famiglia. Ma chi erano i Buonarroti?
Già nel 1197 appare, nelle cronache di Firenze, un certo Buonarrota, tra i protagonisti della cruenta guerra civile tra clero e popolo fiorentino. Questa famiglia che solo con Ludovico, il padre dell’artista, divenne Buonarroti, apparteneva alla piccola nobiltà fiorentina, lasciando credere, senza alcuna prova, di essere discendente niente meno che della famosa Matilde di Canossa; leggenda a cui tutti in famiglia, compreso lo stesso Michelangelo, amavano prestar fede.
A sei anni per il piccolo cominciarono le prime dolorose prove della vita con la morte della madre, a cui era attaccatissimo: era solo l’inizio. Il padre era un tipo dispotico che non andò mai d’accordo con lui e le cose certo non andarono meglio quando convolò a nozze per la seconda volta; tuttavia non fu mai un padre assente nell’educazione del figlio. Volle, anzi, dargli un’educazione umanista, come si usava allora presso le famiglie di un certo prestigio; suo avo fu Francesco Urbino, detto il Greco, per la profonda conoscenza di questa lingua e anche scrittore di testi minori in latino. Aspetti educativi questi che susciteranno, nell’animo del fanciullo, la ricerca del bello, dell’armonia e, soprattutto, della poesia a cui rimase legato per tutta la vita, come leggiamo in una delle sue famose Rime: “Ma se l'arte rimembra agli anni la beltà per durare ella, farà me lieto, ond'io le' farò bella.”
La poesia sarà per lui una vera fonte di serenità, come hanno osservato alcuni critici, facendolo considerare tra i maggiori poeti lirici del nostro Cinquecento. Ma se il Buonarroti era delicato (quasi crepuscolare) nelle sue Rime, altrettanto non si poteva dire nella vita di tutti i giorni. Fin da ragazzo mostrò un carattere chiuso, taciturno, assai irascibile e permaloso. Con questo carattere non fu certamente, come altri artisti suoi contemporanei, un bontempone. Questo suo essere introverso, secondo alcuni, lo si deve probabilmente al rapporto conflittuale con il padre, al disprezzo che spesso mostravano per lui i suoi stessi famigliari e, forse, anche per un episodio poco conosciuto come l’impiccagione, in piazza della Signoria a Firenze, di Jacopo de’ Pazzi, autore della famosa congiura contro i Medici, osservata in braccio al padre come ad uno spettacolo.
Questa visione lo turberà per molto tempo; un incubo che trasporrà anche nelle sue opere dove difficilmente troveremo la serenità dell’anima.
A bottega dal Ghirlandaio
Ancora giovanissimo, oltre gli studi umanistici, sentì subito un’attrazione per l’arte: per la pittura, ma soprattutto per la scultura che gli entrò nel sangue fin dalla più tenera età, e non è solo un modo di dire. La madre, essendo priva di latte, lo affidò ancora neonato alle cure di una balia, certa Albizzina, donna di Caprese e moglie proprio di uno scalpellino che s’ingegnava anche in piccoli lavori di scultura. Comunque, negli anni dell’adolescenza, questa passione gli creò non pochi problemi in famiglia. Ebbe, infatti, furiosi scontri con il padre che non voleva assolutamente che il figlio si avviasse alla carriera artistica, disdicevole per una famiglia di nobili origini: Michelangelo si sarebbe dovuto applicare unicamente agli studi letterari e, un domani, seguire le orme paterne con un impiego soddisfacente. Un suo amico, Francesco Garracci, che già lavorava presso il celebre Domenico Ghirlandaio, resosi conto della sofferenza di Michelangelo per non poter studiare in una bottega d’arte, cominciò a portagli di nascosto alcuni disegni del suo maestro affinché li potesse studiare e riprodurre.
L’impegno e la passione del giovane furono grandissimi e i risultati non tardarono a venire. I disegni di Michelangelo, realizzati con la tecnica semplice del carboncino, furono visti e apprezzati dallo stesso Ghirlandaio che lo volle a bottega da lui, convincendo il padre che in casa aveva un vero genio. Vista la bravura del figlio e le lodi di un grande maestro così noto a Firenze, Ludovico decise finalmente di fargli intraprendere la via dell’arte anche perché, fatto quasi unico per quei tempi, il Ghirlandaio, ritenendolo assai bravo, gli riconobbe un salario, cosa che gli altri lavoranti potevano solo sognare (ma i soldi del giovane andarono interamente nelle tasche paterne).
Il 1487, l’anno trascorso in bottega, fu assai formativo per il giovane artista. Si trovava proprio nel suo ambiente: colori, pennelli carta, crete, pietre, insomma, un vero piccolo paradiso in terra. Inoltre godeva della massima fiducia del maestro e della stima dei suoi compagni. Era il primo ad entrare e l’ultimo ad uscire. La sua passione lo portò a studiare sempre nuove tecniche e nuovi soggetti per i suoi studi. Non accontentandosi più di ciò che trovava in bottega, cercava altrove, anche per i mercati della città, nuove idee ed ispirazioni. Per citare solo un caso, era diventato un esperto nel comprare il pesce, non per cucinarlo, quanto per dipingere le figure mostruose attraverso i colori cangianti delle loro squame e lo stesso faceva con i banchi di macelleria quando cercava un soggetto cruento.
Ma se Michelangelo aveva l’arte nel sangue, aveva certamente un gran talento anche per gli affari. Avendo compreso di avere una grande facilità nel copiare opere del passato, soprattutto disegni, li invecchiava con del nerofumo o altri ritrovati e l’effetto doveva essere notevole se molti, anche esperti mercanti d’arte, diventavano suoi acquirenti. E’ uno stratagemma truffaldino che usò diverse volte agli inizi della sua carriera. La sua bravura e competenza lo facevano stimare, come abbiamo accennato, dal suo maestro, il Ghirlandaio, con il quale lavorò, ancora giovanissimo, agli affreschi della cappella centrale di Santa Maria Novella. In una lesena della pala d’altare, ispirata alla figura di san Giovanni Battista, il maestro lo volle ritrarre addirittura come il santo da giovane che si ritira nel deserto con in mano un bastone da viandante. Nel quadro osserviamo un volto dolce, di giovinetto aggraziato, ben lontano dall’immagine adulta che ci è rimasta di lui, raffigurato con il volto dai lineamenti duri, "come un cuoio mal battuto" come lo descrisse un suo contemporaneo, e con un naso che oggi potremo definire da pugile.
Michelangelo non era nato con questa malformazione al naso, derivata da un incidente provocato dalla sua insolenza. Un suo compagno di studi, un certo Torregiani, anch’egli artista che lavorava come scultore presso i giardini medicei, un giorno, stanco delle continue critiche di Michelangelo alle sue opere, in un impeto di rabbia, gli sferrò un pugno proprio sul naso lasciandolo a terra privo di sensi. Lo scandalo fu enorme e il giovane scultore dovette riparare in gran fretta, per non finire in carcere, prima in Francia e poi in Inghilterra dove morì.
Ma torniamo alla bottega del Ghiberti. Si narra che un giorno il maestro, dovendosi allontanare per affari, lasciasse il giovane Michelangelo a gestire la bottega e i suoi allievi. La tentazione di avere tanto potere lo rese temerario al punto da intervenire su un lavoro dello stesso Ghirlandaio. Prese, dunque, pennelli e colori e notte tempo, senza essere visto da alcuno, vi aggiunse un ponte, oggetti agricoli e gente a lavoro nei campi. Al ritorno il Ghirlandaio si accorse perfettamente dell’aggiunta pittorica del suo allievo, ma, essendo una persona onesta, invece di punirlo non esitò a dichiarare pubblicamente che “il suo discepolo aveva superato il maestro”. Era la consacrazione del genio di Michelangelo.
Alla corte del Magnifico
Ma la riconoscenza, si sa, non è sempre di questo mondo. Michelangelo aveva un contratto che lo legava al Ghiberti fino al 1490, dunque altri tre anni di bottega, mentre lui si sentiva già un artista pronto a spiccare il volo: non dimentichiamo che stiamo parlando di un ragazzino di appena tredici anni! Venuto a sapere della libera scuola di scultura presso i giardini medicei, voluta da Lorenzo de’ Medici, non esitò a rompere l’impegno con il vecchio maestro per entrare in questa nuova avventura. Il Ghirlandaio fu certamente deluso dalla scelta del suo pupillo, ma non gli portò mai rancore, riconoscendo, anzi, che un siffatto genio certo non poteva rimanere con lui per sempre.
L'ingresso nella scuola medicea non era facile, bisognava superare degli esami e delle prove, ma il nostro giovane, consapevole delle proprie doti artistiche, cercò subito d’imporsi e di farsi apprezzare. L’occasione arrivò dovendo scolpire la figura di un vecchio fauno nel giardino della scuola. Si narra che, mentre Michelangelo stava lavorando all’opera, passava per quel viale “il Magnifico” che, con aria sorniona, guardò sia l’artista che la scultura, poi, divertito, gli fece notare che il fauno era un vecchio e quei denti perfetti mal si addicevano a quel volto. Subito dopo, senza aspettare la risposta del giovane artista, si allontanò.
Michelangelo non perse tempo. Mentre Lorenzo “il Magnifico” continuava la sua passeggiata nel giardino, mise mano alla statua. Ruppe qualche dente e trapanò le gengive. Dopo poco, ripassando per lo stesso luogo, Lorenzo rivide il fauno e i cambiamenti apportati dal giovane artista. Rimasto sorpreso dalla prontezza e dalla semplicità d'animo del giovane, non esitò ad introdurlo nella sua corte. Furono anni in cui Michelangelo poté assidersi alla tavola del Signore di Firenze e conoscere il meglio del mondo letterario ed artistico del tempo come: Angelo Poliziano, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Leonardo e tanti altri. Non solo: gli fu riconosciuto un appannaggio mensile di 5 ducati che anche questa volta andarono in tasca al padre che ebbe, tra l’altro, un impiego presso la dogana.
In attesa del trionfo
Dopo la morte di Lorenzo, avvenuto nel 1492, per la famiglia de’ Medici furono momenti di grande difficoltà: la situazione in città si faceva assai difficile anche per i loro amici. Tuttavia, l’anno successivo venne raccomandato dal successore di Lorenzo de’ Medici, Piero, per essere ospitato per motivi di sicurezza presso i frati conventuali del Santo Spirito. E sarà proprio qui che l’artista farà la grande scoperta dell’anatomia. Grazie al permesso del priore di poter vivisezionare quei cadaveri che lì venivano abbandonati per un’umile sepoltura, il giovane Michelangelo cominciò a studiarli e a disegnarli, riuscendo soprattutto a comprendere la dinamica della macchina umana. Fu un insegnamento che non dimenticherà mai e che riporterà con maniacale precisione nei suoi lavori.
Ma la riconoscenza ancora una volta non era scritta nel vocabolario michelangiolesco. Nel 1494, avendo avuto sentore del declino dei suoi mecenati, non esitò a schierarsi con i loro avversari, e, per evitare grane, si allontanò da Firenze recandosi prima a Venezia (ma l’accoglienza non fu delle migliori); poi, su indicazione di alcuni amici, si avviò verso Bologna, ma anche qui i problemi non mancarono fin dal primo giorno. Venne, infatti, fermato dalle guardie perché non aveva con sé il permesso per accedere alla città. Venne multato con 50 bolognini, somma che non aveva con sé: concreto il rischio di trascorrere qualche mese nelle carceri cittadine.
La fortuna però non lo aveva abbandonato. Un nobile bolognese, Francesco Alivrandi, sentendo casualmente la sua storia, incuriosito lo volle conoscere ed ospitare nella sua casa; in cambio Michelangelo, per un compenso di trenta ducati, avrebbe lavorato alla celebre Arca di Nicola Pisano che racchiudeva le spoglie di san Domenico, nell’omonima chiesa. L’opera, terminata già nel 1267, fu sempre un cantiere aperto a cui parteciparono tanti grandi artisti. Il giovane Buonarroti - ricordiamo che aveva diciannove anni - si mise subito all’opera realizzando tre sculture: san Petronio e san Procolo, oltre ad un angelo con la torcia. Tre opere che per qualità e bellezza si distaccavano dall’insieme dei precedenti apporti sull’opera. Il successo fu talmente grande che tutta Bologna volle vedere l’Arca finalmente finita.
Ma il periodo in casa Alivrandi, fu anche ricco di altre emozioni, come racconterà in seguito lo stesso artista. Si viveva in un’atmosfera culturale assai elevata dove, tra l’altro, era uso leggere i grandi capolavori di Dante, Boccaccio, Petrarca e altri grandi autori toscani. Michelangelo era invitato ogni volta a leggerli, non perché avesse una voce particolare, ma per il suo accento inconfondibilmente toscano che conferiva maggiore credibilità alla lettura di tali testi.
Il ritorno a Firenze
L’allontanamento da Firenze durava da appena un anno, quando Michelangelo sentì la nostalgia di tornare nella sua patria, anche per poter constatare i cambiamenti politici che nel frattempo erano avvenuti. In città il giovane trovò una situazione completamente cambiata. Ora c’era la Repubblica e il suo leader politico non era un banchiere o un mercante, ma un frate domenicano in odore di eresia, Girolamo Savonarola. Michelangelo, con il suo amico Pico della Mirandola, fu tra i suoi maggiori estimatori e per tutto il resto della vita abbracciò il suo ideale di conversione dei costumi; il che lo portò - come vedremo - a una estrema morigeratezza e ad una tirchieria maniacale.
In questo periodo fiorentino il Buonarroti venne coinvolto, suo malgrado, in una truffa d’arte, molto pericolosa, essendo stato imbrogliato niente meno che il cardinale Raffaele Riari, tra i più importanti uomini della Chiesa del suo tempo; e tuttavia anche questo incidente fu per lui un ennesimo colpo di fortuna. Si narra che Lorenzo di Pierfrancesco, lontano nipote del “Magnifico” e mercante d’arte, avesse commissionato a Michelangelo un piccolo Cupido dalle fattezze classiche per la cifra di trenta ducati. Con la complicità di alcuni amici Lorenzo fece poi sotterrare la statuetta per poterla patinare d’antico e venderla, in seguito, nel fiorente mercato dell’arte. All’acquisto fu interessato proprio il cardinale Riari che acquistò l’opera per ben duecento ducati.
Tutto sembrava andato per il meglio, ma si sa, le bugie hanno le gambe corte. Sempre più voci circolavano sul falso Cupido comprato dal cardinale e questa diceria arrivò, ovviamente, alle orecchie attente dello stesso Riari che volle accertarsi se fosse stato truffato da quei fiorentini.
Grazie a un suo uomo di fiducia, Jacopo Galli, ebbe conferma della truffa e dell’autore del Cupido, l’appena ventenne Michelangelo il quale, non sapendo che quella sua opera era servita per un imbroglio, ne aveva candidamente confessato la paternità. Scoppiò lo scandalo: il cardinale era furioso, ma nello stesso tempo ammirava l’autore dell’opera, così ricco di talenti. Comprendendo di avere scoperto un grande artista, il cardinale lo volle a Roma alla corte pontificia. Iniziò così per Michelangelo la lunga strada dei trionfi che tutti conosciamo.
Un genio collerico e bizzoso
Meno conosciuto, però, è il Michelangelo privato, dal carattere impossibile. Fu un “toscanaccio” bizzoso e a volte prepotente, che osava, quasi per sfida, misurarsi faccia a faccia anche con i Papi, conscio della propria grandezza artistica. Nel proprio intimo era però un uomo lacerato da passioni contrastanti, che non gli davano tregua, con risultati spesso disastrosi nei confronti degli altri. Non possedeva la “divina indifferenza” di Leonardo o la gioiosa brama di vivere di Raffaello. Era un uomo solitario, ombroso che scorgeva nemici ovunque, perdendosi spesso in sfide vane e futili.
Misantropo, se si eccettua il platonico rapporto con la nobile Vittoria Colonna, non si sposò, pur avendo un’attrattiva verso le donne, come scrive in una delle sue Rime: "Voglia sfrenata el senso è, non amore, che l'alma uccide"; ma non solo dalla passione era preso nelle sue poesie, anche dal misticismo: “Né pinger né scolpir fia più che quieti l'animo volto a quell'amor divino/ ch'aperse, a prender noi, 'n croce le braccia”. Un amore verso Cristo che lascia attoniti sulla sua vera intimità di uomo. Una sensibilità d’animo che non riuscì mai, tutta la sua vita, a far emergere facendosi, invece, irridere dai suoi colleghi.
Un giorno Raffaello Sanzio, narra una cronaca, passava per piazza san Pietro con il suo nugolo di allievi che lo stimavano ed adoravano, quando lo vide Michelangelo, che mal lo sopportava e subito l’apostrofò: "Sembri un capitano con il suo corteo" e l'Urbinate, pronto, gli rispose: "Tu invece sei sempre solo come il boia!". Parole che, a detta dei biografi, colpirono molto il vecchio artista. Non era mai tenero con alcuno. Ad esempio considerava Leonardo da Vinci come un cortigiano effeminato che voleva occuparsi di tutto e non riusciva in nulla; tuttavia, pur considerandosi di nobile famiglia, il Buonarroti davanti a lui ebbe sempre molta soggezione come affermò onestamente: "Un operaio davanti ad un gran Signore". Permaloso come pochi, non esitò a ritrarre nel suo Giudizio Universale nella cappella Sistina, un certo Biagio da Cesena, cerimoniere del Papa, come Minosse all’Inferno dall’aspetto grottesco, con lunghe orecchie d’asino, sol perché aveva osato criticarlo per le figure nude della cappella Sistina. L’uomo, accortosi dell’offesa, corse subito dal Papa per protestare, ma la risposta fu: "Se t'avesse messo nel Purgatorio, farei di tutto per levarti; ma nell'Inferno non posso fare nulla".E certo le sue insolenze non le mandava a dire neanche al Papa Giulio II, il suo maggior cliente, con il quale ebbe sempre un rapporto difficile.
Due caratteri forti, che mal si sopportavano, pur avendo uno per l’altro una grande ammirazione reciproca. Tanto che davanti a certe pretese del Papa, Michelangelo pieno di rabbia osò dirgli: “Puoi comprare il mio tempo, non la mia mente” e non contento scolpì nella folta barba del Mosè in san Pietro in Vincoli, per la tomba dello stesso papa, i volti di Giulio II e di una donna che si vociferava fosse la sua amante, almeno così vuole una leggenda. Ma il suo vero unico grande amore rimase il lavoro in tutte le sue fasi e mai affidò ad alcuno mansioni che sapeva svolgere da solo: dalla scelta del marmo, al trasporto allo sbozzamento fino alla realizzazione finale. Tutto ciò naturalmente gli "rubava" molto tempo. Nessuno poteva contraddirlo in queste sue manie; se accadeva, iniziava a sbraitare che tutti lo imbrogliavano, e che non si poteva dare credito a nessuno.
Dure le fatiche a cui sottoponeva il corpo, con gravi ripercussioni anche per la sua salute, ma lui non voleva mai medici intorno a lui. Strillava che si poteva guarire da solo, senza l'aiuto di nessuno e, aggiungiamo noi, per non spendere soldi.
Ricchissimo, viveva da miserabile
Scontroso, irascibile e soprattutto avaro, tanto da vivere da vero pitocco. Le case dove aveva soggiornato nelle varie città italiane erano al limite della decenza. Viveva da autentico clochard, spesso portandosi nei luoghi di lavoro, come pranzo, del pane raffermo e un po’ di formaggio.
Addirittura lo zio paterno, recandosi in visita a Roma, rimase sconcertato della miseria e dal degrado in cui abitava il nipote, ricordandogli quanto questo modo di vivere fosse un vizio che dispiaceva a Dio e alla gente.
Ma a lui non importava di cosa pensasse la gente e in quanto a Dio, metteva in pratica le omelie che aveva ascoltato, ancora giovanissimo, dal frate domenicano, Gerolamo Savonarola, nella sua Firenze. Era soddisfatto di abitare in povertà, senza alcun pensiero né della vita, né dell’onore e del mondo; il suo primo biografo, Ascanio Condivi, confermava il suo modo frugale di vita, narrando tra l’altro che andava a letto “con gli stivali indossandoli così a lungo che quando finalmente li toglieva, tirava via anche la pelle”.
Avaro fino all’assurdo, diventava invece prodigo, anzi spendaccione, verso gli amici più intimi, assai pochi per la verità, e, soprattutto, per i membri della sua famiglia che, persa ogni ricchezza, approfittarono di lui, senza alcuna remora, assai lautamente. È commovente osservare come Michelangelo a se stesso non accordasse alcun piacere, neppure un misero sfizio; ed invece dava tutto se stesso, ed anche di più, per cercare di accontentare le richieste sempre più ingorde della famiglia, pur essendone stato spesso disprezzato. Michelangelo voleva riportare il casato dei Buonarroti in auge e mal sopportava l’attuale declino. Investì soldi e conoscenze per far sposare con famiglie aristocratiche i suoi nipoti, Francesca e Leonardo. Sperava, così, di tornare a risalire la scala sociale.
Nella sua lunga carriera Michelangelo si fece passare, come già accennato, per povero, ma i conti in banca ritrovati, dimostrano che alla sua morte, nel 1564, l'artista aveva accumulato beni per 50.000 ducati d'oro. Per fare una comparazione nello stesso periodo l’intero Palazzo Pitti venne venduto per 9000 ducati. Tra rendite, terreni, palazzi, investimenti vari accumulò una fortuna che oggi potrebbe essere valutata intorno ai 46 milioni di euro, un patrimonio che raggiungeva la metà di quello dei principi Chigi, considerati allora tra gli uomini più ricchi ed influenti d’Europa.
Ma non solo. Da buon avaro, Michelangelo non amava certo spendere quanto aveva accumulato, anzi alla sua morte nella casa romana c'erano pochissimi mobili, nessun libro o gioiello, ma ancora altri 8400 ducati d'oro in una scatola di legno che teneva sotto il letto. Dall’inventario che stilarono i delegati del papa, sappiamo che nella stanza a piano terra c’erano tre statue: un san Pietro, un Cristo in croce ed altre figure, sbozzate e non finite come la nota Pietà Rondanini (così chiamata dal nome dei suoi acquirenti nel 1744), inoltre dieci cartoni preparatori tra i quali uno con un’altra Pietà. Furono stimate anche ventiquattro camicie di cui cinque nuove; un certo numero di barili vuoti, mezzo barile d’aceto e un cavallo.
Nonostante l’avarizia fosse un vizio capitale, l’artista ne scriveva in una sua Rima: "O avarizia cieca, o bassi ingegni, che disusate 'l ben della natura!Cercando l'or, le terre e ' ricchi regni, vostre imprese superbia ha forte e dura". Solo nell’ultima parte della vita abbiamo notizie che lo vogliono come dedito alla beneficenza, un’ossessione senile per la salvezza della propria anima.
Funerali doppi e grandiosi
Il geniale artista morì a Roma il 17 febbraio del 1564. Prima di chiudere gli occhi, volle dettare alle poche persone presenti il suo testamento. Disse semplicemente: "Lascio la mia anima a Dio, il mio corpo alla terra, la mia roba ai parenti più prossimi". Con queste parole, terminava la vita di un uomo ed iniziava la leggenda, il mito del più grande scultore di tutti i tempi. Due giorni dopo, fu sepolto magnificamente nella chiesa romana de' SS. Apostoli con grande partecipazione di popolo. Pochi mesi dopo, su ordine del duca Cosimo de Medici, la sua salma fu trafugata, imballata e con un carico di merci trasportata a Firenze. Qui furono rifatti i funerali con grande partecipazione della città e venne letta, durante l’orazione funebre, anche una testimonianza che ci rende più simpatica la tirchieria di Michelangelo. Benedetto Varchi raccontò come Michelangelo regalasse sempre tanti disegni, cartoni e statue ai suoi amici e parenti, ma anche alle persone bisognose che vendendole potevano ricavare qualcosa per loro e per la propria famiglia. Nello stesso tempo - aggiungeva il Varchi - faceva pagare a caro prezzo le sue opere solo ai ricchi come i Medici, i papi e all’aristocrazia romana che servì, ad onor del vero, sempre con grande magnificenza.