Viviamo in un mondo dove la globalizzazione rischia di trasformarsi in una omogeneizzazione nella quale il sé individuale sparisce per lasciare spazio ai bisogni di un sé collettivo, bisogni facilmente standardizzabili e quindi gestibili dai media.
Dalla fine degli anni Settanta il neo-liberismo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, pur con gli adeguamenti di strategia resi indispensabili a causa dell’instabilità delle politiche monetarie, guida le masse, ammansendole, proponendo modelli di appartenenza attraverso consumi standardizzati e pilotati, sempre meno energeticamente impegnativi, con costi appetibili anche a motivo di una politica distributiva che non prevede lo stoccaggio e che spesso risulta lesiva della dignità dei lavoratori.
In alcune delle cosiddette “società evolute”, delle quale pare faccia parte anche il nostro Paese, il lavoro conserva sempre meno dignità e l’onesta imprenditorialità è fortemente penalizzata da politiche corrotte ed insipienti, inadeguate, populiste e spesso purtroppo epimetee, orientate alla conquista di un potere che queste stesse politiche non sanno declinare se non in funzione della conservazione ad libitum dello stesso, con il risultato che le conseguenze degli errori commessi dalla classe politica vengono successivamente pagati da coloro che quegli errori hanno subìto.
I modelli educativi da proporre alle giovani generazioni sono privi di quei valori che soltanto la memoria del vissuto collettivo che ha fatto la storia è in grado di corroborare.
In tali contesti, quale spazio potrebbe avere la proposta di un neo-umanesimo che volesse riportare l’uomo al centro della sua storia, che lo rendesse attore della propria individualità, meccanismo conscio e responsabile di uno schema universale in perenne evoluzione, del quale egli si trova a far parte suo malgrado, anche per il solo fatto di respirare e conservare la posizione eretta con la forza di chi ha rizzato la schiena prima di lui?
Certamente, se Galileo, Copernico e Lavoiser, come sostiene Daisaku Ikeda, avessero usato le loro inarrivabili capacità speculative per indagare il senso della vita dell’uomo e ci avessero dato dei criteri per indagare all’interno della nostra unicità, oggi non contrabbanderemmo il progresso tecnologico con l’evoluzione e non considereremmo tacitamente e colpevolmente l’uomo una macchina sulla quale si può speculare in nome di ciò che oggi noi chiamiamo scienza (in attesa di una futura nuova definizione).
L’uomo del terzo millennio deve risorgere da questo magma informe che ha avuto origine da un pachidermico conservatorismo di chi avrebbe dovuto proporre letture non matematiche delle leggi della natura, così da favorire lo sviluppo di quei valori che il tempo ha selezionato sulla scorta di input evolutivi che di volta in volta la storia dell’uomo ha sollecitato per corrispondere al bisogno di comunione e solidarietà sociale. Vivere consapevolmente il neo-umanesimo significa concorrere alla sua realizzazione attraverso la ferma determinazione a non rinunciare mai alla libertà di pensiero, alla propria capacità speculativa, al non demandare ad altri le scelte che riguardano la propria storia, a riscoprire il valore del possesso come risultato di una conquista della propria creatività e non soltanto attraverso la mediazione dell’atto di acquisto.
La fatica non è una moneta che si svaluta e se è modulata e non sostituita dalla tecnologia, diventa partecipazione di tutto il sé neuro-psico-organico, dando valore di universalità al proprio sé.
L’accoglienza e la tolleranza sono i paradigmi dell’uomo nuovo, che crede nella propria forza, che non teme ciò che non conosce, che ha la consapevolezza della sua unicità e originalità, che intende perpetuare la specie, tutelando il diverso e garantendo l’indifeso.
L’uomo nuovo sa di essere il custode di un bene che non ha confini e che dovrà preservare per le future generazioni.