Correvano gli anni Trenta dell’Ottocento e tra le donne occidentali di classe media si imponeva un fenomeno: il mito della bellezza.
Il binomio femminilità-bellezza derivante, in grado di affermarsi storicamente nella sua patologica forma, esplicitava sin dalla nascita i suoi più subdoli sintomi oltre che sul piano sessuale, in quello politico. Non a caso negli Stati Uniti, l’estetica arrivò ad influenzare persino le decisioni giudiziarie.
Emblematico è il caso del 1971, quando un giudice condannò una donna imponendole di perdere 1,5 kg a settimana per evitare che fosse imprigionata.
Altre vicende simili si susseguirono negli anni Settanta: nel 1975, Catherine McDermott intentò una causa contro la Xerox, accusando l’azienda di aver ritirato una proposta di lavoro dopo aver valutato il suo peso corporeo.
Negli stessi anni, la National Airlines licenziò la hostess Ingrid Fee per il suo “corpo grasso”, termine con cui la compagnia indicava un superamento di appena 2 kg rispetto ai requisiti previsti.
A distanza di anni cos’è cambiato?
Con sguardo destrutturante non è difficile notare una trasversale essenza concettuale della dinamica, che ieri come oggi contamina la vita delle donne, esplicitante una non ignorabile coerenza intrinseca con alcuni dei popolari requisiti richiesti nel mondo del lavoro oggi: uno tra questi il: “di bella presenza” presente in numerose offerte di impiego che il più delle volte non hanno a che fare con l’estetica.
La risultante, nel presente come nel passato, sta nella questione che nonostante una donna sia estremamente capace di compiere il suo incarico, la stessa possa esser non eletta e non per mancanza di competenza.
L’aspetto risulta essere, dunque, elemento non neutro in grado di condurre l’individuo ad abitare il quotidiano con in testa pensieri costanti riguardanti la propria estetica o eventuali giudizi altrui rispetto la propria apparenza.
L’ossessione in questione giunge ad occupare internamente uno spazio maggiore della concentrazione riguardante una qualsiasi altra attività stessa in compimento: esponendo il femminile ad un vero e proprio controllo mentale e a un doppio standard che si manifesta nella questione di essere le uniche a dover cedere il proprio spazio corporeo all’osservazione morbosa altrui.
Come Naomi Wolf analizza con precisione ne Il mito della bellezza, le ripercussioni di questo fenomeno si estendono su molteplici aree, arrivando inevitabilmente a toccare anche la sfera sessuale.
Non sorprende, dunque, che nel testo venga citato un dato significativo:
La dottoressa Marcia Germaine Hutchinson ha calcolato che al 65% delle donne non piace il proprio corpo, e che una scarsa autostima per il proprio fisico le induce a rifuggire dall’intimità fisica.
Questo dato si inserisce in un presupposto più ampio: il complesso intreccio tra il concetto di bellezza e quello di sessualità.
Ma se le definizioni di “bello” e “sessuale” sono in costante mutamento, su quale fondamento si regge questa relazione?
In tal senso Brigitte Vasallo afferma:
Trovo interessante riflettere sul desiderio e sulla costruzione del desiderio, che attualmente è indissolubilmente legato a certi ideali di bellezza. La sessualità deve essere l’unica attività umana così stranamente legata a qualità che non hanno nulla a che fare con essa. Se vogliamo mangiare bene, cerchiamo qualcuno che sappia cucinare; se vogliamo ballare bene, cerchiamo qualcuno che sappia ballare. Tuttavia, per avere rapporti sessuali, cerchiamo qualcuno considerato bello secondo i parametri del presente.
La narrativa del mito della bellezza impone storie fallaci sia sui corpi femminili che su quelli maschili e le donne sin da piccole imparano a dare priorità al modo in cui essere desiderate dalla narrativa maschile, togliendo di conseguenza lo spazio concernente la personalissima ricerca riguardante il proprio piacere e riportando ancora una volta la sessualità come elemento strettamente dipendente dal bello.
Confondendo, come dice Naomi Woof: “l’aspetto sessuale dall’essere guardate sessualmente” continuando con “Le donne dicono che quando perdono peso si sentono più sexy; ma le terminazioni nervose nella clitoride e nei capezzoli non si moltiplicano con la perdita di peso”.
Ed è sorprendente come Simone de Beauvoir molto prima, in quelli che sono alcuni dei suoi scritti inediti, affermava come la femminilità in quanto costrutto fosse in grado di mantenere le donne sottoposte agli uomini, finalizzando il loro impegno nella compiacenza del maschile e arrivando a confermare un mondo fatto su misura di quest’ultimo.
Tale contesto è capace di imporre alle donne l’assoggettamento verso specifici criteri che comportano il conseguente adeguamento delle dimensioni del corpo e la annessa scelta di un non pratico vestiario affinché ci si senta attraenti.
Tacchi alti, tubini, gonne strette: marcatori di una stereotipata idea del femminile, in grado di rendere complessa anche la più semplice delle attività.
A questo punto ha senso aprire una parentesi di riflessione che fa luce su un indiretto fenomeno correlato: la Chirurgia estetica e la medicina estetica.
Correva il 1988 e Naomi Wolf nel suo già citato manuale affermava:
La chirurgia estetica è la specialità "medica" che si sviluppa più rapidamente. Nel 1988 vi si sono sottoposti più di due milioni di americani, di cui perlomeno l’87% di sesso femminile: e in due anni la cifra è triplicata. Nel corso degli anni Ottanta, mentre le donne conquistavano il potere, si sottoponevano in un numero inaudito all'intervento del bisturi.
Nell’era che vede la bellezza come un culto, quali sono i dati?
Nel 2024 il maggior numero di pratiche estetiche è stato svolto negli USA ammontando ad un totale di 4.7 milioni totali seguito da Brasile e Germania
Secondo l’associazione italiana Chirurgia Plastica Estetica nel 2019, sul territorio italiano sono state svolte 1.088.704 procedure concernenti la chirurgia estetica totali con l’aumento rispetto al 2018 del 7.8%.
Una novità degna di nota è, invece, l'aumento di richiesta di trattamento di Chirurgia genitale come l’Imenoplastica, la Labioplastica.
Tale riflessione, non con l'obiettivo di schierare, né con il fine dell'essere giudicante verso chi autodetermina la propria pelle, ha la volontà di ampliare il discorso riguardante un quadro clinico non ignorabile che vede la trasformazione di parti del corpo seguire tendenze omologanti e temporanee, in una stretta modalità sistematica che apre inevitabilmente degli interrogativi sulle motivazioni ed i costi non economici di ogni singola procedura.
In tutela del discorso complessivo non è possibile non concludere il discorso sul mito della bellezza senza nominarne la tipica quanto anomala interiorizzazione di chi ne è portatrice.
Per chi, pur facendo parte della dimensione di genere di riferimento, si emancipa dalla questione, è fondamentale riconoscere che per comprendere il fenomeno attuale non basta limitarsi a un’unica esperienza di autodeterminazione femminile libera dall’ideologia dominante.
È invece essenziale adottare uno sguardo dall’alto sul processo sociale, così da poter metterne a fuoco ogni dettaglio della complessità.
Solo in questo modo è possibile coglierne storture, coerenze e incoerenze, riflettere sulla direzione intrapresa e riconoscere i condizionamenti insiti in questa mappa collettiva che tutti percorriamo.