È notizia recente la scoperta in Etiopia nella regione di Afar, in un recinto per le capre, del più antico cranio quasi completo di Australopithecus anamensis, risalente a 3,8 milioni di anni fa. Il reperto, riferiscono i ricercatori: “è l’antenato di Australopithecus afarensis, il cui più noto esemplare è la celebre Lucy”, chiamata così dal nome della canzone dei Beatles Lucy In The Sky With Diamonds che veniva diffusa di continuo nel campo durante gli scavi.
Questa notizia mi ha riportato al mio viaggio in Etiopia.
Ad Addis Abeba ("nuovo fiore" in aramaico, però del fiore non ha niente), presso il Museo Nazionale dell’Etiopia ho potuto vedere una copia di Lucy. L’originale era custodito in un’area protetta non visibile al pubblico.
Lo scheletro fossile di Lucy manca delle estremità inferiori. Il bacino e le ossa delle gambe dimostrano però che la posizione eretta era acquisita già 3,2 milioni di anni fa (datazione dello scheletro): gli ominidi si muovevano quasi sempre in quella posizione, non solo per alcuni tratti.
Scoperta il 23 settembre 1974, quando le sue ossa fossili furono trovate dal paleoantropologo Donald Johanson e dal suo studente Tom Gray, vicino al villaggio di Hadar, nella regione di Afar, l’australopiteco Lucy divenne l’ominide più noto e grazie ai suoi resti fossili e ad altri ritrovati, nella stessa zona nei primi anni Settanta, i ricercatori hanno potuto studiare nuovi dettagli sulla evoluzione degli umani, scoprendo molte cose sulla vita degli ominidi.
Anche letteratura e il cinema si sono interessati di lei: nel 2014 Luc Besson ha girato Lucy, un film di fantascienza.
Quando mi sono allontanata dalla capitale sono rimasta colpita dal verde e dalla mancanza di macchine. I miei occhi si posavano su colline verdeggianti e sui villaggi con case di fango dai tetti di paglia; non si vedevano industrie o altro che potesse contaminare l’ambiente, mi sembrava di essere ritornata indietro nel tempo.
Il mio viaggio, intenso e a volte anche faticoso per l'asperità del terreno, mi ha portato a visitare i villaggi della Valle del fiume Omo, che Bottego ha esplorato nell'estate del 1896 e più che un viaggio è stata per me un’esperienza di vita toccante e profonda in territori incontaminati. Ogni giorno, quello che la natura e le persone mi hanno offerto, è stato un regalo indimenticabile.
La Valle dell’Omo si trova nel Sud dell’Etiopia e della sua capitale. Il nome proviene dal fiume Omo che scorre per 760 chilometri e si immette nel Lago Turkana dopo aver attraversato i parchi nazionali Mango e Omo. Nel 1980 il suo bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO per la sua importanza geologica e archeologica.
Nella bassa Valle dell’Omo e nella regione dell’Omo meridionale risiedono pastori ed agricoltori. Alcune etnie vivono di caccia e di pesca. Sono un miscuglio di genti nilotiche, bantù e camite-cuscite che costituiscono un numero elevato di piccole popolazioni animiste, differenti l’una dall’altra e vivono, in capanne di legno, in villaggi sperduti e fermi alla preistoria: Karo, Mursi, Hamer, Tsamai, Konso, Dorze, Borana e tanti altri, che parlano 45 dialetti diversi e che, grazie al loro isolamento e alla feroce ostilità verso gli estranei e gli stessi vicini, hanno mantenuto intatte tradizioni e stili propri di vita.
Hanno una cosa in comune: la cura del corpo.
Appena mi sono avvicinata ad un loro villaggio sono stata subito attratta da una terra antica e selvaggia e accolta, però con un po’ di diffidenza, dagli adulti. I bambini, dai grandi sorrisi, invece mi salutavano gridando: "ìù, iù”.
È l’Africa quella vera, dove le emozioni si scatenano, pensando che tutto è partito da lì.
Nel villaggio di Kolcho che dista circa 75 Km, tutti di strada sterrata, dal centro abitato di Turmi, abbiamo incontrato i Karo, la più piccola delle tribù dell'Omo River e abbiamo assistito, per puro caso e fortuna, ad una loro cerimonia. Prima di ogni cerimonia gli uomini, dalla corporatura atletica, con un’altezza media di un metro e novanta, si decorano i corpi con una pittura mista di calce bianca e minerali ferrosi gialli.
Per motivi estetici, le donne si scarnificano il petto e utilizzano delle schegge di osso o di avorio per forare il labbro cosi che la punta sembra spuntare dal mento, gli uomini hanno pettinature elaborate con piume impastate ad argilla, tant’è che usano per dormire un poggiatesta "borkota” di legno finemente decorato e con una corda intrecciata per portarselo sempre con loro.
Ho notato che alcuni avevano attaccata al poggiatesta una chiave. Cosa alquanto strana, dato che non ho visto porte nelle loro capanne.
Questi “cuscini” vengono usati anche come sgabelli. Non ho resistito e ne ho barattato uno, preparato dall’addetto del villaggio, con un coltellino svizzero ed altri oggetti.
Una bambina, che aveva fatto, con me ed altri bambini, un girotondo improvvisato, alla mattina quando sono uscita dalla tenda, mi ha portato e regalato un anellino fatto di perline che conservo ancora nella mia “wunderkammer” che per la verità è un “wundertisch”.
I Karo, con fantasia, utilizzano materiali di recupero (penne, chiodi, bottoni) per creare decorazioni e gioielli.
Mandrie di bufali ci hanno accolto quando siamo entrati nel parco Mango nella zona dei Mursi, agricoltori e allevatori semi-nomadi che vivono nelle zone più impervie della regione dell'Omo.
È un gruppo conosciuto dell’Africa per l’uso delle donne del disco labiale decorativo nel labbro inferiore.
Si tratta di piattelli in argilla, decorati con semplici graffiti e con una scanalatura che ne permette l'inserimento nel labbro inferiore o nei lobi delle orecchie. Li portano solo le donne, che iniziano da piccole inserendo pezzetti di legno ed allargando il buco con piattelli sempre più grossi mano a mano che crescono. Secondo alcuni antropologi, questa usanza tribale era un mezzo per scoraggiare il rapimento delle donne da parte degli schiavisti.
Gli Hamer sono una delle tribù più numerose, coltivano sorgo, miglio, verdure, allevano capre e galline e portano i loro prodotti al mercato settimanale di Dimeka e Turmi. Una maestra e sua sorella mi hanno spiegato, in un inglese perfetto, il significato delle loro usanze: molte donne si coprono i capelli con un impasto fatto di terra ocra e grasso di provenienza animale, questo per un fatto di igiene per carenza acqua. Gli anelli permanenti al collo indicano lo stato civile della donna: quelle sposate hanno almeno un anello al collo. La pelle di capra della veste è più lunga dietro che davanti e un bastoncino, che esce nella parte posteriore e tocca il terreno, serve a indicare il percorso ai mariti, così mi hanno detto.
Gli uomini indossano particolari copricapi di argilla impastata, con una o due piume di uccello.
Durante i mesi di febbraio, marzo e aprile, i ragazzi effettuano la cerimonia del “salto del toro” che simboleggia il passaggio dalla pubertà all’età adulta.
Gli Tsamai sono un gruppo etnico che ricorda gli Hamer. Le donne sposate portano ampi collari di numerose cipree, le conchiglie del Mar Rosso, che anticamente venivano utilizzate come moneta. Invece le donne non sposate hanno un disco di metallo tra i capelli.
I Konso, popolo di grandi coltivatori, hanno creato un paesaggio unico, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, per le colline interamente modellate da terrazzamenti.
Di questa popolazione mi hanno colpito i waga: sculture in legno in memoria dei guerrieri morti. Simboleggiano un guerriero, la moglie i nemici e gli animali feroci uccisi. Peccato che di questi waga ne rimangano pochi: molti sono stati venduti a turisti e antiquari.
I Konso, ottimi artigiani, forniscono ai Borana, altra etnia, prodotti e utensili a loro indispensabili.
I Borana tradizionalmente nomadi e allevatori di zebù, cammelli, capre e pecore, recentemente hanno iniziato a trasformarsi in agricoltori. Sono fra gli ultimi gruppi etnici a utilizzare la suddivisione in classi generazionali detta gadaa.
Avvicinarsi ai Borani, non è stato facile, fuggivano alla nostra presenza. Piano piano mi sono avvicinata alle donne che ho trovato di una bellezza e di una eleganza particolari. Indossavano delle collane, a più file, fatte da tanti cubetti di metallo e degli scialli dai disegni arabescati, lontani da tutti gli abbigliamenti che avevo visto nei miei viaggi in Africa.
Gli uomini indossavano ampi pantaloni di cotone bianco e un mantello dello stesso colore drappeggiato sulle spalle.
Dei Borana, che dicono che siano arrivati dallo Yemen e siano di origine mongola, sono particolari anche i pozzi (“ella”) che possono essere profondi fino a trenta metri. Non essendo verticali, la racconta dell’acqua viene fatta da una catena di uomini e di donne che sollevano il liquido con la sola forza delle braccia dal fondo del pozzo fino agli abbeveratoi in superficie.
Dei Dorze, che vivono nelle montagne che sovrastano Arba Minch e sono agricoltori ed abili tessitori di cotone, mi hanno colpito le loro capanne che hanno una curiosa forma ad alveare, con una piccola stanza di entrata. All'interno ci sono il recinto per gli animali, la zona dei genitori e la zona per i figli, al centro c'è il focolare. All'esterno c’è un piccolo orto con le spezie, alcune piante di tabacco e numerose palme di ensete.
Ho visto un mondo che non mi è apparso essere cambiato quasi per niente dai tempi di Bottego ma purtroppo, travolto dalla nostra “civiltà”, è destinato presto a scomparire.
Una gigantesca diga sull’Omo sta rischiando di distruggere, nel giro di poco tempo, un territorio protetto dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità e un massiccio accaparramento della terra, per far spazio a piantagioni industriali di canna da zucchero, palma da olio, cotone e mais, sta sfrattando le tribù della bassa Valle dell’Omo dalle terre ancestrali. Migliaia di persone sono già ridotte alla fame e alla disperazione.