Allo straniero che vi approda da lontano, ogni angolo di mondo ancora ignoto non si lascia raccontare esclusivamente dalle parole di chi gli si fa generosamente incontro; a lui ogni alimento - che di quell'angolo di mondo è figlio - offre le sue affascinanti narrazioni in un linguaggio tutto diverso, fatto dei colori di cui il vento e il sole l'hanno accuratamente rivestito, dei sapori e dei profumi che la terra vi ha pazientemente impresso, della fatica che gli uomini e le donne gli hanno dedicato, della sapienza antica con cui di generazione in generazione continua ad essere preparato, espressione di una modalità unica attraverso la quale si è appreso nel tempo ad accogliere e ad accompagnare il ritmo delle stagioni, ad abitare il territorio, a costruirne le tradizioni.
Lo sapeva bene Ade, oscuro Signore degli Inferi, quando spinto dal violento desiderio di tenere con sé la bella figlia di Demetra ricorse all'unico sistema che avesse il potere incontrovertibile di legarla eternamente alla propria dimora, ossia darle da mangiare il cibo che di essa era l'emblema. Frutto dalla storia millenaria, il melograno ha simboleggiato nell'immaginario di moltissime civiltà l'inscindibile legame che unisce la vita alla morte, la dirompente capacità dell'una di rinnovarsi perenne passando necessariamente anche attraverso il silenzio e l'oscurità dell'altra; nella sua essenza vegetale è racchiuso il rosso intenso del sangue che è principio fondante di ogni esistenza nel suo ritmico scorrere e indizio ineludibile dello spegnersi di ogni vitalità nel suo letale spargersi; nell'esuberante abbondanza dei semi che esso custodisce al suo interno i popoli di ogni dove e di ogni quando hanno riconosciuto promesse certe di fertilità e speranze ben riposte di rinascita, tanto da avere spesso eletto quei sacri grani a elementi essenziali nel cerimoniale delle feste sponsali, da averne fatto presenze significative nello svolgimento delle pratiche funerarie e nella preparazione dei corredi sepolcrali.
Nel Mediterraneo precristiano il melograno era stato un attributo immancabile della Grande Madre, antichissima personificazione dell'immane potenza generativa e insieme mortifera della natura, e delle molteplici divinità femminili di epoca più tarda che di quella Grande Madre si erano poi configurate quali autonome manifestazioni (lo stesso attributo oggi curiosamente riconoscibile nelle raffigurazioni di alcune Madonne che tra le braccia tengono i loro bambini); nello specifico della cultura greca, come tali erano sempre state conosciute e venerate tanto Demetra quanto Persefone. Veneranda protettrice delle messi e dei raccolti la prima, esecrabile regina dei morti l'altra, le due dee avevano ben presto visto le proprie vicende evolversi e confluire intrecciate in un unico racconto mitico, mentre le simbologie delle rispettive sfere d'influenza erano andate via via sovrapponendosi fino a fondersi in un identico impianto narrativo attraverso la figura di Kore (che con ogni probabilità di quella stessa primigenia Potnia rappresentava un'arcaica epifania in forma di vergine, giovane deità del prato fiorito, e che della vetusta Demetra e del sommo Zeus fu resa divina progenie).
Fu così, infatti, in un prato rivestito di fiori che Kore venne sorpresa dal proprio destino. Era uscita di buon mattino con le sue compagne di giochi, poi si era allontanata inseguendo colori e profumi. A un tratto una voragine si era aperta sotto di lei e un cocchio dorato trainato da cavalle immortali ne era emerso. Aveva gridato Kore, perché qualcuno sentisse e accorresse a salvarla; a lungo aveva atteso che Zeus desse ordine al suo rapitore di lasciarla andare. Tuttavia, quando il momento finalmente giunse, Ade le fece assaporare i dolcissimi semi del melograno, sapendo che quel pasto condiviso sarebbe valso più della violenza, più della costrizione. Al rivederla dopo lungo tempo, era stato quello il primo pensiero della madre disperata, che la figlia avesse ingenuamente assaggiato il cibo del mondo di sotto. E così avvenne: da prigioniera che era, Kore divenne a tutti gli effetti ospite, divenne autentica sposa di Ade. Divenne Persefone, Signora di quel sottosuolo dove nel mistero germogliano i semi e lente si infiltrano le radici degli alberi, Potenza rigeneratrice della natura che per due terzi dell'anno tornava in superficie a infondere il suo novello soffio vitale in ogni pianta, a vivificare da capo quelle nere zolle sulle quali Demetra attendeva di riversare ancora la propria benedizione. Perché si finisce sempre per appartenere un po' a coloro con i quali si spartisce la mensa, per essere parte di quella terra della quale si assorbe il nutrimento.
Al migrante costretto ad abbandonarla, la propria casa non continua a lasciarsi raccontare esclusivamente dalle parole di chi può permettersi di rimanere; ovunque gli capiti di ritrovarlo, a lui ogni alimento - che di quella casa è sempre stato parte - non smette mai di regalare le sue straordinarie narrazioni in un linguaggio tutto familiare, fatto di aromi e di fragranze capaci di far riaffiorare vividi i ricordi e di riaccendere forti le emozioni, di gusti speciali che hanno il potere magico di rievocare atmosfere e sensazioni, dono prezioso che all'assaggio restituisce luoghi e persone, trasformandosi in un fugace quanto intensissimo nostos, in un nostalgico viaggio di ritorno alla patria distante.
Lo sapeva bene Pelasgo, sapiente re di Argo, che nella finzione tragica delle Supplici eschilee (463 a.C.) concesse ospitalità alle cinquanta figlie di Danao in fuga dall'Africa e dalla violenza dei loro cugini, invitandole a scegliere la sistemazione che trovassero più adeguata alle loro esigenze tra quelle che la città avrebbe messo loro a disposizione; “lotisasthe” (“scegliete fiore da fiore” v. 963) disse loro e in questo originalissimo apax il grande drammaturgo racchiuse tutta la profondità del messaggio che intendeva rivolgere ai propri concittadini assisi a teatro e al pubblico tutto.
Pianta acquatica dalle infinite proprietà, il loto cresceva spontaneo lungo gli argini del Nilo, le radici saldamente ancorate nel fango, i lunghi steli, le enormi foglie galleggianti e gli splendidi fiori ornamentali che richiudendosi la sera inghiottiti dal fiume e riemergendo al mattino allo spuntare del nuovo giorno fecero del loto un autentico simbolo di rinascita e di rinnovamento, nonché uno dei principali temi iconografici di tutta l'arte egizia. Inimmaginabile è la ricchezza di ambiti nei quali esso trovava regolare impiego, dall'estetica (quale ornamento di abiti e acconciature) alla cosmesi (con il profumo che se ne distillava si preparavano oli e unguenti), alla medicina (rinomate ne erano le proprietà antipiretiche ed energizzanti) e soprattutto alla cucina (tè e tisane potevano essere aromatizzati con i petali essiccati, dei boccioli ci si serviva come di frutti, le foglie potevano essere consumate crude e cotte non diversamente da qualunque altra verdura, simili alla rapa bianca le radici andavano a insaporire zuppe e minestre, noti anche con il nome di “fave d'Egitto” i semi erano indispensabili ingredienti di preparazioni tanto salate quanto dolci).
Ebbene, c'era davvero tutto questo dentro quel “lotisasthe” che sarà suonato sicuramente insolito alle orecchie di un greco, ma non così alle orecchie di chi giungeva dall'altra sponda del Mediterraneo, con la pelle scura e i suoi abiti esotici, braccato e spaventato; no, a quelle orecchie Pelasgo rivolse poche sillabe che fossero ordinarie e consuete, un frammento di paesaggio che quegli occhi non ammiravano più da tempo, perché l'integrazione e l'accoglienza di chi giunge da altrove non possono prescindere dal riconoscimento e dal rispetto delle sue differenze.