… perché il genere umano è un ibrido: il sangue dell’Homo Sapiens è ormai contaminato da quello dell’Homo Lycanthropus, l’antichissima razza canina…
(Jack Williamson)
Irena Dubrovna, disegnatrice di moda di origine slava, crede di essere erede di un’antica maledizione legata al suo popolo, secondo la quale, lasciandosi andare in una relazione amorosa, si trasformerebbe in una pantera. Sposatasi con Oliver, si rifiuta di avere rapporti con lui e gli rivela la sua più atavica paura: far parte di una particolare schiatta di streghe serbe in grado di trasformarsi in forma felina se travolte dalle passioni. A nulla vale la psicoterapia intrapresa, anzi, il terapeuta, convinto che la donna sia vittima di fantasie infantili non elaborate che le impediscono di vivere la propria sessualità, anche per convincerla della irrealtà delle sue paure, la bacerà, ma Irena si trasformerà in pantera e assalirà il medico, che a sua volta riuscirà a ferirla a morte prima di morire.
Questa la trama inquietante del film horror di Jacques Tourneur Il bacio della pantera (1942), tratto dal racconto di Val Lewton pubblicato nel 1930.
Le attrazioni gotiche di Tourneur e i miti dell’Ucraina, da dove proveniva Lewton, si incontrano per dare vita a questo incubo condiviso dove l’ancestrale, il terrifico, l’irrazionale giocano un ruolo primario confondendosi col reale e prevaricandolo.
Il film è stilisticamente molto raffinato, si snoda intelligentemente a livello emotivo, insinuandosi in maniera garbata, ma persistente, nell’immaginario. Il perturbante è dato dalla impossibilità di dare una spiegazione razionale agli eventi, pur presentandosi con elementi di realtà, per cui lasciano un senso di insaturità, di disorientamento, di incredulità, con la mente dolorosamente sospesa tra il pensarlo come un racconto di fantascienza o come una storia paradossalmente possibile, come una storia “altra da noi” o una storia che ci potrebbe anche toccare: questa è l’inquietudine di base che pervade e si innesta sottilmente nel pensiero.
L’orrore non è mai presentificato, se non alla fine del film, ma è sempre pervasivamente e incisivamente presente come fantasma: nelle inquadrature hanno diritto di accesso solo le ombre, i rumori inquietanti, i fruscii di fronde, i profumi … i riflessi sensoriali del terrore.
Irena sembra non avere rapporti con gli esseri umani, a parte il marito e la rivale in amore Alice, le altre persone sono come ombre, non la tangono, è come se fossero irreali per la donna, che scivola nella vita nonostante sé, quasi non toccandola, felinamente appunto, dentro un flusso senza inizio e senza fine, inconsapevole, e con uno sguardo attento e penetrante solo per la pantera dello zoo che osserva con complicità sgomenta, come riconoscendola e riconoscendosi in una identità arcana.
Anche lo psicoanalista, nel vissuto di Irena, è percepito solo come ruolo e non nella sua umanità, la donna vorrebbe essere riconosciuta e aiutata, ma purtroppo questo non succede e quando il medico abbandona il ruolo e diventa uomo desiderante e tenterà di baciarla, in Irena si scateneranno emozioni ingestibili e potrà solo incarnarsi nella pantera che lo sbranerà.
Diversamente dai film che raccontavano della psicoanalisi come nuovo metodo di cura che era in grado di risolvere i problemi psichici portando alla luce i conflitti del mondo inconscio, (un esempio sono Marnie o Io ti salverò di Hitchcock), la coppia Tourneur-Lewton sembra irridere la funzione terapeutica della psicoanalisi intesa come traduttrice dal linguaggio inconscio a quello conscio.
A Irena, infatti, sembra non bastare l’aver capito, aveva bisogno di qualcosa di più dell’interpretazione. Il film induce a chiederci che cosa non ha funzionato nella terapia con Irena. Sembra, dunque, che la giovane donna si porti addosso e dentro una maledizione atavica, una sorta di “memoria del sottosuolo” in una matrice indifferenziata della mente, un disturbo che proviene da epoche passate e che viene tramandato da una generazione all’altra come se fosse un passaggio di testimone, un testimone violento, incontenibile e impensabile, una sorta di patata bollente che si passa di mano in mano per non ustionarsi.
E nel film noi accediamo alla patata bollente che è passata nelle mani di Irena e che le impedisce di vivere una vita appieno, perché nel mandato transgenerazionale vige l’obbligo di non potersi coinvolgere in relazioni amorose, pena la perdita della propria umanità. Ma a ben vedere, il film ci racconta che il divieto è più esteso, riguarda l’impossibilità di coinvolgersi in qualsiasi relazione, infatti, Irena non ha amici, non si rapporta a nessuno, sembra poter vivere solo dentro quella bolla solipsistica che la difende dal contatto con ogni altro essere umano. È dunque la relazione che spaventa, che produce uno scombussolamento interno incontenibile, come se l’altro fosse il nemico da cui guardarsi, e forse si insinua anche la paura di essere uccisa dall’altro, tanto che per difendersi da questo paventato attacco, l’unica soluzione per sopravvivere è sbranarlo. Vediamo allora emergere la parte istintuale, quella parte primitiva di cui siamo fatti, la parte rimasta ancora così selvatica probabilmente perché non è stata “addomesticata” dall’esperienza di una relazione possibile, di una relazione buona capace di contenere, di proteggere e di non fare del male.
Se si è al cospetto di queste parti primitive della mente, di quell’inconscio non rimosso che è fatto solo di memoria del corpo, di sensazioni dolorose non metabolizzate quando ancora non c’è parola e quindi simbolizzazione, un lavoro terapeutico basato su una comunicazione razionale risulta essere inefficace, non arriva all’intima stanza di cui siamo fatti, non tocca sensibilmente, è come parlare un’altra lingua. Non si può parlare alla pantera che vive in Irena con un linguaggio simbolico, occorre trovare o costruire un linguaggio altro, che possa essere condiviso, un linguaggio speciale, unico per quella coppia, questa è la speranza per un possibile contatto ed un eventuale addomesticamento.
Nina Coltart a tale proposito ricorda l’ultima strofa della bellissima poesia di Yeats Il secondo avvento che recita: “E quale mai rozza bestia, giunta alla fine la sua ora/arranca verso Betlemme per venire alla luce?” dove la bestia incarna tutto ciò che nell’umano sta al di là delle parole: le fantasie, le sensazioni impensabili, i terrori senza nome. E allora la pazienza, il saper aspettare tollerando di stare nell’ignoto, senza intrudere, senza spaventare, senza pretendere di capire subito, avendo fede nella possibilità di cambiamento, senza la fretta di etichettare, di interpretare potrebbe costituire una tana di sicurezza, un rifugio tranquillizzante, proprio per non correre il rischio di portare alla luce prematuramente il selvatico con probabili conseguenze negative. Quindi offrire uno spazio di ascolto, avendo rispetto delle parti primitive che necessitano di un loro tempo per essere riconosciute e nominate, con una disponibilità di accoglimento anche silenzioso, ma ospitale per permettere di sperimentare un’area di sensazioni pacificanti, può attutire il terrore, creare fiducia e rendere possibile una prima esperienza di contatto, in attesa che la belva arrivi con i suoi tempi a Betlemme, arrancando, facendo fatica, ma anche permettendosi finalmente di lasciarsi andare per, alla fine, rinascere in piena umanità.
Non si tratta di verità scientifiche, ma emotive, speciali e uniche per ogni persona e come recita Rimbaud si tratta di “trovare una lingua … dell’anima per l’anima”.
Il problema relazionale di Irena pare riguardasse paure subtalamiche, tremori dell’anima non verbalizzabili perché risalenti a periodi arcaici della sua vita, e perché contenenti paure antiche ineleborate a livello transgenerazionale, per cui probabilmente la giovane donna necessitava di una comprensione altra, a livello somato-psichico, non bastava il capire razionale che il terapeuta le offriva, ma anche e soprattutto il suo “sognare”, sognare nel senso di intuire, di far vibrare dentro di sé le sensazioni riverberate da lei, per dare loro significato emotivo, personale, forse era necessario sentire dentro di sé i ruggiti della propria belva interna per poter essere all’unisono con Irena e tentare di dare assieme nome all’indicibile. La belva Irena reclamava ospitalità per sé e per la sua disperazione, aveva bisogno di vivere l’esperienza di una relazione che fornisse un’area di sensazioni di qualità calmante, come quando la guancia del bambino si riposa appoggiato al seno materno, sperimentando una sensazione di pace, di appagamento, di essere in un tutt’uno, lì non può succedere niente di brutto.
Il film scivola inesorabile in un tragico epilogo, senza speranza di un incontro possibile, di una modificazione vivibile, di una bonificazione del male. Entrambe le parti moriranno, Irena e la pantera, il reale e l’immaginario, il sogno e l’incubo, la luce e l’ombra, la donna e il terapeuta, l’intero rimane impensabile ed invisibile agli occhi. Il “secondo avvento” non si verificherà. La relazione, l’essere in due non sarà possibile, se non con la morte.
Nell' ultima sequenza è impresso a fuoco questo terribile verso di John Donne:
Dal peccato divise le due parti dell’essere, l’una e l’altra troveranno debita morte.
(Holy Sonnets, John Donne)
Pur essendo un film del 1942, è attualissimo nell’aver raccontato una storia di sofferenza che mostra le patologie gravi che si incontrano oggi nella stanza di analisi, dove ci si deve cimentare a tradurre/costruire un testo assente, a dare nome alle memorie del corpo che precedono il linguaggio, e dove ci viene prepotentemente richiesto di accordare il nostro strumento per metterci in sintonia con la musica assordante e muta, ma soprattutto confusa di ciò che accade.
Il bacio della pantera è un film che parla delle parti inaccessibili dell’essere umano, ed è per quello che è così intrigante e fastidioso allo stesso tempo, la nostra mente non può spiegarlo con la dotazione attuale, è un film che tocca l’ineffabile dell’umano, irraggiungibile e inquietante. È un film che racconta il mistero di cui siamo fatti e ce lo fa vedere in maniera così solleticante da proliferare in tante domande. Forse siamo vicini ai “perché” dei bambini che esprimono insistentemente e senza pudore le domande inespresse che guizzano nascoste anche dentro noi.
Ma come sottolinea la Coltart:
In ognuno di noi ci sono delle cose che non saranno mai alla nostra portata; resta sempre un mistero nel cuore di ogni persona, e dunque nel nostro lavoro di analisi.