I teatri di marionette e i camposanti sono gli unici luoghi dove l’uomo possa prendere acuta coscienza di sé. Nei primi vede cos’è prima della morte − nei secondi quel che sarà dopo la vita.
(Giovanni Papini, scrittore, poeta, saggista - da “Il sacco dell’orco”, 1933)
La locuzione latina Sit tibi terra levis, tradotta letteralmente, significa “che la terra ti sia lieve”. Durante l'epoca del Paganesimo era un auspicio frequentemente utilizzato come epigrafe per le tombe latine e greche. I credenti pagani auguravano così ai defunti un viaggio verso l’aldilà nel quale la terra non fosse greve, pesante, opprimente - con la speranza che le anime fossero ancora in grado di gioire e godere, di provare ancora sentimenti e di allontanare, quindi, la sofferenza dettata dalla terra austera.
La paura della morte è congenita all’uomo quanto l’esigenza di esorcizzarla tramite l’espressione artistica, e la storia dell’arte - da fin che i libri ne hanno memoria è piena di esempi - dalle prime rappresentazioni rupestri alle tombe di varie epoche storiche, dal Neolitico, passando per i monumenti funebri barocchi di Bernini o alla ritrattistica più trionfale e magniloquente, per arrivare ai contemporanei cimiteri, luoghi di preghiera, silenzio e sinistro mistero. La casa della propria morte varia a seconda dell’importanza della persona, dalla tradizione del luogo, dall’epoca storica, ciò che rimane immutato nel tempo, come una costante algida e ipertrofica è la democratica certezza della fine, l’inesorabile destino a cui tutti senza merito o gloria siamo afflitti.
Camminando silenziosamente tra i cimiteri e osservando le diverse tombe e loculi, attraverso la scelta dei marmi, dell’epigrafe, dei fiori, delle fotografie ci si accorge quanto in realtà si dipinga del defunto un’immagine astratta, magari ritratto in un periodo antecedente alla scomparsa, in un momento di gioia, giovinezza, isolato dalle classiche foto di famiglia. Spesso le decorazioni floreali sono contrastanti al sentimento lugubre e nefasto, sono squillanti, vibrano di vitalità, rossi accesi, bianchi puri o gialli luminosi; tutto sembra voler resistere a quel sentimento di rassegnazione e caducità.
Come figurerebbero, invece, i nostri cari o anche i semplici sconosciuti, se venissero strappati a questa grottesca compianta felicità e fossero restituiti ad un espressionismo livido, furioso, poco rassicurante se comparissero tutti quanti arrabbiati e perplessi di fronte a chili di terra e strati di cemento che tumulano per sempre quella tanto agognata e sognata voglia di volare leggere come petali, senza una terra greve e soffocante.
Ecco che l’artista Matilde Baglivo riflette su questo delicato argomento spesso volutamente ignorato dalla maggior parte delle persone solo per semplice scaramanzia, e lo fa attraverso una pittura vivida, una gestualità materica forte e marcatamente espressiva, a tratti caricaturale.
L’artista che da tempo studia sia il proprio volto e corpo che quelli degli altri, in lavori come Sul naso di Marta, Sull’autoritratto, Il facciario - è palese di come elementi quali difetti fisici, orecchi, abiti e colori siano soggetti a vibrazioni atmosferiche coinvolgenti - i ritratti vibrano, infatti, di una splendida ribellione al buon gusto.
Nell’installazione Sit tibi terra levis l’artista accorpa vicine diverse tele con plurimi protagonisti, anonimi, riconoscibili e connotabili esclusivamente grazie ai loro difetti di stile o fisionomica; anche le tonalità cromatiche virano volutamente all’oscurità della terra, della polvere, dell’obsoleto e del consunto. I volti segnati dal tempo, accigliati e al limite dell’indignazione ricordano vagamente l’aspetto grottesco e caricaturale della pittura espressionista di James Ensor; nella versione della Baglivo si tratta dell’entrata di tanti piccoli cristi pagani in una riflessione metaforica di cimitero contemporaneo.
Ad accentuare l’aspetto analogico e intrinsecamente kitsch è quello della comparsa di fiori finti - di plastica - ironicamente scelti per sottolineare l’aspetto falsato della commemorazione che riserviamo ai nostri defunti.
Al paradiso di ritratti digitali perfetti e ben confezionati di Instagram la Baglivo ci riporta alla pittura e ci introduce ad una riflessione sotterranea. La sua sfilata di brutti volti ci sommerge di rughe, grinze, occhiaie, capelli bianchi o maldestramente tinti, nasi lunghi e pronunciati, di bocche piegate all’ingiù e sguardi scolpiti tra la disperazione e la rabbia. La Baglivo inscena un altare-teatrino che odora di naftalina e ceri, i ritratti assurgono la funzione di piccoli specchi futuristici nei quali occorre riflettersi per capire che Narciso non solo si è infranto ma forse ha smesso anche di fingere.
D’altronde sono sempre gli altri che muoiono (D’ailleurs c’est toujours les autres qui meurent).
(Epitaffio sulla tomba di Marcel Duchamp)
Questa installazione ospitata negli spazi di Officina 15 Sit tibi terra levis è un’attenta riflessione sulle modalità attraverso le quali l’uomo continua ad affrontare una tematica importante come la morte. Ci racconti come nasce?
Circa dieci mesi fa subii una profondissima perdita. Quando mi recavo al cimitero, i primi tempi, era strano pensare che al di là di quel quadrato di cemento ci fosse proprio quel qualcuno. Pensare che era proprio lì, a qualche centimetro da me, ad ascoltare i miei lamenti in silenzio.
Iniziai dunque a concepire quel “portale”, quel sigillo, come l’unico collegamento concreto che avevo con il defunto. Senza accorgermene presi via via a riempirlo di fiori, foto, lettere, gadget, e persino dolciumi freschi freschi di pasticceria. Pensai di essere diventata pazza. Poi però, passeggiando per i giardini del silenzio, mi resi conto tuttavia, che molte altre lapidi avevano l’aspetto di un deposito cianfrusaglie e mi sentii meno sola nell’impresa di dialogare con i fantasmi.
Un giorno le portai un bombolone, poiché era la sua squisitezza preferita e lo appoggiai lì, davanti alla sua foto, come se lo potesse quasi addentare. Dopo una settimana si trasformò in una disgustosa tana per vermi e formiche. Da quel giorno non sono più tornata al cimitero.
Passavano i mesi e la voglia di tornarci era forte. Mi chiedevo come potesse mancarmi il momento condiviso con quel cemento decorato, eppure accadeva. Mi mancava il cimitero e mi venne voglia di averne uno in casa tutto mio. Così andai a rubare scatti in cimiteri sconosciuti e traslare i volti sulle tele.
Tra quei volti c’è anche lei.
Come ti sei avvicinata alla pittura? Hai un ricordo preciso?
Disegnavo su carta. Poi il mio professore un giorno mi disse “Vai da Tiger, compra una decina di quelle tele da due soldi e inizia a fare dei ritratti ai tuoi amici”.
Quali sono gli artisti che ami di più, che ti ispirano e perché?
Mi viene difficile essere originale in questa risposta... la scuola di Soutine, Ensor, Daumier, Otto Dix si fa sentire. Ma ho anche maestri più recenti: Hockney, Saville, Freud. Nessun segreto direi.
Cosa pensi di un social interamente dedicato alle immagini, come Instagram? (Utilità, dimensione estetica, ecc.)
Il motivo per cui non possiedo Facebook, ma Instagram, è perché lo trovo molto utile. Penso che se ben usato può essere un buon sito Internet per poveri (me inclusa).
Una delle ultime mostre che ti ha particolarmente colpito in positivo?
Sono andata a fine luglio a vedere La Chapelle a Torino, alla Venaria Reale. Non ho mai visto così tanta pittura in delle fotografie. Pittura che fatico a vedere in molte tele ormai. In particolare sono rimasta completamente abbagliata dalle sue ultime nature morte. Un gran minestrone di fiori finti, resti organici, bambole, farmaci, generi alimentari. Un delizioso matrimonio tra vita e morte celebrato in abiti firmati Kitsch.