Il decennio 1970-1980 è tristemente definito come quello degli “anni di piombo” e mai definizione fu più rappresentativa della realtà che in quegli anni interessò il nostro paese, come mai nella storia repubblicana sino a nostri giorni. La memoria collettiva corre immediatamente agli anni della strategia della tensione, all’eversione di destra, a quella delle Brigate rosse, agli omicidi eccellenti compiuti in Sicilia e sul continente, in danno di magistrati, politici, in particolare al sequestro ed alla uccisione di Aldo Moro del 1978. Ma non è di questo che si intende parlare in questo articolo, anche se la stagione della violenza “politica” rappresentò il più pericoloso attacco alla nostra ancor giovane democrazia. Di essa si avrà modo di riparlare in un prossimo numero, in occasione della ricorrenza del cinquantenario della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Si intende, invece, parlare del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, che imperversò su tutto il territorio nazionale, a partire dalla metà degli anni ’60, per raggiungere la massima intensità nel decennio successivo, per poi proseguire negli anni ’80 con andamento discendente e quindi cessare del tutto nella prima metà degli anni Novanta. Per avere idea del numero complessivo e della distribuzione territoriale dei sequestri, si riportano i dati ufficiali presenti sul sito del Ministero dell’Interno.
Distribuzione geografica dei sequestri di persona a scopo di estorsione per regione e numero di sequestri dal 1969 al 1999:
- Lombardia 158
- Veneto 35
- Emilia-Romagna 17
- Marche 1
- Calabria 128
- Campania 27
- Liguria 10
- Basilicata 1
- Sardegna 107
- Sicilia 27
- Umbria 5
- Lazio 64
- Toscana 0
- Abruzzo 3
- Piemonte 39
- Puglia 21
Trentino 2
Totale 671
Quanto al numero dei sequestri avvenuti per anno per anno si riporta il seguente quadro generale che va dal 1969 sino al 1997:
- 1969: sequestri 3
- 1970: sequestri 9
- 1971: sequestri 14
- 1972: sequestri 8
- 1973: sequestri 18
- 1974: sequestri 41
- 1975: sequestri 62
- 1976: sequestri 47
- 1977: sequestri 75
- 1978: sequestri 43
- 1979: sequestri 66
- 1980: sequestri 40
- 1981: sequestri 44
- 1982: sequestri 51
- 1983: sequestri 43
- 1984: sequestri 19
- 1985: sequestri 9
- 1986: sequestri 18
- 1987: sequestri 14
- 1988 sequestri 14
- 1989: sequestri 10
- 1990: sequestri 7
- 1991: sequestri 12
- 1992: sequestri 7
- 1993: sequestri 9
- 1994: sequestri 5
- 1995: sequestri 2
- 1996: sequestri 1
1997: sequestri 4
Totale 694
Se 671 è il numero dei sequestri, maggiore è il numero dei sequestrati (694), poiché è anche accaduto che a volte con un singolo sequestro si prendessero come ostaggi più persone. Le vittime furono 564 uomini e 130 donne. Alcune decine erano bambini o adolescenti. 80 furono coloro che non fecero più ritorno perché deceduti per malattie, privazioni e stenti subite durante la lunga prigionia (a volte superiore a due anni), oppure perché anziani e già sofferenti per malattie cardiache e altro, e mai i loro corpi furono restituiti alle famiglie, né venne mai data notizia dei luoghi nei quali erano stati seppelliti. Il triste primato di durata venne toccato dal giovane Carlo Celadon, rapito dalla ‘ndrangheta il 15 gennaio 1988, ad Arzignano, provincia di Vicenza, portato in Aspromonte, liberato il 4 maggio del 1990, dopo 831 giorni di prigionia, dalla quale uscì dimagrito di trenta chili e ridotto a una larva umana. Il riscatto, pagato in due rate, ammontò a ben sette miliardi di lire.
Quanto alle organizzazioni criminali che si occuparono di tale tipologia di reato, va osservato che i sequestri avvenuti in Sardegna e in parte nel Lazio e nella Toscana meridionale, furono compiuti da esponenti del banditismo sardo (che mai si organizzò in vera e propria associazione criminale di tipo mafioso); quelli compiuti in Veneto (ma non tutti) dalla cosiddetta Mala del Brenta, facente capo a Felice Maniero e dalla banda dei giostrai (responsabile di alcune decine di sequestri non solo in Veneto, ma anche in altre regioni come Lombardia e Abruzzi), pochi da Cosa Nostra, di cui uno in Sicilia e pochi altri tra Piemonte e Lombardia. Tutti i rimanenti sono da attribuirsi alla ‘ndrangheta calabrese, compiuti in Calabria, Lombardia, Piemonte, Lazio e Campania.
L’anno in cui il numero dei sequestri raggiunse il suo massimo fu il 1977, nel quale avvennero ben 75 sequestri di persona. Un numero oggi impensabile, che se si ripetesse, creerebbe altissimo allarme sociale con ripercussioni politiche e sociali di fortissimo impatto sulla vita del paese. Si tenga conto che l’Italia fu l’unico paese europeo che conobbe un genere di fenomeno criminale barbaro e violento, quasi a segnarla come patria indiscussa di fenomeni mafiosi unici e assai potenti, di fronte ai quali la risposta non era pari all’altezza della minaccia. Mentre al Nord gli obiettivi erano quasi sempre imprenditori operanti nelle ricche province lombarde e venete, in Calabria le vittime furono scelte tra i farmacisti, in quanto destinatari dei cospicui rimborsi per la vendita gratuita dei farmaci, assicurata dal servizio sanitario nazionale. Tali rimborsi erano fonte di liquidità, dunque patrimonio da aggredire con il barbaro rapimento del suo titolare.
Non mancarono casi di ostaggi illustri, da Gianni Bulgari a Roma, a Fabrizio De André e Dori Ghezzi in Sardegna, al piccolo Farouk Kassam, di anni 7 sempre in Sardegna, al re delle pellicce, Giuliano Ravizza, titolare della pellicceria Annabella di Pavia, liberato dalla ‘ndrangheta dopo il pagamento del riscatto di 4 miliardi di lire, per finire con una delle prime vittime della ‘ndrangheta calabrese Paul Getty III, nipote dell’omonimo miliardario americano, rapito a sedici anni nella notte del 10 luglio 1973 a piazza Farnese a Roma e liberato il 15 dicembre delle stesso anno, dietro pagamento della somma di tre milioni di dollari, dopo che la ‘ndrangheta aveva recapitato al padre il lobo di un orecchio del sequestrato.
Il banditismo sardo e la ‘ndrangheta calabrese avevano un forte vantaggio rispetto alle altre organizzazioni dedite ai sequestri: il territorio. La Barbagia per i sardi e l’Aspromonte per i calabresi costituivano prigioni perfette; la prima perché ricca di grotte naturali, l’Aspromonte per la fitta vegetazione che ricopre questo massiccio, attraversato da numerose strade e sentieri e con anfratti inaccessibili se non ai conoscitori del luogo. Ciò spiega il motivo per cui gli ostaggi catturati in Lombardia, sulla base degli obiettivi indicati dai complici che vivevano al Nord, venivano trasportati (persino a bordo di una betoniera) in Aspromonte, da dove si avviavano le trattative, spesso portate volutamente per le lunghe, perché l’attesa aumentava il terrore della vittima, l’angoscia dei familiari, e quindi il prezzo del riscatto. Non era insolito che al termine di una lunga trattativa e della consegna del riscatto, i rapitori annunciassero che quella era solo la prima rata e che la trattativa andava riaperta per determinare l’importo della seconda.
Differenti erano le motivazioni che spingevano le varie organizzazioni operanti sul territorio a compiere questo tipo di reato. Solo la ‘ndrangheta, a differenza di tutte le altre, che avevano il solo fine di arricchimento immediato fine a sé stesso, aveva usato tale genere di odioso reato con un fine ben preciso, di costituire cioè la provvista di denaro necessaria per entrare nel ricco mercato del traffico di sostanze stupefacenti, che richiedeva la disponibilità di ingente liquidità finanziaria. Peraltro, questo fu uno dei plurimi motivi che, una volta raggiunto l’obiettivo, rendeva inutile proseguire su quella attività criminosa sempre meno sicura e ormai rischiosa. Dal 1972 in poi, nella maggior parte dei casi (441) le indagini avevano avuto esito positivo, con l’arresto di tutti, o almeno buona parte, dei sequestratori (va detto che questo tipo di reato richiede necessariamente il concorso di numerose persone, il basista che segnala l’obiettivo, i suoi spostamenti le sue abitudini, gli incaricati della cattura, altri del trasporto dell’ostaggio anche a centinaia se non migliaia chilometri di distanza, e ancora i custodi della prigione, i vivandieri, i telefonisti incaricati di tenere i contatti con le famiglie, sino ai riciclatori del riscatto. In 152 casi, invece, le indagini non diedero alcun risultato. Sono stati arrestati, processati e condannati, oltre 2000 indagati. Oltre un centinaio i latitanti, dei quali tutti catturati in anni successivi.
Si aggiungano i sequestri di parte dei riscatti, l’affinamento delle indagini, la creazione di corpi speciali per il pattugliamento e le ricerche sul territorio, l’utilizzazione di nuove tecniche di intercettazioni telefoniche in grado di localizzare i telefonisti.
Decisivo, infine, il varo della legge 15 gennaio 1991, n. 8, che, all’art. 1, obbligava i magistrati inquirenti a richiedere al giudice, e questi a disporre, il sequestro dei beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge ed ai parenti e affini conviventi. Facoltativo era il sequestro dei beni appartenenti a terzi, qualora vi fosse il sospetto che potessero essere utilizzati per il pagamento del riscatto. In precedenza, alcuni uffici di procura avevano anticipato la legge, richiedendo di propria iniziativa il sequestro dei beni al fine di evitare che il reato venisse portato ad ulteriori conseguenze (il conseguimento del profitto).
Ogni sequestro meriterebbe una narrazione della tragedia che rappresentava per le vittime e le loro famiglie, per le conseguenze psichiche e fisiche che perduravano per anni, soprattutto per i minori di età, ovvero per giovani donne vittime di violenze. Non è questa la sede per parlare delle singole vicende, si vuol fare capire però come il dramma di quelle vittime si aggiungeva a quelle delle stragi, degli omicidi di giovani appartenenti ad opposti schieramenti ideologici, di esponenti delle forze dell’ordine, ai professionisti, avvocati, giornalisti, magistrati, esponenti sindacali, docenti universitari, che hanno perso la vita sulle strade e le piazze d’Italia.
Chiudendo la sommaria ricostruzione storica di un fenomeno criminale che ha caratterizzato a lungo il nostro paese, c’è da porsi alcune domande per cercare un senso alla concomitanza degli avvenimenti di quegli anni di piombo. E perché organizzazioni criminali tra loro estranee e diverse per collocazione e strutture organizzative, si dedicarono tutte, quasi nel medesimo arco temporale, ad un medesimo tipo di reato, quale il sequestro di persona a scopo di estorsione? Si sono formulate varie ipotesi; la prima vede una sorta di ricatto delle mafie allo Stato con la minaccia di tenere il paese in una situazione di costante allarme; altri invece intravedono una strategia di distrazione di massa dell’opinione pubblica e dispersione delle energie investigative e repressive su più fronti, concordata con i poteri occulti dell’eversione. Erano quegli gli anni in cui le mafie e la banda della Magliana erano tutte presenti a Roma, avevano raggiunto forme di raccordo con strutture eversive di destra, come dimostrato negli omicidi di Pier Paolo Pasolini nel 1974, di Vittorio Occorsio nel 1976, di Giorgio Ambrosoli nel 1979, nella fuga di Franco Freda del 1978-79, con l’appoggio logistico della ‘ndrangheta reggina, e tanto altro ancora. Una storia ancora da esplorare, che forse potrebbe consentirci di comprendere il ruolo “politico” che le mafie italiane hanno avuto a fianco dei nemici esterni ed interni della nostra democrazia.