La sua tunica multicolore, intessuta di bisso sottile, pareva ora bianca come il brillare della luce, ora gialla come il fiore dello zafferano, ora fiammeggiante come il fulgore delle rose; ma a confondere il mio sguardo era un mantello nero come l’ebano, che splendeva d’una sua lucentezza tenebrosa. Sparse sull’orlo ricamato e nell’ampia superficie del manto rifulgevano delle stelle, e in mezzo ad esse una luna piena effondeva una luce di fiamma.
È uno dei più antichi inni alla Dea, quello che ci dona Apuleio nelle sue Metamorfosi. Il suo nome non compare: potrebbe essere Demetra delle bionde spighe o sua figlia Persefone, fanciulla e regina infera, oppure la bellissima Afrodite, o Artemide protettrice dei parti. O forse, Iside sovrana. Ma non è importante conoscere il suo nome: è il sacro femminino quello che il protagonista del romanzo invoca nel momento culminante del suo viaggio iniziatico, l’antica madre che lo ricondurrà alla sorgente più autentica di sé.
Nel tempo e nei luoghi del mito, il re Minosse possedeva molti armenti. Un giorno i suoi pastori gli riferirono un fatto straordinario: era nata una vitella che mutava il colore del manto per tre volte nell’arco del giorno, prima bianco, poi rosso, infine nero. Convocarono un indovino per interpretare il prodigio, e lui paragonò la vitella alla mora del gelso dai frutti tricolori, pianta sacra alla Triplice Dea. La venerarono come una vacca sacra, dunque, come la mitica Io dal mantello cangiante, nero come la luna nuova, bianco come a volte è la falce d’argento sopra la linea dell’orizzonte, rosso come il disco splendente nello stupore di certe notti di plenilunio.
Nel tempo e nei luoghi della fiaba, nel cuore dell’inverno una regina cuciva, seduta accanto a una finestra dalla cornice d’ebano. Alzò gli occhi per ammirare i fiocchi che scendevano silenziosi, ed ecco, si punse un dito, e nella neve caddero tre gocce di sangue vermiglio. Il rosso era così bello nel contrasto con quel candore! “Oh, potessi avere una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come l’ebano...”. Pochi mesi dopo la regina diede alla luce una figlia, bianca come la neve, rossa come il sangue, dai capelli neri come l’ebano, e la chiamò Biancaneve.
Nel tempo e nei luoghi delle storie del focolare, c’erano una volta tre galline sorelle: la più giovane era bianca, la seconda rossa e la terza nera. Con l’arrivo dell’inverno decisero di costruirsi una casa: la gallina nera se ne fece una di paglia, di legno quella rossa, mentre la bianca utilizzò delle pietre che trovò lungo il cammino. Ma un lupo cattivo, che aveva osservato tutto di nascosto, soffiò sopra le capanne di paglia e di legno, spazzandole via. lnghiottì la gallina nera, ma la rossa riuscì a scappare, rifugiandosi nella solida casa di pietra della sorella più piccola. Con la casetta di pietra il lupo non poté fare nulla: fu allora che la gallina bianca lo attirò all’interno, gettandolo in un pentolone di acqua bollente. Poi gli aprì la pancia liberando, ancora incolume, la sorella nera.
La gallina nera è una luna nuova inghiottita dal sole-lupo in una congiunzione astronomica e simbolica al contempo; lupo, che nel mito ha sempre natura solare. L’eterno corteggiamento degli opposti si fa narrazione, impossessandosi della fiaba. La gallina rossa, che sfugge all’inghiottimento, è una luna piena superba e vittoriosa; la bianca la prima falce dell’astro, che sorge annunciando un nuovo ciclo di rinascita.
Il nero di Ecate, la dea cinerea; il bianco di Artemide, luna fanciulla che tende il suo arco fulgido di cacciatrice; il rosso di Selene, lo splendore conturbante della Triplice Dea. Fiabesche allegorie abitano le storie di ogni tempo, e i colori della luna ci conducono attraverso i simboli come le molliche che i fratellini seminano nel bosco per ritrovare la strada di casa. Le fiabe giocano a indossare gli abiti lunari: l’oscuro manto dell’occultamento, il candido incarnato della regalità, la rossa veste della passione. La luna è una bambina con un rosso cappuccio, è una fanciulla bianca come la neve, è una giovane serva sporca di fuliggine, pronta a stupire il mondo rivestita di un nuovo abito scintillante.
Questo suggerisce la Fiaba, che non pretende di essere creduta. Perché la Fiaba è il luogo di tutte le ipotesi.