Quando navigavano sul Pacifico, i grandi navigatori solitari, quei romantici temerari epigoni dell’epopea della vela che nella seconda metà del Novecento incrociavano i sette mari per puro spirito d’avventura, chiamavano l’incessante, inspiegabile onda lunga che anche nella bonaccia più sconsolante muove l’immensità di quell’oceano: il respiro del Pacifico.
È esattamente quello che ho pensato ieri notte sul ponte di prua della vecchia, bella barca oceanica che mi sta portando dal porto di Puntarenas, in Costarica all’isola di Coco, trecento miglia a sudovest in mezzo all’oceano Pacifico, quando contemplavo la magia di un magnifico chiaro di luna che si specchiava sulla distesa immobile del mare, senza un alito di vento che ne increspasse la superficie, mentre la nave alzava ed affondava la prua al ritmo di quel possente respiro.
Era da tempo che meditavo di affrontare questa avventura che per noi subacquei è un po’ quello che per i musulmani è il pellegrinaggio alla Mecca o per i buddisti il giro attorno al sacro monte Kailash, qualcosa che almeno una volta nella vita devi fare assolutamente.
La straordinaria unicità di questo viaggio, oltre alla ricchezza di vita marina che offre, consta fondamentalmente nella estrema lontananza della meta dalla costa di una terra che già di per sé è un gioiello di integrità ambientale e un modello di turismo ecosostenibile. Inoltre, l’isola di Coco è un parco marino integrale protetto sia dalla lontananza che dall’assenza di strutture ricettive, nonché dalla difficoltà delle immersioni.
Qua si è infatti costretti a superare quella linea di “non ritorno” oltre la quale ogni errore, dal più lieve al più grave, per la propria o altrui incolumità, viene portato alle estreme conseguenze non essendovi modo alcuno per avere altro soccorso se non quello che ti possono fornire i compagni o il navigato (si spera) staff della nave. Per intenderci: non ci sono camere iperbariche in caso di incidenti subacquei da malattia da decompressione e non possono in alcun modo arrivare mezzi di soccorso tipo elicotteri o barche veloci per riportarti a terra in ospedale, in caso di incidenti di varia natura.
Insomma, ci si deve assumere, cosa che oramai non siamo abituati a fare per l’abbondanza di più o meno validi sistemi protettivi e di costanti vie di fuga, il massimo grado di responsabilità personale come ben si evince dal mal tradotto documento che l’organizzazione, israeliana, ti costringe a controfirmare prima di mettere piede in barca con l’inflessibile inesorabilità che contraddistingue quella gente. In cambio di tutti questi rischi dovresti poterti immergere in un paradiso marino primordiale incontaminato caratterizzato dalla abbondanza di pesce pelagico, i grandi predatori del mare aperto ed in particolare molte specie di squali presenti in gran numero. Il tutto all’ombra di una bellissima isola deserta che era già conosciuta come tale nei secoli passati, al tempo dei bucanieri e dei più famosi pirati, delle cui visite il luogo porta testimonianza incisa sulle sue rupi, tra le quali pare siano ancora nascosti leggendari tesori, frutto delle loro scorrerie, che quei predoni venivano a nascondere proprio qua per la lontananza di Coco da ogni rotta. Inoltre, non a caso, il viaggio è stato programmato quasi nel pieno della “rain season”, la stagione delle piogge durante la quale nel mare maggiore è la presenza di plancton e quindi di tutta la catena alimentare marina, su su fino ai predatori apicali, appunto squali, tonni, delfini e, perfino, orche di passaggio.
L’elevato costo pro capite della spedizione ha selezionato un gruppo di subacquei esperti a cui si aggiunge un giovane ingegnere elettronico costaricano che si reca sull’isola, ovviamente sprovvista di energia elettrica, per fornire il proprio contributo, in qualità di volontario, nella realizzazione di fonti di energia alternativa, compito non facile, poiché, come mi spiegava, la elevata piovosità e la assenza di significativa ventilazione, riduce le possibilità alla sola energia idroelettrica derivabile dai numerosi corsi d’acqua presenti sull’isola.
C’è anche a bordo un autorevole e riverito personaggio, un uomo anziano ma prestante anche se privo di una gamba, una specie di capitano Achab che si destreggia con incredibile abilità sulle sue stampelle con le quali va su e giù per le scalette della nave, talmente ripide da mettere a dura prova anche il nostro equilibrio e che pare sia uno degli armatori israeliani, a bordo con i suoi due figli per un periodo di vacanza. Se la sua gamba gliela abbia strappata Moby Dick o una mina antiuomo nella guerra del Kippur conto di appurarlo durante il viaggio così come di certo testerò la reale consistenza della mia presunta resistenza al mal di mare.
Lingua ufficiale a bordo lo stramaledetto inglese che per una qualche mia tara intrinseca si rifiuta di entrarmi in testa nonostante io viaggi da anni.
L’interminabile navigazione dura 37 ore e di notte, sotto un cielo estraneo, ci si trova a scrutare l’orizzonte marino per cercare il conforto di una lucina nel buio che ti dia l’illusione di sentirti meno solo nell’immensità del Pacifico.
A bordo, tra noi ospiti e i membri dell’equipaggio si parla di tutto anche se, ahimè, il principale argomento di conversazione verte sul terribile episodio verificatosi proprio su questa barca qualche mese prima: una subacquea americana membro di una spedizione come la nostra, una manager abituata a domare gli squali di Wall Street è stata attaccata e ferita a morte proprio da un grande squalo tigre, specie in precedenza non presente a Coco ma evidentemente tornata ad essere stanziale da qualche anno, come si evince dalla scomparsa delle tartarughe marine e dal riscontro sempre più frequente di strane, enormi cicatrici semicircolari sul corpo di mante e grandi pastinache sue prede preferite. In conseguenza di questo attacco, ci spiega il capo della spedizione, vi è stata una rigida modifica nei comportamenti delle spedizioni successive: divieto di nuoto libero, di snorkelling anche in acque basse e soprattutto sospensione delle immersioni notturne durante le quali spesso veniva effettuato lo shark feeding, cioè veniva portato dalle guide qualche pesce morto che lasciato cadere sul fondo generava la famosa frenesia alimentare, un frenetico azzannare ogni cosa capiti a tiro delle loro mascelle, negli squali della zona e non solo. L’ultima volta in cui ho partecipato ad immersioni notturne in cui si effettuava tale pratica ero alle Maldive ed in effetti si formava una enorme concentrazione non solo di pinna bianca, gli onnipresenti squaletti della barriera corallina, ma anche di enormi trigoni, grandi e fortunatamente innocui squali nutrice e branchi di grossi carangidi che ti ruotavano freneticamente attorno passandoti tra le gambe e urtandoti con le loro masse corporee che, come nel caso dei nutrice erano tranquillamente almeno il triplo della mia. Anche se affascinato dallo spettacolo non potevo non pensare che se a quei predoni assatanati ma sostanzialmente innocui per l’uomo, si fosse unito alla festa qualche squalo veramente pericoloso come i grigi, che durante il giorno si incrociano numerosi nel blu oltre la barriera corallina distante poche centinaia di metri o un tigre di passaggio, la situazione avrebbe potuto prendere una piega molto meno entusiasmante.
La cosa curiosa è che fino a qualche anno fa questi animali venivano sistematicamente sterminati perché l’idea di nuotare in acque in cui anche solo lontanamente fosse ipotizzabile la presenza di squali, avrebbe generato un’ondata di panico e soltanto qualche folle in cerca di guai avrebbe osato immergersi. Ora, grazie alla mobilitazione del mondo scientifico internazionale e a una poderosa campagna informativa multimediale, le cose sono cambiate, sulla scia di una crescente consapevolezza dell’importanza dei predatori per l’integrità degli ecosistemi planetari e in considerazione della loro indiscutibile bellezza e del fascino che esercitano sull’immaginario collettivo, sono stati reintrodotti dove erano stati eliminati come nel caso di orsi e lupi in Europa e si proteggono il meglio possibile per mare e per terra in aree come i grandi parchi africani o come questo dell’isola di Coco in Costarica.
Inoltre, i loro stessi persecutori, cacciatori e pescatori, si sono resi conto che queste meravigliose creature rendono molto di più da vive che da morte e ne è nato un colossale businnes ecoturistico che, fortunatamente, consente di bilanciare, ad esempio, le stragi perpetrate dalla pesca industriale degli squali, finalizzata ad alimentare l’infame traffico di pinne di pescecane che sono un piatto ricercatissimo da tutta la “tradizione culinaria” orientale.
Finalmente, all’alba del terzo giorno di navigazione, il nero profilo di un’isola montuosa si staglia a prua della “Sea Hunter”, così si chiama la piccola nave che ci sta portando a Coco.
Man mano ci avviciniamo il sole, che sale dall’orizzonte alle nostre spalle, illumina di luce radente una montagna verde smeraldo che sorge da un mare liscio e levigato come una lastra d’acciaio, mentre nugoli di sule, procellarie e fregate dalla gola rossa, ci sfrecciano sulla testa per osservare lo strano rumoroso “scoglio che cammina”, come deve apparire ai loro occhi la nostra nave.
Il “Sea Hunter” aggira un promontorio di nera roccia basaltica - Coco appartiene a una catena di vulcani estinti di cui fa parte anche Malpelo e le Galapagos che distano non più di quattrocento miglia a sudovest - e giunge in una baia chiusa a nord da una isoletta, chiamata Manuelita, che nei prossimi giorni diverrà molto familiare a tutti noi.
Dalle spalle della spiaggia grigia orlata di palme da cocco dove sbarchiamo per espletare le formalità alla stazione dei Ranger e di là dell’estuario di un piccolo fiume che esce da una gola che chiude da dietro la spiaggia, si innalzano picchi su picchi ricoperti di foresta vergine. Dal sottobosco cortine di rampicanti giungono a lambire le onde, mentre nuvole nere nascondono perennemente le cime più elevate della dorsale montuosa di Coco, regno incontrastato della foresta nublar, la foresta pluviale nebulosa costantemente immersa nei vapori delle nuvole.
E cascate, innumerevoli incantevoli cascate d’acqua dolce che dalle cime delle montagne, nascoste dalle nuvole dove piove continuamente (l’isola di Coco con i suoi 7000 mm di poggia all’anno è uno dei luoghi più piovosi della terra), si tuffano con diversi salti di roccia nel mare cristallino che le accoglie con una candida spuma su cui, quando un raggio di sole le attraversa, brilla un piccolo arcobaleno sotto il quale volano coppie di uccelli bianchi che qui chiamano “espiritu santu”: “spirito santo”.
Così si è materializzato il mio sogno! Che, come sempre, quando riguarda la natura selvaggia, si dissolve come il tenue riflesso di una bolla di sapone contro il fulgore del sole. Le vaghe immagini elaborate dalla mia pur fervida fantasia, infatti, impallidiscono e si dissolvono di fronte allo spettacolo rutilante di una realtà la cui ricchezza è tale da sopravanzare anche la più sfrenata immaginazione. Alla fine, ho visto con i miei occhi i grandi branchi di carangidi vorticare nel sole ed aprirsi al passaggio di tonni dalle ali gialle. Ho visto i grandi squali grigi delle Galapagos, predoni famelici, perlustrare il fondale con il sinuoso veloce moto di un grande corpo flessuoso modellato durante l’evoluzione in modo da incarnare nello stesso tempo la quintessenza dell’eleganza più sofisticata e della più ostile minaccia. Ho visto esseri che paiono di un altro mondo come gli squali martello, dai cui grandi, misteriosi cortei di centinaia di esemplari che lentamente sfilano nel blu, di tanto in tanto, un esemplare, forse un esploratore, esce dal branco e punta diritto su di te; la sua fronte stupefacente spinta da tre o quattro metri di pura potenza, con una lieve torsione del capo ti osserva col suo nero occhio posto ai lati della testa e, appagata la sua curiosità, a pochi centimetri da te completa l’ampia torsione del corpo muscoloso e torna sdegnosamente a rinserrare le fila del corteo di fantasmi e, con solenne lentezza, scompare insieme agli altri nel blu cobalto dell’oceano.