Gelosia, La Disfatta, Vortice e Olocausto, oltre all’incompiuto Sì, sono i romanzi dell’ultima fase narrativa di Alfredo Oriani, di cui, quest’anno ricorrono i 110 anni dalla morte. La critica si è sempre chiesta e si chiede a quali fattori sia dovuto il cambiamento stilistico e contenutistico di queste opere rispetto ai precedenti Al di là e No, tanto per citare le due opere più significative della “vecchia maniera”. Ma, forse, tutto è più semplice di quanto non si creda, perché, anzi tutto, c’è un’evoluzione nell’uomo Oriani, che, da giovane ribelle tardo romantico, si trasforma in individuo più maturo e consapevole del “principio di realtà”, arrivando all’amara riflessione che: “L’uomo è nato a soffrire ed a tacere”. Poi, nel panorama letterario europeo e italiano, si sentiva sempre maggiormente l’influsso della poetica verista, come quello del romanzo psicologico alla Bourget. Infine, anche l’influenza dei suoi più amati “luminari” Balzac e Tolstoj, si fa più stimolante e feconda verso un condensarsi di contenuti più schietti e dolenti e una prosa scarnificata e depurata degli eccessi scapigliati della prima maniera.
C’è, poi, anche un intento implicitamente o esplicitamente “morale” che si esplica in ritratti, soprattutto femminili, dove l’etica del sacrificio e dell’accettazione fa da contraltare all’edonismo sensuale delle opere giovanili. La Tina di Olocausto è una delle figure che più incarnano questo nuovo indirizzo della poetica orianiana. Il romanzo, pubblicato nel 1902, configura tanti temi serpeggianti nel vissuto dello scrittore, a partire dall’egoismo e l’inanità delle figure genitoriali, in particolare della madre. Sappiamo che Oriani portò sempre segnato nella sua psiche il trauma dell’indifferenza materna e della pochezza paterna e in Olocausto” una madre, mantenuta di lusso poi caduta in disgrazia, nella sua stolidità incosciente sacrifica una figlia adolescente con un’indifferenza amorale: “La fanciulla cresciuta in quei bassi fondi, così pericolosi alla innocenza, serbava ancora il proprio incanto mattinale, benché sapesse tutto quanto si cerca indarno di nascondere alla prime curiosità dell’anima come una malattia vergognosa. E invece accade spesso che i fanciulli passano da contrabbandieri i confini, abbandonandosi a scorrerie dalle quali tornano con la febbre nel sangue: hanno imparato senza provare, sognato invece di vedere …”.
In un atto di supremo sacrificio e di sottomissione alla madre, Tina è costretta a prostituirsi, senza mai consentire interiormente alla perdita della verginità: “una ripugnanza di spavento e di orrore le faceva quasi credere di dover subire una mutilazione, qualche cosa di avvilente e di straziante come sotto il ferro di un chirurgo, che vi taglia la carne, e dopo si resta per tutta la vita deformi davanti al sorriso della gente. Perché dunque le si voleva imporre questo?” Questa nuova maniera di comporre dello scrittore è stata chiamata “verismo analitico” per il suo conciliare la rappresentazione cruda e oggettiva ad uno scandaglio delle pulsioni irrazionali dell’agire individuale. E si potrebbe anche definire anche “verismo psicoanalitico”, per l’arrendersi dei personaggi di fronte a una forza inconscia che li spinge a un autolesionismo contrario a quello che effettivamente vorrebbero. Inoltre, in alcuni passi di “Olocausto”, la descrizione dei sogni di Tina è ricca di metafore e simbologie sessuali degne di un trattato freudiano e che svelano anche i lati più reconditi delle sue angosce di autodistruzione e deflorazione, come quando sogna un signore vestito di nero che le infigge un gambo di rosa nel seno: “Il dolore fu così acuto, che le parve di svenire, poi non vide più nulla: Il gambo le penetrava sempre più addentro, rigido, sottile, mentre la rosa troppo pesante le tirava giù la piccola mammella verso il grembo … il sangue, uscendo a gocce, bagnava tutta la rosa e cadeva dentro la tazza dal manico rotto, nella quale la mamma prendeva qualche volta il caffè. Come mai aveva quella tazza tra le ginocchia? Che cosa era stato?...”
Dopo aver subito lo stupro in una casa di prostituzione di alto livello, la fanciulla diciassettenne fugge disperata per le vie della città e ripercorre con la mente tutte le terribili sequenze di quella violenza inaudita sul suo gracile corpo: “Un odio subitaneo l’aveva invasa contro quell’uomo calvo, col ventre che gli usciva dalle tracolle rosse. Perché non le aveva nemmeno chiesto come si chiamava? I suoi occhi, lucidi come quelli dei gatti la fissavano con tale acutezza che la fanciulla si coperse la faccia con ambo le mani … tutto aveva dovuto diversamente soffrire prima di quello spasimo supremo, nel quale le era parso di morire, mentre in alto la sua immagine nuda affogava dentro il lucido gorgo dello specchio in una convulsione di agonia …” E Tina fugge da quel luogo maledetto e cerca di fuggire da se stessa, correndo, già minata dalla tubercolosi, verso quella morte che sola avrebbe potuto evitarle di essere sottoposta ancora all’infamia che aveva appena subito. “Ella pensava: ‘Che cosa è la morte?’ E non sapeva immaginarsela che quale un sonno più lungo, forse più freddo ma insensibile … pareva che una nebbia le fosse entrata nel cervello, stentava a ricordarsi … Forse così muoiono i fiori sotto l’umidore della rugiada, dopo che il sole li essiccò nella lunga giornata. Persino quella ultima, acuta voglia di una bianca corona virginale sulla bara non rimaneva più che come la estrema luce del suo olocausto”. Ma, di fronte al prete chiamato al suo capezzale, la docile, ingenua, Tina ha uno scatto d’orgoglio e di ribellione e al sacerdote che biascicava consolatoriamente che la giustizia divina è un mistero, e che Dio permette il male, risponde coraggiosamente: “Contro gli innocenti? … io …non lo permetterei: bisogna essere cattivi per trattare così delle creature che non hanno fatto nulla.” Così, in passi di una forte violenza espressionistica, il misogino Oriani rende un appassionato omaggio alla donna, con una denuncia non retorica o freddamente ideologica delle vessazioni che è costretta a subire da parte dell’uomo e della società.
Sono pagine di rara e allucinante intensità che ci fanno una volta di più capire quanto siano stati parziali i giudizi di chi ha considerato lo scrittore romagnolo un “minore” e quanto ancora si debba fare per ricondurlo alla grandezza che si merita.