Quasi sempre la visione di un film ben fatto che veicola un messaggio nuovo è sufficiente per indurre nello spettatore un’adesione profonda. Questa forza di penetrazione modifica il modo di pensare di chi guarda, senza che se ne avveda. Da qui la responsabilità di dare messaggi veri.
Quelli del film Joker, vincitore del Leone d’Oro alla 76ma Mostra del cinema di Venezia. sono condivisibili solo in parte, ma la forza della recitazione è così grande che il film rimane bello, assolutamente da vedere.
L’attore Joaquin Phoenix lascia senza parole per l’interpretazione che fa del Joker Arthur, per la quale si è sottoposto ad una dieta ferrea, il regista Tood Phillips per i colpi di scena che rendono lo svolgimento avvincente. Chi non ha sussultato per l’uso improprio di un elettrodomestico da parte di Arthur, immaginando che gli impedisca di andare in TV, dove l’hanno inaspettatamente invitato? Chi si immaginava che questo uomo, definito strano da più di un collega, avesse l’ardire di proporsi, ed essere ricambiato, ad una vicina molto bella?
La sua stranezza è resa plateale da una risata che, nei momenti di imbarazzo, lo scuote, indomabile e fragorosa, e che suscita nei presenti un gran disorientamento, perché pensano di esserne l’oggetto. Si salva da reazioni anche violente solo se può far leggere un biglietto in cui si spiega che ride per malattia.
Una vita faticosa, madre malata che assiste vivendo insieme a lei in un quartiere degradato, lavorando da clown precario, una scelta probabilmente originata dal ritornello materno “ridi e fai ridere”, un must che trasforma la spontaneità del vivere in un incubo di non farcela.
Tira avanti con le medicine che gli prescrive un’algida operatrice psichiatrica del tutto inadeguata. “Tu non ascolti quello che dico” e “Mi fai sempre gli stessi discorsi” sono le reazioni di Arthur alla terapia, che verrà presto interrotta per mancanza di fondi. Un mondo di risate, ma con la tensione che cresce di fotogramma in fotogramma, alimentata dalla difficoltà di immaginare cosa succederà. Di più non va detto. La trama è un espediente per fare un’immagine dell’attualità, un mondo dove spesso le masse scelgono come capo un folle che sentono li rappresenti appieno, senza immaginare le conseguenze della scelta. Come il loro prescelto, pensano che spazzar via tutto basti per ottenere una nuova società giusta e piena di allegria. Senza un programma, sembra più facile l’avverarsi della frase “Una risata vi seppellirà”, usata nel passato contro gli oppressori, ma che qui è un monito a chi si muove senza strategie, animato solo dall’odio.
Il punto debole di questo bel film? La descrizione di come il nostro Arthur possa trasformarsi da uomo disturbato psichicamente, fragile e sofferente, ma dotato di affetti, in un pazzo delirante distruttivo, totalmente indifferente. È un po’ come sostenere che, se hai l’influenza, e prendi ancora tanto freddo, questa si trasforma in cancro. Le genesi delle due malattie sono totalmente differenti. Psichiatria docet.