Un tramonto sul mare nell’ora che intenerisce il cuore. L’estate si sfilaccia eppure il tepore resiste, dimentico del freddo che dovrà venire.
Una sottile bruma ricopre ciò che già è stato ma ancora non è distacco e lo sguardo non sa ritrovare i segni di sentimenti che ancora non sono ricordi, che ancora non sono passato.
Non si riesce ad accendere la lampada sulla visione di ciò che si è compiuto così da lasciar intravvedere un nuovo inizio.
È un respiro sospeso, tempo di mezzo. È l’attesa, il sentore dell’altrove.
Si sta come sulla soglia, come il “viandante nel mare di nebbia”. Il volto si sforza di incrociare un debole raggio di quel sole che continua a scaldare la fine dell’estate.
È una sensazione di persistente instabilità: ossimorica condizione dell’esistenza.
Una distesa di sabbia lucente, la brezza profumata di salsedine porta la voce di antichi velieri, il suono umido di strumenti toccati dalle mani dei marinai per tenere la rotta.
Nell’ora che volge al desio c’è tempo per lasciarsi condurre dall’immaginazione oltre la fisica delle emozioni, per viaggiare nei paesaggi dell’interiorità che offre rifugio allo smarrimento che s’accompagna alla visione del trascorrere di ogni cosa.
Gli occhi si aprono a fissare il pensiero della lontananza che non è separazione eppure increspa la superficie quieta del mare senza vento e inizia ad oscurare lo sguardo della felicità.
È tempo di separazione, di abbandono, brivido di mondo fluttuante che trascolora dalla luce calda della pienezza generosa al tepore rosato e flebile che si attarda nel tramonto.
La continuità si nega.
Come esuli in una terra sconosciuta.
Riaffiora il timore della dimenticanza e ancor più del suo farsi oblio. Si cerca di trattenere qualche fugace bagliore, volti, voci, emozioni per dare forma a nuove presenze tessute con un filo invisibile nel ricordo e nella narrazione del tempo perduto, un annuncio, un segno che permetta di ritrovarsi nel labirinto della necessità.
Lontano, all’orizzonte appare la fortezza dalle mura di giada.
La contemplazione si sostituisce allo spaesamento e allora il cuore sembra pacificarsi, ritrovare il desiderio di partire, la forza di abbandonarsi all’ignoto.
Sette montagne di smeraldo
si innalzano dall’abisso
Sette fiumi di acqua perenne
si versano nel mare
Sette isole di cristallo
riemergono dalle onde misteriose dell’oceano.
Si odono deboli ma intensi richiami che invitano a riprendere il viaggio, eppure l’anima resiste, avvolta da un sottile velo che non vuole lasciar cadere.
Si sente l’odore della paura che scompone e dissolve l’equilibrio di un paradiso perduto o mai incontrato.
Sembra di vacillare in una vacuità che non è vuoto ma sconfinamento nell’indicibile.
Si trova la forza di lasciarsi piangere.
Ci si addentra nelle antiche strade macchiate di parole incrostate di ruggine, si percorrono distese di emozionati ritorni, di commosse partenze.
La mente si distrae, entra in una condizione di sospesa, inaspettata speranza che dirada quella lieve foschia che avvolge le cose: felicità non è raggiunta ma ne permane l’eco.
Visione di bellezza che intride l’aria e risuona, trasparenza di incessante metamorfosi, un dono del cuore che si allarga ad accogliere la distesa del cielo sopra di noi per calarlo nel nostro cielo interiore e nutrirsi di un frammento di intensità.
Le parole sono coraggiose, si tuffano senza paura nello specchio d’acqua che sta tra la terra e l’orizzonte e nuotano libere alla ricerca di nuovi significati, di nuovi mondi ai quali dare il nome.
Loro conoscono la purezza che permette di tornare sempre alla sorgente del nostro sentire. Sono indulgenti, sanno darci rifugio quando l’animo vuole fuggire ma non trova una destinazione possibile.
Accolgono in un abbraccio il nostro turbamento, fanno sì che la nostra esitazione non divenga dubbio sul senso delle cose, ci distraggono con i loro racconti.
Come per incantesimo ci fanno udire la voce di antiche storie: sogni di naviganti che inseguono la Chimera, riflessi cangianti del desiderio di rispondere al canto delle Sirene.
La luce della luna placa l’inquietudine, si fa silenzio per accompagnare la sua salita, lenta e maestosa e quel silenzio diventa uno con il rumore dell’acqua: un abbraccio di immensità.
Antica Signora, che spalanchi le tue ali sull’eternità,
che distendi nel cielo il chiarore che emana dal tuo volto immortale
La tua grande bellezza si diffonde sulla terra, ogni cosa si svela alla tua luce sfavillante
L’oscura notte si accende alla luce del tuo diadema d’oro purissimo
Il tuo fulgore invade la distesa dell’Oceano quando tu, o divina, detergi le belle membra e indossi la veste che risplende di lontano
Dea dalle bianche braccia, divina Selene, benigna, dalle belle trecce1.
È tornato settembre, il settimo degli antichi mesi, quello nel quale i flutti si infrangono sulla terra imbiancata dalla luna nell’equinozio d’autunno.
Settembre ha un colore, un tenue azzurro venato di pervinca, il colore tiepido della sera che riflette il corpo fragile della solitudine.
La poesia non si sottrae alla metafora che lo associa all’autunno della vita.
Settembre ha un odore di barche in attesa sul porto, scorre con lentezza dipanando un desiderio tenerissimo di passeggiare lungo una riva che raccoglie iridescenti madreperle; la spirale di una conchiglia cattura lo sguardo; tornano in un istante altre emozioni, passate stagioni.
La mente ci riporta “la presente e viva e il suon di lei” ed è con commozione che si ripensa alla dolcezza del naufragare.
Associo settembre all’elemento liquido, alla trasformazione che fluisce e ci lascia continuamente diversi, bisognosi di comprendere e di essere compresi.
È tempo di chiaroscuri, di frasi sussurrate mentre le nuvole veleggiano lievi e creano alate figure che si fanno e si disfanno nella chiara luce dell’orizzonte.
È più facile trovare luoghi di penombra nei quali sentire la protezione del silenzio, l’altalenare pacato del nostro respiro.
È il tempo nel quale l’attesa si fa preludio di una melodia crepuscolare, ricordo di sospirose arie di un trascorso melodramma.
È tempo di malinconia, con il suo sentire sottile, seducente. La malinconia si insinua con abilità tra le pieghe di una sensazione, di un’esperienza piacevole e comincia pian piano, dolcemente, a generare un sentimento di tenerezza che è in realtà un timore delicato e flebile, un’ansietà discreta, quasi commovente eppure definitiva, impossibile da placare, da zittire perché ha radici lontane, lontanissime e custodisce un meccanismo complesso.
Penso a Leopardi in un passo dello Zibaldone: “la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica”.
La malinconia ha a che fare con la nostalgia, con la memoria, con l’infanzia e il ricordo, è uno sguardo indulgente sul dolore, è uno stato d’animo che attiene al rimpianto, al dispiacere, forse al rammarico la cui natura etimologica è ‘amara’ come è amaro il sapore della separazione da ciò che ci è caro. Il cigno in gabbia ne è il suo emblema superbo.
La malinconia trascorre volentieri nella luce del tramonto che è consapevole di portare in sé l’annuncio dell’oscurità. In quello sfuocarsi, in quello spegnersi veniamo avvolti dal buio interiore al quale fatichiamo ad abbandonarci, eppure qui ci aspettano un altro vedere, un altro udire.
Nel deserto della notte come nel deserto del cuore si cerca un altro cielo nel quale riflettersi come in uno specchio.
È l’esperienza dell’abbandono che è abbandonarsi ed essere abbandonati in una identità di parola che testimonia il labile confine tra il sentirsi smarriti nel dolore e l’accogliere con fiducia “l’enigma dell’esistenza che manda i suoi bagliori: fuggitivi, lampi di apparenza e di sparizione. Stelle cadenti del desiderio” 2.
Settembre è un mese adatto a custodire la parola addio con la sua aura di sacralità che dice “A Dio (ti affido)”, una espressione che contiene quel sentire amorevole che non si identifica con una religione ma che ha radici in una dimensione metafisica che è consapevolezza del nostro essere creature bisognose di protezione e di benevolenza.
A cura di Save the Words ®
1 Cfr. Inno omerico XXXII, a Selene.
2 A. Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2008.