Afrodite quando vuole sa escogitare punizioni crudeli. Governa forze prorompenti e sovente i miti che la riguardano portano alla ribalta i lati oscuri dell’eros: l’odio che prorompe da un amore tradito, la disperazione per la passione non corrisposta, la gelosia che obnubila la mente. Spesso, nella tessitura simbolica della narrazione, si contrappone ad Artemide, archetipo di un femminile che sente antagonista; una dea vergine, indipendente, disinteressata agli allettamenti dell’eros.
C’è un mito, struggente e passionale, che ripropone con intensità il dramma di questo scontro archetipico: è la vicenda della giovane Mirra, protagonista di un racconto eziologico che spiega l’origine della resina intensamente odorosa che prenderà il suo nome, attraverso le suggestioni di una leggenda di metamorfosi.
Mirra era figlia di Cinira, re di Cipro, l’isola consacrata ad Afrodite. Molti pretendenti la chiedevano in sposa, ma lei respingeva ogni proposta per devozione ad Artemide, poiché desiderava imitarne l’ideale di verginità; un oltraggio sacrilego per Afrodite, ancora più odioso perché consumato su un suolo a lei sacro. L’atto di superbia ispirò alla dea un castigo pari alla provocazione: infuse nel cuore della fanciulla un desiderio d’amore criminale, incestuoso, spingendola verso un’incontrollabile attrazione nei confronti del padre. Inizialmente, la vergogna costringe Mirra a nascondere turpe passione, ma quando il disordine della mente prende il sopravvento, la sventurata riesce a portare a compimento la folle intenzione. Con la complicità della fidata nutrice, escogita un inganno per infilarsi nel letto del re tenendo nascosta la propria identità, proprio nei giorni in cui la legittima sposa, sua madre, si è allontanata per celebrare i riti annuali dovuti a Demetra. A favorirla è il buio della notte: anche la Luna è fuggita dal cielo per non vedere ciò che le leggi dell’uomo hanno vietato. Il padre scopre l’inganno solo quando l’incesto è ormai consumato, gravido per di più della conseguenza di un concepimento snaturato.
Cinira, conscio di aver violato le leggi sacre della famiglia, condanna a morte la figlia: vorrebbe anzi ucciderla con la sua stessa spada, ma lei si dà alla fuga e vaga nei boschi per i lunghi mesi della gestazione, mentre il fardello del suo ventre si fa greve come il suo senso di colpa, perché il velo dell’incanto è ormai svanito e la disperazione è il crudele definitivo dono lasciato da Afrodite. Quando la Luna riappare per la nona volta, la liberazione dal tormento è l’ultima preghiera rimasta a Mirra, ormai sfinita: la quiete della morte le sembra più leggera da sopportare di quel doloroso trascinarsi dell’esistenza, ma teme che anche i defunti possano respingerla. Supplica allora gli dèi di essere cacciata da entrambi i regni, e una pietà tardiva giunge a liberarla: Madre Terra ascolta sempre le preghiere di una figlia. Lentamente, una metamorfosi comincia a impossessarsi delle sue membra.
Mentre ancora sta parlando, la terra le ricopre le gambe, le unghie dei piedi si spezzano e attraverso esse spuntano oblique radici che si protendono a costituire la base di un alto tronco; alle ossa si sostituisce il legno che mantiene dentro di sé il midollo, mentre il sangue si trasforma in linfa; le braccia diventano grandi rami, le dita ramoscelli; la pelle si indurisce formando la corteccia. E ormai l’albero, crescendo, ha avviluppato il ventre gravido e coperto il petto e già sta per arrivare al collo: Mirra non sa aspettare e si accoccola dentro il legno che sale e immerge il volto nella corteccia. Perde, è vero, insieme al corpo la sensibilità di prima, ma continua a piangere e tiepide gocce trasudano dall’albero. Anche le lacrime hanno una loro dignità. La mirra che stilla dall’albero detiene il nome della fanciulla che l’ha portato e resterà famosa per sempre.
(Ovidio, Metamorfosi)
Anche le lacrime hanno una loro dignità! La commozione è l’ultimo residuo dell’antica forma umana: un miracolo, quel pianto, che si ripeterà ogni anno, quando la mirra trasuda dalla corteccia le sue gocce profumate. Medicina, odoroso e sensuale ristoro per il corpo, aromatica offerta per gli dèi. Nell’attimo umbratile del transito metamorfico da donna a pianta, Mirra partorisce Adone, il figlio destinato a essere partecipe di entrambe le nature. Adone esce dalla corteccia spaccata da quelle doglie innaturali: gli fanno da levatrici le ninfe, che lo depongono sull’erba e lo ungono con le lacrime prodigiose della madre. Sarà lui il bellissimo giovane di cui l’invidia stessa avrebbe lodato l’avvenenza; amato proprio da Afrodite, che così duramente aveva perseguitato Mirra, e a lei conteso da Persefone, la dea del regno oscuro. Un fanciullo rivendicato nell’opposizione tra eros e morte, stretto nel doppio abbraccio di Afrodite e Persefone, che nella riconciliazione degli opposti troverà la propria identità.
In greco il nome mýrra presenta una forte assonanza con myrríne, il mirto: l’arbusto sacro ad Afrodite, quasi una sua teofania vegetale. Entrambi si riconducono al verbo mýro, “stillo”, “piango”, che ricorda quel pianto antico in cui si erano generate le prime gocce resinose, dolorose lacrime della rinascita metamorfica; ma anche al sostantivo /mýron/, “unguento fragrante”, “profumo”. L’universo della dea allaccia seduzione e olfatto, confonde alchimie d’amore e artifici odorosi. Anche nelle parole si nasconde il mito.