Dal deserto del Nord doveva giungere la loro fortuna, l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno.
(Dino Buzzati, Il Deserto dei Tartari, VII)
La Fortezza Bastiani è l'Impero, il Kathekon, ciò che resiste al vuoto e al nulla. Le generazioni e i tempi passano ruotando al servizio della Fortezza in un'attesa apocalittica.
(Akexandr Dugin, Incontro di Varese del ciclo “Reuropa”, 9 giugno 2019)
Qual è il segreto del fascino di questo romanzo breve dalla prosa scarna e veloce? Perché è un capolavoro quest'opera di Dino Buzzati tanto da riuscire trasfigurarsi in un analogo doppio nell'affascinante film di Valerio Zurlini (1976)? Con poche pennellate Buzzati riesce creare per evocazione allusiva immensi paesaggi umani e naturali. Con poveri cenni si aprono silenzi leopardiani, vertigini mistiche, e si condensa in poche semplici parole un epos eroico più interiore che fattivo, più amato e percepito nelle sue potenzialità che vissuto pienamente. Drogo incarna come forma-simbolo universale tutta l'umanità della Fortezza, tutta l'umanità del mondo colta nei suoi aspetti virili ed eroici. Essi vivono incorporati in una Fortezza che vive anch'essa, come un'estensione del loro corpo, testimone spirituale delle tensioni ideali che custodisce. Essi vivono nel medesimo travaglio esistenziale postmoderno di Oreste, ultimo re di Sparta, dato dal non essere più nel Mito e nella sua gloria e non ancora nella Storia, quale ritorno del Mito nel tempo, quale epifania di “quell'Ora della Gloria” tanto desiderata e per la quale sacrificare lo scorrere della vita.
Quale uomo non si può identificare nell'Ufficiale Drogo? Chi non ha avvertito l'amaro eroismo del vivere il passaggio dall'idealismo spensierato della giovinezza al tempo abitudinario della maturità? Chi non desidera l'apparire della propria “ora favorevole”, del proprio Kairos? Il tema dell'opera è, quindi, dato dal rapporto tra tempo e destino. L'uomo aspira a superarsi nell'eroismo della singola scelta, dell'atto assoluto, del dimenticarsi nell'azione pura, cioè la natura umana tende e aspira a uscire dalla tirannia di Kronos, che quantifica e uniforma il divenire auto divorando i momenti che produce, per passare, tramite Kairos, l'Ora decisiva, alla dimensione spirituale di Aiòn, l'eterno e superiore presente, la sacrale Parusìa. Un'attesa continua regge di senso la monotonia del servizio di guardia alla Fortezza Bastiani, sempre uguale ma pure sempre camaleonticamente differenziata, quasi termometro psichico dell'esserci coscienziale.
Questo romanzo fatto quasi di nulla incorpora forme universali e condensa una grande verità di vita data dall'essenza esistenziale quale servizio, vigilanza e combattimento. Già nei Salmi dell'antico Israele è data l'immagine viva e di soglia della guardia notturna sulle mura quale realtà del nostro attendere la Rivelazione divina e il nostro riscatto. Più che le sentinelle l'aurora Israele attenda il Signore (Salmo 129). Se l'anima attende come una sentinella sugli spalti l'incontro definitivo con Dio, al contrario anche gli altri come guardie sono momenti di prova epifanica ed eroica. Nel Cantico dei cantici è la ronda militare delle mura di Gerusalemme l'immagine simbolica che testa se l'Amata, l'Eletta sia pronto all'incontro con l'Eletto (Ct. 3,3; 4,7). Il muro del Tempio di Gerusalemme divide ma pure unisce l'Eletto divino con l'Eletta umana, assumendo una funzione rivelativa, epifanica, pontificale (Ct. 2,9 e 14). Il “muro” è uno dei rarissimi elementi simbolici detto “nostro”, segno di superiore unità, proprio nel suo essere Limes invalicabile.
Nel romanzo si riesce a vivere il vuoto apparentemente senza senso dello scorrere di Kronos retti dal Mito, e dal suo movimento di incontro con gli Ideali dei soldati. La morte apparentemente futile e sciocca del tenente Angustina, fra le nevi di una montagna di confine, ricorda il ritratto del principe Sebastiano, di un eroe di guerra del passato esposto nella Fortezza. Angustina muore in posa eroica, affrontando la fine con dignità e nobile compostezza, scegliendo la postura del suo Kairos in bellezza e lucidità. Il romanzo non dà volutamente connotazioni storiche, geografiche o politiche precise, altrimenti non potrebbe assurgere a forma universale, a grande racconto sulla condizione umana e sulle sue drammatiche contraddizioni intrinseche.
Nonostante questo l'opera, sia il romanzo che il film, si lasciano leggere anche geopoliticamente, in una sorta di geopolitica spirituale e metatemporale. La Fortezza Bastiani, con cui Drogo si identifica insieme ai suoi compagni d'arme, è il Limes, la Soglia tra il tutto e il nulla, tra il futuro incombente e l'oblio del passato. Roma antica visse nel Limes, quando già era decaduta e corrotta come metropoli. Il Limes era il cuore dell’Impero Romano, da Marco Aurelio a Costantino, l'ultimo imperatore che riconquistò l'unità imperiale, le nozze tra la luna e il sole, fra oriente e occidente, fra l'anima latina e la sapienza greca. Quando Roma già non esisteva più ancora viveva nel Mito di chi la serviva nel Limes, come l'eroismo straordinario dell'imperatore Maiorano dimostra. Il Limes manifesta una dimensione spirituale verticale, che attraversa tempi, generazioni e stati dell'Essere, come le muraglie del Mito medioevale di Alessandro Magno, che apocalitticamente trattengono l'irrompere di Gog e Magog. Nella stessa Apocalisse di Giovanni il tema della mura della Gerusalemme celeste appare tema significativo, fondativo, la cui misura divino-umana definisce la nuova creazione dove non c'è più differenza tra terra e cielo (Ap.21, 17-18). Non sono i cristiani chiamati eroicamente a divenire “pietre vive” per un “edificio spirituale”, come insegna sia Paolo (Efesini, 4.16) che Pietro (1Pt, 2,5)? Sarà la battaglia finale, l'Armageddon, l'Ora risolutiva (Gv. 12,23), il Megas hemera Theou della Rivelazione (Malachia, 3,23) a dare senso a tutta l'attesa del tempo della Storia, come ha compreso lucidamente lo scrittore e filosofo russo Alexandr Dugin il cui profondo carisma russo permette di manifestare uno spirito apocalittico mistico-eroico, dimensione che l'Occidente ha in gran parte smarrito. Eppure San Paolo era stato chiarissimo: Il mistero dell'iniquit è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene (katechon). Solo allora sarà rivelato l'empio (l'anticristo) e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all'apparire della sua venuta (Tess. 2, 7.8) Nella fine del mondo, cioè nel Limes-Fortezza che separa il deserto conosciuto dal deserto ignoto, si apre l'infinito, come già Evola aveva compreso (“L'assoluto non sta dietro, ma avanti”. Julius Evola, Il problema dello spirito contemporaneo) e prima di lui i Gesuiti, ripresi da Gioberti: il divino infinito si condensa nel finito, nel Limite: non coerceri a maximo, contineri antem a minimo divinum est (motto sulla tomba di Sant'Ignazio di Loyola). L'a-peiron presuppone e implica la perimetrazione, matrice del sacro.
Drogo non ha scelto la Fortezza, non ha fatto alcuna domanda di servizio presso quel monastero militare sui monti. È la Fortezza che ha scelto Drogo e il giovane tenente ha messo in pratica l'antica saggezza romana: accettare il destino, non opporsi ma cavalcarne l'onda invincibile. E mentre i giovani cadetti venuti all'ultimo momento dalla città si lanciavano nella battaglia da altri attesa per una vita Drogo incontrava in nobile lucidità la sua morte, comprendendo quello che i medioevali sapevano bene: la vita è milizia, la vita è preparazione all'incontro con la morte, la battaglia più ardua. Ha ragione Alexandr Dugin: la Fortezza Bastiani è la forma dell'Impero, cioè la forma formante, è il crogiolo che mette alla prova l'animo, il corpo che accoglie il Mito, cioè il racconto dell'esperienza della Gloria, senza la quale l'anima langue, la struttura profonda, abissale, che preserva l'esserci anche nel tedio distruttivo di Kronos, nel vuoto dell'assenza di senso del postmoderno, permettendone la trasfigurazione nella Presenza: la Parusia. La prigionia d'onore diventa fedeltà eroica e l'apparente alienazione della Fortezza libera i soldati dall'alienazione del falso mito della città. Il Mito della Battaglia annulla le false luci del piacere e del divertimento in una graduale metanoia che sa reggere qualsiasi prova, anche quella della mancanza della Prova stessa.
È inutile fuggire. La Fortezza annulla ogni fuga, annulla l'essenza fugace e sfuggente dell'esistenza illusoria, per ridonare la totalità profonda della presenza piena a se stessi. Hic et hodie. La stessa città esiste in quanto la Fortezza delimita il Deserto del Nord, che è il luogo del possibile, la Terra del Mito, il confine fluido e immobile, il fondo immanente dell'immaginazione di cui la Fortezza è la sub-stantia che tutto regge. La Fortezza educa spartanamente alla vigilanza, al servizio e al combattimento, istante per istante. E ogni buona guerra santifica ogni battaglia, anche quella non combattuta. Il mondo del rinvio si trasmuta nel deserto visto, contemplato e accettato, nell'attesa totale, dove il futuro si cela gravido nella presenza e il passato mai passa nel racconto vivo del Mito. La Fortezza Bastiani visualizza la continuità di Ai nelle sue epoche di occultamento, è un ponte straordinario tra il ciclo eroico del Mito e le epoche del suo oscuramento, il momento tragico e silente dove tutto appare fermo mentre la Ruota si placa un poco tra un'ascesa e la sua prossima ridiscesa.