Oggi il jazz è sempre più spesso un’eclettica riproposizione dei grandi stili e dei grandi creatori del passato o un’artigianalmente accurata esecuzione che ci richiama temi e sonorità lontani e ci fa cullare nostalgicamente nel sogno di risentire Coltrane, Monk o Davis.
Ho ascoltato negli ultimi anni nel nuovo tempio del jazz italiano, il “Blue Note” di Milano, tre indiscussi colossi del pianismo nero, Ahmad Jamal, Andrew Hill e McCoy Tyner il cui solo nome evoca concerti ed LP storici: qua e là sprazzi della passata grandezza, ma quanta fatica, quante autocitazioni di qualcosa che ormai non c’era più, né poteva esserci.
È inutile, però, stracciarsi le vesti, il jazz moderno ha coperto un periodo, quello, grosso modo, che va dagli anni ’40 agli anni ’70, che ha espresso tensioni, temi, problematiche individuali e sociali irripetibili e proprio il jazz, come musica improvvisata e immediata, con la non comune capacità di cogliere e tradurre all’istante quello che avviene dentro e intorno a noi in presa diretta, non poteva cristallizzarsi in schemi formali svincolati dal loro sostrato di vissuto emotivo.
Questo, fra gli stessi jazzisti, non tutti l’hanno capito, e soprattutto non lo capiscono oggi, ma uno su tutti l’ha fatto, coraggiosamente: non poteva che essere Miles Davis, autore e compartecipe di tutte le più significative svolte del jazz moderno, e lo ha fatto a modo suo, intuendo quello che cambiava nella società e nell’uomo e, quindi, rivoluzionando organici e sonorità, rinnegando gli “standard” classici dei decenni precedenti, cogliendo il meglio che veniva dal rock e dalla musica etnica, diventando una volta di più un caposcuola.
Così come caposcuola è stato, giusto sessant’anni fa, 1959, anno di quell’assoluto capolavoro che è stato ed è Kind of blue.
Dopo i decenni del “bop” e del “cool”, qualcosa di nuovo bolliva nella pentola magmatica e inesausta della creatività jazzistica. Pensate, in quello stesso anno si affacciava alla ribalta un iconoclasta come Ornette Coleman, con il suo sax alto di plastica e il suo disprezzo per accordi e modi; il pianoforte era stravolto dalla foga distruttiva di Cecil Taylor e si aggirava nei club e nelle sale da concerto quel misterioso e astrale coacervo di stridori infernali e armonie celestiali che era “l’Arkestra” di Sun Ra.
Ma il divino Miles non ne era toccato e non aveva bisogno di tutto questo clamore, in lui la suprema rivoluzione era il supremo equilibrio, la perfetta rispondenza degli elementi e degli accenti, la sublime integrazione di insieme e di solismo.
Già nell’organico Miles riuscì a riunire il meglio della scena jazzistica: un contrabbassista potente e pulsante come Paul Chambers, un batterista dinamico e discreto come Jimmy Cobb, Cannonbal Adderley al sax-alto con la sua componente blues e soul, e soprattutto John Coltrane, che rappresentava il futuro della musica nera, con i suoi “sheets of sound”, le lenzuola di suono.
Però, la personalità determinante per l’amalgama e la nuova poetica del complesso fu Bill Evans. Questo pianista, unico bianco del gruppo, impresse al “combo” un nuovo indirizzo introducendo la soluzione “modale” che permetteva “libertà dai cambi di accordo e dalle altre strutture che avevano limitato il jazz fino ad allora … di fatto, senza accordi che definissero la melodia, l’assolo stesso costituiva il brano, e chi improvvisava ne diventava il compositore. Il solista modale aveva il controllo completo del momento creativo.”
Bill Evans, inoltre, diede anche un’originale impronta emotiva, affinando l’introspezione e le sfumature impressionistiche dei 5 brani dell’LP e lo stesso Miles, in generale così scorbutico e avaro nei giudizi, disse di lui: “Quando Bill suonava il piano aveva quella specie di fuoco controllato che mi piaceva molto. Il modo con cui si avvicinava allo strumento, quelle note di cristallo, come acqua limpida che scroscia da una cascata trasparente …”.
Anche lo studio dove i sei incisero i brani tra il marzo e l’aprile 1959 era consono all’atmosfera e alle esigenze sonore del sestetto: si trattava di un ex chiesa ortodossa e i materiali impiegati nella sua costruzione non avevano niente di artificiale, favorendo così una sonorità rotonda e trasparente. So what è il brano simbolo di tutto l’album: nella sala d’incisione, dopo due tentativi andati a vuoto, ecco configurarsi il capolavoro. L’apertura è un preludio in cui s’intrecciano e sovrappongono piano e contrabbasso, come un sipario che si alza su un mistero sospeso. Poi, sempre il contrabbasso, anima pulsante, ci proietta in un tempo mitico … del ricordo? Di una felicità lontana? Come le reminiscenze infantili durante le visite alla fattoria del nonno di Miles che confesserà di aver cercato di ricreare “quello che provavo a sei anni mentre camminavo con mio cugino lungo quella strada buia dell’Arkansas …” O è solo uno stato di trance favorito dall’iterazione ossessiva del contrabbasso?
Il successivo assolo di Davis, considerato uno dei più intensi ed equilibrati di tutta la storia del jazz, spicca per la sua suprema capacità di coniugare, col minor numero di note e sempre nel registro medio, la semplicità con l’emozione, sfruttando un fraseggio quasi bisbigliato, con una gamma timbrica simile a quella della voce umana. Ma anche gli altri brani dell’LP sono perle da non perdere. Blue in green, basato su una struttura “minimalista” riesce, in poco più di cinque minuti, a creare un clima meditabondo, quasi un sogno a occhi aperti dove gli assoli si succedono in forma palindroma (tromba-piano-tenore-piano-tromba) creando una circolarità atemporale. In Flamenco Sketches, come è stato scritto da Ashley Kahn, “classicismo, impressionismo, esotismo si riflettono in un tema pantaculturale che abbraccia un’ampia gamma emotiva”. All Blues è una sorta di blues in forma di valzer, dove su un vamp, cioè la ripetizione di due soli accordi, i fiati improvvisano creando una dimensione di sonorità ipnotiche. Infine, con Freddie Freeloader, intitolato a uno stravagante barista jazzofilo, si ritorna sulla terra: a Bill Evans subentra Wynton Kelly, buono strumentista e, soprattutto, ottimo accompagnatore, lontanissimo, comunque, dal poter infondere quel tocco di evanescente, e pur misurato mistero, che emanava dalle magiche dita di Bill Evans. E, in fondo, dopo tanti voli nei meandri dell’inconscio e della memoria, poteva star bene anche il planare in un brano corposo, spumeggiante e ricco di ironia.
Alla sua uscita, Kind of blue non suscitò particolari clamori e divenne ben presto popolare, infatti, le sue sonorità ovattate potevano anche servire, superficialmente, come piacevole sottofondo musicale in locali e club borghesi. Anzi, molte colonne sonore adottarono l’ossessiva iterazione degli stessi accordi per creare un clima di inquietante sospensione e attesa.
Negli ambienti musicali, però, l’impatto si colse e si capì che, quasi senza accorgersene, il sestetto di Davis aveva metabolizzato quanto di meglio c’era stato prima nel jazz, anticipando, contemporaneamente il futuro. Intelligentemente Herbie Hancock, l’unico vero erede di Bill Evans, come statura musicale, nei complessi davisiani, disse: “Indicatemi un pezzo dove non se ne sentano gli echi. Io li avverto dappertutto. Persino il rock modale potrebbe discendere in parte da Kind of blue.
L’album, che nel ’97 diventò “disco di platino”, raggiungendo un milione di copie, è stato recentemente presentato in un’edizione “filologica”, che riporta anche tutte le prove e i frammenti preparatori, ed è ancora qui, incombente e inarrivabile, stupendo e inquietante. La sua bellezza disadorna e sfumata, frutto di un equilibrio tanto più magico quanto più spontaneo e nato da un’empatia scaturita nelle poche sedute di registrazione, ci continua a meravigliare e sedurre.