Davvero gli dèi sono fuggiti? Davvero possono abbandonare il mondo? Come mai l’epoca moderna ha accettato la tesi secondo cui gli dèi se ne possono andare? Certamente la loro assenza, se tale è, non può essere dovuta a noi, al fatto che abbiamo abbandonato i loro boschi sacri e i loro altari, smesso di osservare i loro rituali e sacrifici, dimenticato i loro misteri. Gli dèi non possono dipendere da ciò che facciamo o non facciamo. Se così fosse, come potrebbero rivendicare una autorità sovrumana nel cosmo? Se la loro assenza o presenza dipende dal nostro comportamento nei loro confronti, allora gli dèi del mito non sono altro che ciò che l’illuminismo secolare ha sostenuto e ribadito: finzioni della fantasia umana. Dunque la domanda si ripropone modificata: chi o che cosa trae vantaggio dal ritenere siano fuggiti o morti gli antichi dèi? Una cosa è certa. Storicamente e logicamente, l’assenza degli dèi consente al mondo di diventare res extensa, uno spazio matematico computabile in forze, alla deriva con i relitti di oggetti senza anima; l’anima, la mente, la coscienza, tutte concentrate dentro il cervello umano e la natura messa a disposizione della volontà umana. L’assenza degli dèi non è solo una convenienza secolare o una opportunità di sfruttamento industrialista ma è anche e soprattutto una convenienza del cristianesimo perché la loro assenza apre lo spazio al Gesù salvatore, consentendogli di dare una risposta redentiva agli eterni struggimenti dell’uomo.
Eppure, a me piace pensarla in accordo con l’iscrizione presente sull’architrave della casa di Jung, a Delfi, che recava scritto:
Chiamato o non chiamato, il dio sarà presente.
Mi piace, cioè, pensare che gli dèi vivano dentro di noi, siano rappresentazioni delle nostre parti litigiose come di quelle sognanti e protettive e che si agitino anche in quelli che comunemente chiamiamo disturbi, che spesso, guarda caso, guariamo con una pianta che reca una segnatura legata proprio a un Dio/pianeta. La Teoria delle Segnature planetarie parte dal presupposto secondo cui esiste un’analogia energetica e funzionale tra pianta e pianeta, che si esprime in archetipi che sono stati indagati nel corso dei secoli e che sono stati codificati da una folta schiera di studiosi, medici e botanici. La Dottrina delle Segnature individua l’intero universo come un sistema di somiglianze.
Fin dall’antichità a ogni pianta sono stati assegnati uno o più pianeti guida, da cui queste traggono alcune caratteristiche. In Spagiria vegetale, si chiama signatura rerum il tipo di forze cosmiche che determinano le forme della pianta. Rispettivamente, anche le parti del corpo sono tutte “governate” da una propria energia planetaria. Di conseguenza, parti del corpo o funzioni correlate a un pianeta interagiscono maggiormente con le piante che appartengono allo stesso tipo di energia.
La pianta si relaziona all’uomo nella misura in cui questi ha interiorizzato gli dèi nella patologia, facendoli vivere nei suoi sintomi.
Il rifugio degli dèi non è più l’altare e il fanum, la sede dell’oracolo o del culto misterico. Essi abitano l’interiorità della psiche, dove fanno sentire con forza la loro presenza di potenze sottese all’infermità dell’anima. Perché il rimosso ritorna nella forma inventiva del sintomo, gli dèi sono diventati malattie sia della psiche individuale come di quella collettiva.
Per trovare le figure degli antichi miti, oggi ci rivolgiamo al patologico anziché all’idealizzato, seguendo Jung anziché Winckelmann.
Il riconoscimento dell’intimo nesso esistente tra miti e sofferenza, dèi e malattie, è la più grande di tutte le conquiste della mente greca cui va il merito di aver perfezionato la tragedia. Una forma artistica che mostra direttamente come sia il mito a governare le vicende umane. Tutta la psicologia archetipica si muove in questa direzione: quella che rintraccia gli antichi miti nel comportamento e nei fenomeni che inconsapevolmente assumiamo essere la nostra realtà, cercando di riconnettere l’esperienza presente alla cultura storica.
Per riaccedere al Mito, vivificare gli dèi dentro di noi, tornare a guardare il mondo e a vederne il suo incanto parlando la sua stessa lingua, occorre risvegliare in noi la “voce orfica” cioè il linguaggio, gli inni e la ars poetica che possedeva il figlio di Calliope. Orfeo arriva a toccare il cuore del mondo naturale per mezzo della sua arte e attraverso essa la natura acquista la parola e diventa poesia. La poesia dello stormir di foglie, dei sussurri di un ruscello, di una falce di luce che si specchia nel mare. L’incanto di un terreno coltivato, di un albero pieno di frutti maturi o di un mattino di nebbia che si dissolve leggera col primo sole.
Orfeo e il suo mito sono la risposta estetica alle sofferenze del mondo, al suo stupro e al suo sfruttamento che riporta in vita i fenomeni del mondo. Si tratta di un vedere, un sentire e un parlare del mondo come qualcosa di vivo, infuso d’anima, pagano, e lo si reimpara in Natura, tornando ad accostare l’orecchio (e il cuore) al battito d’ali di una farfalla, al respiro del mare, ai sussurri del vento. Ma il mito ci parla anche di un atteggiamento alla vita che sviluppa Orfeo in conseguenza della perdita di Euridice e del suo infruttuoso viaggio nell’oltretomba per cercare di riportarla nel regno dei vivi. Questo atteggiamento ha a che fare con il sentimento di nostalgia (la Sehnsucht dei romantici) che Orfeo sviluppa sottoforma di una fedeltà all’immagine dell’amata – come Dante e Petrarca. Una nostalgia per ciò che non è presente, per ciò che è oltre, che non può essere afferrato, per una bellezza immaginata: ecco la fonte della malia poetica di Orfeo.
Orfeo torna tra gli uomini dopo il viaggio nell’oltretomba, ma cambiato. Non suonerà più la lira, non canterà più. Odia ormai tutte le donne e le tratta con disdegno. Non può sopportare più i tripudi rumorosi dei riti bacchici. Le Menadi, offese da questo manifesto suo disprezzo, un giorno nel delirio di un baccanale, gli si gettano addosso come cagne e lo fanno a brandelli. La sua testa e la sua lira vengono gettate in mare: la corrente marina le trasporterà sulle rive dell'isola di Lesbo, l'isola dei poeti.
Sotto il profilo della ricerca delle radici iniziatiche, possiamo evincere come Orfeo venga iniziato ai misteri solari. È attraverso la musica e il canto, il suono, che Orfeo ha "potere" sulla natura, e gli uomini, e non è forse attraverso il verbo, nelle sue modulazioni (ritmo), che la Tradizione di Occidente e di Oriente ci insegna che tutto è stato creato? Non è forse attraverso il suono dei nostri salmi, delle nostre preghiere, che trasformiamo il nostro corpo in una cassa di risonanza, capace di modificare la nostra psiche e renderla conforme all'Ideale Superiore a cui aspiriamo? Ma quale suono può ottenere tali mirabolanti prodigi, se non quello armonioso in accordo con le leggi divine?
Il mito ci narra come la lira, lo strumento che Apollo donò a Orfeo, sia stata inventata da Ermete, colui che è ponte fra divinità e uomini, utilizzando il guscio di tartaruga e nove corde. La lira è, quindi, rappresentativa dello strumento di conoscenza, dato all'uomo da coloro che lo hanno iniziato, ma è poi l'uomo stesso che deve essere in grado di compiere l'opera e apprendere il rudimento dell'arte e dello strumento necessario, fondendo entrambi al proprio Genio (ispirato dalle Muse). Se quanto sopra è attorno alle origini della Tradizione Solare, e l'iniziazione in generale di Orfeo, non possiamo che riscontrare delle similitudini nella sua discesa nel Tartaro, a miti come San Giorgio e il Drago. Euridice non rappresenta forse la ricerca dell'ideale di Amore superiore che spinge Orfeo ad affrontare la propria natura inferiore e tenebrosa, rappresentata dal Tartaro con le sue potenze infernali? Ed è attraverso l'arte del canto e del suono che riesce a dominarle, incatenarle, ma tale narrazione ci insegna anche a non ricercare la perfezione divina, dell’ineffabile e immutabile, nelle cose di questo mondo, che la incarnano ma non la trattengono: in quanto caduche e fatte a immagine. Orfeo deve sopportare l'intollerabile pienezza del desiderio, un desiderio che trabocca, che vuole prepotente soddisfazione, che vuole l'immagine reale di Euridice; Orfeo deve sopportare di limitarsi a immaginarla, l'amata Euridice.
Ma Orfeo non rispetta il patto, non dà tempo al tempo, si volta...
Orfeo perde così definitivamente le spoglie mortali di Euridice, ma mantiene nel cuore, l'Amore che ad essa la legava. Un amore che mai e poi mai sarà profanato dalle vicissitudini umane, e che rappresenta l'Ideale Superiore, che come Oro non può essere intaccato dalla furia degli elementi (Dionisio e le Baccanti), e che spinge il possessore a indicare anche ad altri tale via (la catena iniziatica: trasmissione degli strumenti di conoscenza). Tale ineluttabile stato di cose, si riverbera anche nella fine di Orfeo: fatto scempio da parte delle Baccanti. Baccanti che rappresentano gli agiti del nostro inconscio, la natura inferiore con le proprie pulsioni, compulsioni, desideri, istinti, e violenze, che ci lega a questo mondo, rendendoci concime per la terra stessa. Queste faranno scempio del corpo dell'iniziato, ma la sua anima sarà libera di fluttuare sulle onde, fino a giungere al mare (profonda similitudine con il mito egizio della barca solare).
Orfeo ci insegna come attraverso la preghiera, il culto di ciò che è luminoso (la conoscenza), la morte iniziatica (il rifiuto delle profferte delle Baccanti), sia possibile essere ammessi nel firmamento e brillare in eterno come astri di luce propria, e non di riflessa come tutte le cose transitorie di questo mondo. Un'ascesa costosa in quanto passa attraverso un rifiuto della vita facile, mentre implica una discesa nelle profondità del nostro animo, e un dominio sulle passioni, affinché si viva finalmente la vita, e non essere vissuti da essa.
Ed è così che quando Euridice muore morsa da un serpente, simbolo dell'elemento terra e delle forze primordiali che animano l'uomo, Orfeo si trova disperato perché si sente perso, si sente vuoto senza di lei e pertanto decide di scendere negli Inferi per riprendersela. La discesa negli Inferi come il passaggio dalla luce verso le tenebre, quindi l'immergersi nei meandri oscuri e anche distruttivi del proprio essere, ma anche l'affrontare la sofferenza per ricostruire un equilibrio spezzato e dunque la sperimentazione di una sorta di dualismo. Uniche armi di Orfeo sono musica e canto, capacità connesse comunque a uno stato di esistenza terreno. Pur scendendo negli Inferi, pur morendo a se stesso, una parte del suo io continua a vivere. Ottenuta la grazia da Ade sembra che Orfeo abbia finalmente raggiunto l'armonia interiore, la sua anima perduta è stata riconquistata, ma le condizioni del dio degli Inferi lo fanno cadere in errore. Ade gli chiede un atto di fede al di là delle sue capacità, essendo la sua mente colta dal dubbio e dall'impazienza poco prima di raggiungere il regno dei mortali. In questo caso la psiche, intesa sia come mente che come anima, non è abbastanza forte da reggere il confronto con lo spirito. Uno spirito che, tuttavia, è connesso all'anima; infatti, Euridice è costretta a tornare indietro, metafora della doppia natura dell'anima e del tentativo umano, disperato quanto essenziale per vivere, di trovare un punto di equilibrio e una connessione. Alla fine Orfeo trova la pace solo sublimando il dolore in amore, nella fedeltà al ricordo di Euridice. In questo la musica e il canto avranno un ruolo fondamentale, metafora di come l'arte sia un modo per lenire la sofferenza dell'anima prigioniera che cerca la sua parte perduta.
L'amore di Orfeo finisce con il riversarsi nell'universo, come simboleggia la luce della costellazione di cui farà parte il cantore. Così, per dirla in termini cabalistici, le acque superiori sono riunite a quelle inferiori.