In una bancarella, un po’ di anni fa, avevo trovato Alla scoperta del Tessili, un libro del francese Henri Lhote (1903-1991); le sue immagini, in modo particolare, mi hanno fatto nascere il desiderio di approfondire la conoscenza del Sahara e dei Tuareg che avevo sfiorato in un precedente viaggio in Marocco, ma soprattutto di conoscere il più straordinario “libro murale” che sono le pitture rupestri del Tassili.
Il Tassili n’Ajjer, che significa “Altopiano dei fiumi dei Tuareg Kel Ajjer”, solcato da uadi, alvei di fiumi oggi asciutti, è un massiccio montuoso del Sahara. Situato nel sud est dell'Algeria presso il confine con la Libia (Ghat), si estende per circa 500 chilometri in direzione nord-ovest sud-est ed è uno dei maggiori rilievi del Sahara centrale, emergente dalle sabbie che lo circondano su tutti i lati.
Un anno dopo ho avuto baraka e ho realizzato il mio sogno: sono partita per l’Algeria con Sergio Scarpa fondatore, con degli amici, manco a dirlo del Kel 12 e profondo conoscitore del deserto.
Ad Algeri ho potuto visitare la sua casbah, il quartiere più antico che domina il mare dalle alture delle colline su cui la città è stata costruita - nota anche per La battaglia di Algeri, il film del 1966 diretto da Gillo Pontecorvo – perdermi nei vicoli affollati e stretti, con le botteghe artigiane e mangiare del pesce freschissimo, arrostito sui carboni ardenti alla Pescheria, meta obbligatoria allora dei viaggiatori che passavano per Algeri.
Il giorno dopo, a bordo di un Fokker traballante per i vuoti d’aria, siamo partiti per Djanet. Dopo 4 ore di volo, al momento dell’atterraggio, dal finestrino sono apparsi i pinnacoli di roccia del Tassili simili ai castelli di sabbia che facevo da bambina nella spiaggia versiliese e una distesa arida interrotta da un serpentone di più 20.000 palme: l'oasi di Djanet, una delle poche città stanziali dei Tuareg.
Atterrata all’aeroporto, si fa per dire dato che allora era un semplice hangar infuocato, sono stata assalita da un nugolo di bambini urlanti che volevano prendermi la valigia per guadagnare qualche dinaro e accompagnarmi all’Hotel de Zeribas.
Djanet, ubicata con le sue case di fango e pietra e le zeribe (capanne squadrate), sotto le pareti dell’altopiano del Tassili e le colline di roccia granitica, ha tre diversi insediamenti umani: El Mihan, un antico ksar arabo arroccato sulla collina, Azeluaz, il villaggio tuareg situato al fondo della valle e oltre il palmeto, Adjahil, il quartiere dove vivevano gli schiavi neri dei Tuareg. È stata un importante crocevia delle carovaniere che collegavano le città arabe del nord del continente all'Africa Nera e avamposto della Legione Straniera. La sua popolazione è pertanto eterogenea, caratteristica riscontrabile anche nell’antichità come dimostrano le pitture rupestri.
Nell’attesa di affrontare il Tassili girando per l’oasi, di giorno ho catturato con la macchina fotografica i bambini dai volti scolpiti dal simun, il vento del deserto e levigati dalla sabbia e alla sera ammirato il manto di stelle che, in tutto il suo splendore, restituiva allo sguardo quella brillantezza persa nelle città moderne troppo grandi, troppo urbanizzate, troppo luminose.
Al tramonto, scivolato sul palmeto, mi sono avvicinata ai Tuareg. Sono rimasta affascinata dalle Targue (donne Tuareg) che, altere, vestite d’azzurro con il velo svolazzante color indaco trattenuto da un chiavistello d’argento, raccoglievano con grazia i datteri circondate da un nugolo di bambini dagli occhi di carbone e volentieri ho partecipato all’immancabile rito del tè, su invito di una ragazza uscita dalla sua zeriba. Il tè nel deserto si mesce tre volte: “il primo amaro come la morte, il secondo forte come la vita, il terzo dolce come l'amore" (Antico detto Tuareg).
Ho appreso che i Tuareg, signori del deserto di origine berbera, tradizionalmente nomadi, purché islamizzati hanno conservato i loro costumi, molto diversi dagli altri musulmani: le donne tengono il volto scoperto, gli uomini invece si coprono la faccia con lo cheche (bianco, nero o verde), turbante che avvolge il capo lasciando liberi solo gli occhi, utilissimo per sopportare le tempeste di sabbia. Nel passato, ora nelle festività, portano il taghelmust, un turbante impregnato d'indaco che colora la loro pelle, e per questo chiamati uomini blu. Alcuni, rimasti legati alla propria origine nomade, si sono convertiti alla pastorizia e vivono con piccoli branchi di capre e dromedari in movimento concentrico e perpetuo, sempre alla ricerca di pascoli in una delle regioni più aride del pianeta. Altri, dato che le carovane di un tempo sono quasi sparite lasciando posto a veicoli, si sono convertiti da cammellieri in guide e autisti e hanno fatto, delle attività legate al poco turismo, il loro sostentamento. Ricordo, a tale proposito, il sarto che ci ha fatto, su misura in poche ore, i sarruel, gli ampi pantaloni a sbuffo da cammelliere e la gandura, il camicione ricamato e aperto sui fianchi.
Trascorsi due giorni a Djanet, utili per ambientarsi e acclimatarsi, ottenute le autorizzazioni a fotografare, da Tafalelet abbiamo iniziato l'ascesa del Tassili a piedi, unica possibilità per salire e girarlo. Dopo circa cinque ore sono apparse le torri d’arenaria di Tamrit, dove ci ha accolto un campo tendato e per cinque giorni con la guida, cinque asinelli, due asinai e il cuoco, tutti Tuareg, abbiamo affrontato le sue asperità e visitato i siti dell’altipiano, anche con qualche pericolo: scorpioni e vipere cornute.
Nell’esplorare le pitture rupestri di Sefar, importante stazione, ci ha accompagnato Sarmi Machar (che dopo parecchi anni ci siamo ritrovati su Facebook, incredibile!), nipote di Machar Djébrine Ag Mohamed, la famosa guida di Henri Lhote che verso la metà degli anni Cinquanta studiò e catalogò, e fece conoscere al mondo, attraverso i disegni di una squadra di pittori e fotografi, una grandissima quantità di graffiti e pitture rupestri, segnalati, già dagli anni Trenta, dallo stesso Djébrine.
Del Tassili, diventato Parco Nazionale e Patrimonio dell'Umanità per la sua arte neolitica e primitiva, mi hanno sorpreso i panorami, l'alternarsi del colore del paesaggio, le selve di pinnacoli, i torrioni di roccia, gli archi e i ponti naturali, i labirinti di pietra, i canyon, le guelte, i cipressi millenari testimonianze di un clima ben diverso dall’attuale, quando più di diecimila anni or sono il Sahara era verde. Ma quello che mi ha affascinato sono state le pitture che adornano le cavità e i ripari. Sono talmente stupende da fare del Tassili “la Cappella Sistina” del deserto.
Le pitture rupestri di stili diversi, composte da strati sovrapposti corrispondenti a differenti epoche culturali, realizzate con ocre di varia tonalità e fissate da albume d’uovo o caseina, raffigurano animali ormai scomparsi nel Sahara, arcieri la cui muscolatura sembra uno studio di anatomia, scene di caccia e di sesso, una popolazione di pastori di pelle nera insieme a un'altra di colorito chiaro, misteriosi uomini dalla testa rotonda, dei dalla testa d'uccello come quelli egizi, carri da caccia e da battaglia dei mitici Garamanti, predecessori dei Tuareg. Non sono altro che la rappresentazione dei modelli di vita, che si sono susseguiti nel Sahara nei millenni sino al cambiamento climatico.
Le incisioni e le pitture delle varie culture che si sono avvicendate nel corso dei millenni, in difetto di una cronologia certa, sono state classificate riferendole agli animali più rappresentativi dei singoli periodi - comprendenti molti stadi per particolari tecnici o decorativi - che, nel tempo per ricerche più accurate, hanno subito variazioni.
Secondo Lothe le pitture del Sahara sembrano distinte in quattro grandi periodi.
Quello dei cacciatori “bubalico” (inizio del neolitico?) è caratterizzato da grandi figure incise di animali di grossa taglia, tra cui soprattutto il Bubalus antiquus, una specie animale estinta di bufalo con grandi corna e dagli uomini dalle teste rotonde. Nel successivo periodo dei pastori “bovidiano” (neolitico) appaiono le grandi mandrie. Il terzo periodo, “garamantico” o del “cavallino” (protostorico), è rappresentato da carri e da uomini armati in groppa al cavallo. Sino all'ultimo periodo cosiddetto "cammellino” che risale molto probabilmente all’inizio della nostra era è testimonianza del processo di desertificazione che ha trasformato le verdi praterie in distese di sabbia.
La pittura che mi ha impressionato di più è il Gran “dio” di Sefar. Di grandezza soprannaturale, circondato da piccole figure umane - secondo Lothe adoranti “dio” - è la più grande pittura rupestre della preistoria, testimonianza di una proto-religione. Alcuni, con molta fantasia, l’hanno attribuito, come le altre figure umane dalle teste rotonde, allo sbarco di ipotetici “marziani.”
Mi hanno colpito le scene di vita famigliare intorno alle capanne, i guerrieri armati di arco e lance, le amazzoni che con realismo e vitalità ci rappresentano ritratti e usi di antiche civiltà in modo superiore agli oggetti che possiamo reperire nelle stanze di un museo.
Nella stazione di Tamrit mi ha stupito, un’altra meraviglia del Tassili: un cipresso fossile che si dice abbia tremila anni d’età che fa bella mostra in un canyon insieme a un’altra settantina di superstiti che hanno deciso di resistere, grazie alle gigantesche radici che si infiltrano in profondità fra le rocce alla ricerca dell'umidità e dell'acqua da falda, mentre i millenni passavano e tutto, intorno, si trasformava in un’arida pietraia.
L’ultimo giorno della nostra spedizione, caduta la notte, rannicchiata attorno al fuoco sul quale il cuoco preparava la cena e il tè nell’immancabile teiera blu, ascoltavo i racconti della guida e pensavo, io qui devo ritornare.
E così è stato. Ho avuto di nuovo baraka e pochi mesi dopo sono ritornata a Djanet e, sempre con il Kel 12 e Sarmi, da Akba Aroun sono salita sul Tassili per visitare, in due giorni, le stazioni di Jabbaren di e Aouanrhet.
Jabbaren, affascinante città preistorica del Sahara, significa “i giganti”, in effetti certe figure sono gigantesche. Le più celebri sono “il gran dio marziano”, “Antinea” e le giovani “ragazze Peul”, che in circa 600 metri quadri fanno compagnia ad altre cinquemila fantastiche pitture, di stili diversi, rappresentative di tutti i periodi.
Come a Séfar anche a Jabbaren, alcune figure sembrano indossare un casco simile a quello dei palombari, tanto che Henri Lhote, battezzò la più grande "il gran dio marziano" o "l'astronauta". Antinea (la dea libica del romanzo di Pierre Benoit), così denominata la figura femminile alta sei metri, con i tratti del volto mediterranei, mi è apparsa in tutta la sua bellezza. Una sorpresa è stata una pittura con quattro piccole donne dalla testa di uccello, simili a quelle che sono rappresentate nei monumenti egizi.
Lasciata Jabbaren ci siamo diretti, con una certa fatica per l’asperità del terreno, a Aouanrhet, denominata da Lhote, per le caratteristiche delle sue pitture, “santuario” e dove si trova la “Dea dalle corna” successivamente denominata “Dama bianca”, per analogia artistica alla pittura rupestre situata in Namibia, sui monti Brandberg. La Dama bianca dai contorni definiti, colori vivaci ed elegante nell’atto di correre, è sicuramente è la pittura più completa e più bella tra quelle che ho visto.
La lettura, anche se per pochi giorni, del “libro murale” del Tassili n’Ajjer mi ha confermato quanto ha scritto nel 1958 Henry Lothe: “In effetti quello che abbiamo visto nel dedalo di rocce del Tassili supera ogni immaginazione”.