Piena estate 1969, i giorni bollenti tra fine luglio e inizio agosto. In Italia il 45 giri più venduto è Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto. Dietro, due giganti della musica nazionale come Celentano e Mina; Orietta Berti è solo settima. Per le strade di Monsummano Terme, cittadina toscana in provincia di Pistoia che allora era un polo produttivo calzaturiero di livello europeo, si aggira un ragazzone inglese, capelli lunghi biondi, un occhio chiarissimo e l’altro con la pupilla dilatata quasi fino a coprire l’iride. Non lo conosce nessuno: si chiama David Jones, ma quando canta usa il cognome Bowie, e proprio in questo periodo sta registrando Space Oddity, il suo secondo album, che uscirà in autunno. Il 5 agosto tornerà in Inghilterra per la morte del padre, ma il 2 si esibisce nella finalissima di una specie di Cantagiro europeo, che si tiene appunto a Monsummano. Si chiama Festival internazionale del disco, e lo presenta Daniele Piombi. David strappa valanghe di applausi, e parecchi cuori alle ragazzine del posto, visto che rimane in zona per i tre giorni della gara, albergo pagato dal Calzaturificio Fiorella, il suo sponsor. Eppure, non vince: arriva secondo, dietro alla spagnola Cristina, anche se si aggiudica un premio come miglior emergente. E in effetti in quel senso la giuria ci aveva visto giusto.
Sono passati cinquant’anni, mezzo secolo, David Bowie ha attraversato la seconda parte del Novecento diventandone uno degli artisti più importanti, non solo in ambito strettamente musicale, dove ha certamente avuto pochi rivali. A Monsummano il ricordo di quella sera, la prima esibizione in assoluto per Bowie in Italia, non si è mai spento, tanto che per la ricorrenza l’amministrazione comunale gli ha intitolato un parco cittadino e ha organizzato un concerto per martedì 21 maggio: “1969: L’uomo che cadde su Monsummano”. Un progetto intelligente, non una roba buttata lì alla meglio: mettere il canzoniere di questo colosso nelle mani di un quintetto jazz per rileggerlo una chiave rispettosa ma allo stesso tempo alternativa. A guidare l’operazione c’è uno dei migliori trombettisti (ma direi musicisti) in circolazione, Paolo Fresu, che compone la scaletta delle canzoni insieme a Petra Magoni, chiamata a cantarle. A completare la band c’è un gigantesco talento emergente (ma direi ormai emerso) come Gianluca Petrella (trombone ed elettronica), una sezione ritmica formata da Christian Meyer (batteria) e Francesco Ponticelli (basso e contrabbasso), e la chitarra di Francesco Diodati.
Ne viene fuori, come si poteva sperare, un evento memorabile, che pur avendo riscosso un successo di pubblico che certamente fa felici gli organizzatori, sembra perfino sacrificato dentro i confini di una singola serata, tanto che c’è da auspicarsi qualche replica, e magari anche un disco che lo porti nelle case di chi, per varie ragioni, non era nella bella piazza Giusti martedì sera. La scelta fatta da Fresu, che lo spiega al microfono all’inizio del concerto, è quella di accostarsi alla musica di Bowie partendo prima di tutto dal rispetto. La scomposizione delle tessere che formano le canzoni, scontata in una rilettura a opera di jazzisti, è stata fatta, ma con cautela, senza stravolgere le idee che stanno alla base dei brani. In alcuni casi il quintetto si lascia trasportare in territori più squisitamente jazzistici, in altri momenti si mette al servizio dell’autore per non rischiare di sovrastarlo. Petra Magoni, sul palco nonostante il raffreddore, qua e là calca la mano nelle sottolineature o alla ricerca del virtuosismo, altre volte fa un passo indietro, lasciando che sia la bellezza delle note a emozionare gli spettatori, come in Life on Mars? eseguita in versione acustica con un gruppo ridotto, o in Where Are We Now?, che a qualche anno dall’uscita si può considerare una perla tra le migliori del musicista di Brixton. I momenti più toccanti probabilmente sono la lunga e strumentale Warsawa, il capolavoro contenuto dentro l’album capolavoro Low, e la conclusiva Blackstar, che arriva prima del bis affidato a Heroes. A volte però le belle sorprese vengono da dove non forse te lo aspetteresti e, infatti, tra le interpretazioni più interessanti ci sono i due pezzi pescati da Let’s Dance, la title-track e Cat People, che apre la serata. Tra le altre passano Space Oddity, Starman, Rebel Rebel e naturalmente il pezzo che Bowie portò a quel concorso, When I Live My Dream, che poteva bastare, anche in quel 1969, per capire che quel ragazzo, praticamente sconosciuto in Italia, avrebbe avuto un futuro nella musica pop. Certo, immaginarsi che sarebbe diventato una pietra miliare della cultura del Novecento non era altrettanto scontato. Cinquant’anni dopo sappiamo che è andata proprio così.