È un po’ di tempo che non torno su questo tema che mi è caro e sul quale continuo da anni a riflettere confidando di vedere un cambiamento. L’agricoltura chiamata anche settore primario è in realtà un argomento diventato scomodo e poco affrontato anche nella comunicazione dei media. Andiamo per ordine. Perché direte è un argomento scomodo? È presto detto: ci sono in gioco molti interessi economici, le specie prodotte per sfamare l’umanità e le aziende sementiere, le industrie produttrici di prodotti per concimare i terreni, per trattare le malattie delle piante coltivate, la grande distribuzione dei prodotti, le industrie di trasformazione alimentare, la meccanizzazione agricola, i trasporti internazionali e i grandi grossisti dell’industria alimentare. La macchina industriale è partita circa 70 anni fa quando, dopo la Seconda guerra mondiale, in un crescendo rapidissimo il mondo scientifico intorno al settore agricolo e l’industria dei prodotti di cui accennavo sopra si accordavano per sostenere la famosa “rivoluzione verde”, quella che sarebbe stata responsabile delle crisi di sovrapproduzione, le famose eccedenze alimentari, dell’inquinamento delle falde acquifere, dell’erosione dei suoli e dell’inaridimento dei terreni e della perdita della fertilità.
Oggi un’inversione di rotta è impellente e necessaria sebbene difficile, proprio a causa di quei famosi interessi economici che continuano a sussistere in troppi ambiti produttivi che non intendono modificare le produzioni, i sistemi di distribuzione e la qualità dei loro prodotti a scapito di quantità enormi ormai di poco valore. Questo scenario apocalittico del mondo dell’alimentare che vede società opulente affette da benessere (l’aumento di obesità nel mondo occidentale è un problema ormai annoso) e malate di patologie legate all’uso eccessivo di zuccheri (come il diabete), ma allo stesso tempo milioni di persone affette da malnutrizione destinate a morte prematura, non può più essere giustificato da nessuna posizione, né politica né scientifica.
Negli anni Settanta del Novecento cominciavano a essere pubblicati dei piccoli volumi che aprivano la strada a una corrente culturale che si oppose al pensiero dominante e accademico e che perseverava nelle Università a sostenere un modello che si sarebbe rivelato, dopo pochi anni, perdente per la salute dell’umanità e dell’ambiente, senza accollarsene le gravi responsabilità morali ed economiche. Si chiamavano I Quaderni d’Ontignano della Libreria Editrice Fiorentina fondata da un illuminato intellettuale: Giannozzo Pucci. Ho ritrovato in una vecchia libreria del libro usato un piccolo volume dal titolo I miti dell’agricoltura industriale. L’industrializzazione dell’agricoltura come causa della fame del mondo, (Firenze, 1977). L’incipit di questo testo, a firma di Pucci, ci introduce già al registro del volume che anticipava una catastrofe annunciata. “Già da tempo è iniziato un certo calo di credibilità nell’agricoltura industrializzata. I diffusi fenomeni di spreco, inquinamento, il progressivo aumento della dimensione economica delle aziende, le proteste contadine per i prezzi non remunerativi di vari prodotti (frutta in particolare) hanno posto qualche dubbio sui reali obiettivi dell’attuale tipo di progresso agricolo”.
Il lavoro è una traduzione di un saggio di Frances Moore Lappè e Joseph Collins che riassume “i risultati di anni di ricerche in grado di dimostrare scientificamente l’inconsistenza dei dogmi, fin qui (all’epoca) considerati scontati, su cui si fonda l’agricoltura, dalle aule di scuola ai campi”! Queste le parole semplici e chiarissime che consentono di smascherare un sistema che ha ad arte contribuito a dissestare economicamente e strutturalmente (con la degradazione del territorio) il settore a livello globale nell’occidente e nei territori di “conquista” dei paesi ricchi di biodiversità: Sudamerica, Africa ed Estremo Oriente. Anch’essi da convertire al modello industriale così inappropriato che ripaga pochissimi a danno di molti. La stessa casa editrice, recupero dagli scaffali un altro piccolo volume, pubblica nel 2009 L’agricoltura naturale nell’800. Esperimenti di Rivoluzione del filo di paglia in Italia un secolo prima di Fukuoka, di Pietro Stancovich, un autore quasi dimenticato e disdegnato anche all’epoca dagli accademici benché lui stesso appartenesse a quella cerchia.
L’istriano Pietro Stancovich (1771-1852) era sacerdote e scrittore, polemista, possessore di terreni e proprietà e curioso ricercatore, inventore di macchine agricole, grande bibliofilo e collezionista di antichità istriane. Sebbene si laureò in teologia a Padova, il suo interesse si estese alle scienze naturali: chimica, astronomia, botanica, fisica, matematica. A Padova pubblica nel 1842 Il Formento seminato senza aratura, zappatura, vangatura, erpicatura e senza letame animale, Minerva Editrice, un volumetto di sole 24 pagine in cui riporta diversi esperimenti fatti a Brest in Francia nell’anno 1840-1841, e poi a Barbana in Istria l’anno successivo, su terreni seminati su sodo, non arati, e poi coperti di sola paglia. Apparteneva a diverse Accademie tra cui quella del Cimento e in varie occasioni ribadì l’importanza di praticare un’agricoltura senza l’ausilio di lavorazioni e di apporto di letame, come riportarono anche gli Atti della IV Riunione degli Scienziati Italiani tenutasi a Padova nel 1842 (Pubblicati Coi Tipi del Seminario nel 1843). Ebbene lui stesso riporta con onestà come quanti, con cui parlò di tali buoni risultati ancor migliori nella produzione che nei normali metodi di coltivazione, “naturalisti, agronomi dotti, coltivatori volgari e possidenti, fu trattata detta esposizione di buffonata, d’impostura e di ciarlanatanaria.” Portò anche a Padova la paglia di grano prodotta per dimostrare al Congresso tali risultati per “convincimento della riuscita” e si rallegrò che anche a Mantova e alle Terme della Battaglia (Padova) e nella proprietà del Conte Pisani a Boara (Rovigo) di esperimenti analoghi confermavano le sue teorie.
Ebbene tutto questo per dire che dopo 150 anni molte cose non sono cambiate, purtroppo tutto il nuovo movimento di inversione di rotta che spinge verso un’agricoltura più naturale, radicata sulle tradizioni ottocentesche, rispettosa dei ritmi stagionali, delle regole della tradizione contadina (cicli lunari, uso dei cumuli di scarti organici, uso della paglia, ecc.) pur essendo avvalorata da studi approfonditi che hanno preso nuove terminologie come agricoltura rigenerativa, organica, sinergica e biodinamica, da non confondere tra loro ma per indicarvi nuovi indirizzi necessari al mantenimento del nostro patrimonio agricolo, riceve una dura avversione della buona parte del mondo accademico e scientifico.
Uno dei tanti esempi interessanti e da indagare a fondo sulle motivazioni è quello della senatrice, biologa nota per gli studi sulle cellule staminali, Elena Cattaneo – davvero emblematico per le posizioni rigide e inspiegabili delle accademie scientifiche – che con livore si scaglia contro un progetto di legge a favore dell’agricoltura biologica, quando quella convenzionale e che inquina è stata sostenuta da oltre 30 anni dalla politica dei contributi. Per chi non è al corrente delle regole che riguardano il metodo biologico, seguito volontariamente dagli agricoltori, vi farò solo un esempio di come sia ancora paradossalmente forte la lobby dei produttori dei concimi chimici, dei diserbanti e fitofarmaci e delle produzioni convenzionali: il produttore biologico deve mantenersi a una giusta distanza dai confini (almeno 5 metri) se ha l’azienda limitrofa a un produttore convenzionale e non il contrario. Chi inquina le falde acquifere, diserba i terreni, fa piazza pulita della microfauna utile e meno utile (a loro parere), viene tutelato rispetto a coloro che tentano la strada della riduzione della meccanizzazione, del risparmio energetico, del mantenimento delle siepi, dell’uso dei semi locali.
Questa acredine, questa aggressione sui media verso un tentativo minimo di arginare un processo di gravissima perdita in ambito ambientale – pensiamo solamente alla dannosità dei trattamenti riscontrati nelle regioni dove si continua a coltivare la vite in modo intensivo – diventa sospetta quando a parlare sono proprio studiosi e scienziati molto popolari e all’apice del successo scientifico e, a pensar bene, forse al servizio delle più potenti aziende farmaceutiche che con l’agricoltura hanno molto a che vedere.