Con la fine dell’impero austro-ungarico, al termine della Grande Guerra, nacque il Regno di Serbi, Croati e Sloveni che, per accordi segreti con Francia e Gran Bretagna, si affrettarono a occupare la Dalmazia che sarebbe stata italiana, arrivando anche allo scontro con i regi Marina ed Esercito che già ne avevano preso il controllo, per ottemperare alle clausole dei trattati.
In seno alla conferenza di Parigi, i rappresentanti italiani Sidney Sonnino e Vittorio Emanuele Orlando non seppero difendere i diritti italiani, siglati dal Patto di Londra del 26 aprile 1915, giungendo a lasciare il tavolo delle trattative (19 aprile 1919) invece di opporsi alle ingerenze soprattutto statunitensi.
Italia che era arrivata a concordare l’ingresso in guerra a fianco della Triplice Intesa proprio per garantirsi egemonia e controllo rispetto all’Adriatico orientale, quando altrimenti avrebbe potuto accettare la proposta della Triplice Alleanza e rimanere neutrale, ottenendo in cambio le stesse terre che stava per avere ora, dopo anni di sacrifici bellici.
Sarà il poeta Gabriele D’Annunzio a sintetizzare il risultato con la locuzione “vittoria mutilata”: l’Italia aveva vinto sì, a Vittorio Veneto, piegando l’esercito asburgico, ma era una vittoria che le aveva comportato la mancanza di un pezzo promesso, mutilata come tanti e tanti soldati italiani al ritorno dal fronte.
Attorno al Vate si riunirono nazionalisti, reduci, interventisti, irredentisti e buona parte dell’opinione pubblica italiana. Contrari all’annessione della Dalmazia, tuttavia, erano anche i militari italiani, tra i quali Armando Diaz, capo di Stato Maggiore, ritenendo di difficile difesa un territorio così esterno in caso di guerra. Guerra che sarebbe stata evitata, secondo il presidente americano Wilson, solo se a conclusione della conferenza parigina non ci fossero stati vincitori reali, ma tutti avessero perso qualcosa, a monito di non ripetere lo stesso errore.
In realtà, le scelte strategiche di Parigi non si rivelarono affatto congegnali sotto molto punti di vista. Vennero poste sul tavolo anche le minacce bolsceviche: l’Italia avrebbe potuto aderire al partito della rivoluzione senza l’ottenimento di quanto promesso in partenza, perché scontenta e in condizioni disastrose, sia socialmente che economicamente, uscita stremata dal conflitto.
Ogni esponente di governo al tavolo delle trattative si preoccupava della propria opinione pubblica, ma di certo quella italiana non venne tenuta nella giusta considerazione, essendo Paese vincitore della guerra, così come l’Italia non venne ben rappresentata, lasciando in tutto campo libero agli altri.
La sorte di città italiane come Fiume e Zara preoccupava tutto il Paese, ma si arrivò comunque alla firma del Trattato di Saint-Germain, dato che gli alleati lasciarono che italiani e serbo-croato-sloveni definissero autonomamente i propri confini.
Il 10 settembre 1919, per l’Italia firmò il capo del governo Francesco Saverio Nitti e immediatamente scattò la reazione capeggiata da D’Annunzio che, il 12 settembre, occupò Fiume perché venisse annessa al Belpaese. Il principio di nazionalità non rispettava, secondo gli italiani, l’italianità di Fiume stessa.
Gli albanesi, intanto, volevano sganciarsi dal protettorato italiano, mentre il Montenegro venne assegnato al Regno dei Serbi, Croati, Sloveni. Il neonato movimento politico fondato da Mussolini trovò terreno fertile per accusare i governi italiani di inefficienza e scarsa decisione, usando il problema politico della ripartizione territoriale a fini propagandistici.