“Non è che ho fatto un minestrone?”. In questa domanda c’è Romeo Conte. Intanto, va detto che il minestrone è un piatto squisito e salutare. Pure molto versatile: si mangia da solo, con il riso, con la pastina, con i crostini di pane fritti. Magari qualcuno ci mette il farro.
C’è Romeo Conte nell’autoironia e nello sgomento dal timbro meridionale di chi teme di aver mostrato troppo e detto troppo senza aver davvero offerto all’interlocutore il proprio essere, l’unico al quale tiene davvero al di là dell’istrionismo. Il Romeo è eclettico, ma non a scapito della profondità.
Siccome nello studio pratese del regista salentino sono appese fotografie di quasi tutti i famosi e questi quasi tutti lo prendono sottobraccio, gli sorridono, gli posano una mano sulla spalla, Conte si lascia trasportare dalle memorie e dall’entusiasmo. Sophia Loren, Francesco Rosi, Lucia Bosè, nella versione chioma turchese, Mario Monicelli, Pupi Avati, Ben Gazzara, Catherine Deneuve, Emilio Pucci, Stefano Ricci, Romeo Gigli, Elio Fiorucci, Ennio Fantastichini, Abel Ferrara e moltissimi altri sulle pareti, intorno alla sua scrivania, non sono ingredienti di un minestrone, ma raccontano la passione di Conte per il cinema, la sua competenza nella moda, l’onnipresenza della musica, sempre scelta ad arte.
Non è un minestrone la sua biografia: nato sotto il segno dei gemelli, ascendente cancro, a San Vito dei Normanni, nell’Alto Salento, è stato cuoco (per rimanere in tema di fornelli), agente pubblicitario, poliziotto. “Ho anche arrestato qualcuno” specifica, ad accentuare la singolarità del suo passato. Tanti mestieri non per disperdersi, ma per trovare la strada che l’ha condotto ai defilé e al set dalla casa natia di contadini delle Puglie. Per capirci: ha avuto la valigia di cartone, Romeo Conte.
“Poi ho viaggiato anche senza valigia”. Una libertà: non è passato ai bauli Vuitton, stile star-system.
Al principio?
Sono primo di sei fratelli. L’educazione che ho avuto è stata fondamentale perché sono cresciuto nell’era del dovere. Chiamavo i nonni ‘signoria’, ero l’ultimo a essere servito a tavola. E il tempismo della saggezza degli avi: bisogna arare domattina perché dopodomani piove.
L’emigrazione al Nord?
Non ho mai subito la violenza di essere del Sud, nemmeno in Veneto quando c’era il divieto di affittare ai meridionali. Sempre onore alla mia persona e a quello che facevo.
La folgorazione?
Ho assistito alla prima sfilata di moda nella Sala Bianca di Palazzo Pitti mentre ero poliziotto a Firenze. Negli anni Ottanta l’incontro con Emilio Pucci è stato basilare: mi ha indicato questo mondo, mi ha insegnato il rigore del lavoro. Mi voleva molto bene, una volta mi prestò otto abiti della sua collezione privata per una mostra al Metropolitan di New York.
Gli altri mentori?
Per la moda Romeo Gigli, Franco Tancredi, Elio Fiorucci. Per il cinema Mario Monicelli, Francesco Rosi. Per il teatro Domenico Magiotti. Sono persone che hanno contato moltissimo. Poi ci sono quelle che sanno valorizzare la mia creatività: lo stilista Stefano Ricci su tutti. Nel 1983 sono andato a una sua sfilata, per ogni ospite c’era una sedia-regista con la scritta Stefano Ricci da portare via. Nel 1998 l’ho conosciuto di persona.
Con lui sfilate memorabili
Quella del 2011 al Cremlino fu dichiarata “la sfilata dell’anno”; nel 2012 agli Uffizi, una lunghissima passerella, mai vista, fra le statue, e io a prendere le misure affinché non restasse mai vuota e la distanza fra gli indossatori fosse sempre la stessa. Nel 2017 in Sala Bianca, con quindicimila rose bianche, rigorosamente vere.
Eventi dispendiosi, faraonici…
I soldi servono, garantiscono un bel cast, la sicurezza, ma tutto deve partire da una buona idea. Una sfilata è uno spettacolo, non c’è differenza con gli altri spettacoli: ci sono regole precise e ci vogliono le idee, certo da confrontare con il budget. Il problema è quando le regole si scontrano con l’ignoto. L’ignoto può essere la taglia 36 delle mannequin di oggi. Quando ho cominciato, portavano la 42. Il problema è la mancanza di idee: adesso le sfilate sono omologate. A me piace rafforzare una visione che non è ancora definita.
La famiglia?
Importantissima. Ho tre figli e Valentino, il mediano, che ha 31 anni, lavora con me, non nella moda, ma nel cinema. È un bravo regista, dice di non esserlo. Ha la sua visione. Quando hai un figlio innamorato di quello che fai, sei invogliato a fare cose nuove, straordinarie. Ho ancora tanto da dare.
Il cinema?
Fare un film non è un’impresa facile. Dovrei girarne uno nel 2020 che, se tutto va bene, uscirà nell’inverno 2020-21. Da pochi giorni si è concluso il Prato Film Festival che dirigo, poi ne faccio un altro nel Salento, a quello di San Marino abbiamo premiato la Loren. Il mio cortometraggio Fuecu e Ciraci è tra i selezionati per i Nastri d’Argento il che è miracoloso.
Ricordo che Magiotti mi disse: “Quando entrerai su un palcoscenico di un teatro, al buio, con l’odore di muffa e polvere e sentirai forti sensazioni diventerai un regista”. E Primo, il primo macchinista della Pergola mi dette il camerino della Duse…
Un uomo speciale?
Ben Gazzara. Lo incontrai, con Anthony Quinn e rispettive mogli, a una cena dopo la sfilata al Metropolitan Museum per i 500 anni dalla scoperta dell’America: rappresentavo la Moda italiana. Dopo tanto tempo, alla settima edizione del mio festival in Puglia, il sindaco mi annuncia che ci sarà un ospite internazionale, una sorpresa: Gazzara. Non dico che lo conosco. Arriva, un cagnolino in mano. Io salgo sul palco con la statuetta. Ben fa alla moglie: “Ti ricordi di lui?”. “Yes, Metropolitan!”. È tornato in Puglia ogni anno, mi toccava la pancia e diceva: devi dimagrire. Peccato che non c’è più.
Il figlio Valentino entra e saluta amabilmente, ma tace, davanti al padre sconcertato che vorrebbe valorizzarlo. Preferisce stare appartato e dare il “ciak si gira”. Giovane e idealista, che bel vedere.