Questa che sto per proporvi è una storia che ho fortemente cercato. È fatta degli ingredienti primari della vita, uniti insieme ma ancora ben distinguibili: coraggio, idee, amore, fatica, creatività. I protagonisti respirano come noi, hanno paura come noi, sono immersi nel caos come tutti noi, eppure, hanno tirato fuori dal cuore le ragioni della loro contagiosa umanità e hanno provato a trasformarle in un luogo che potesse ospitare chi di queste è in cerca. Siamo a Reggio Emilia, in uno di quei quartieri senza nome che capita spesso di incontrare nelle città, “Stazione”, “palazzi”, gli appellativi più comuni. Via Turri, una lunga strada che costeggia la ferrovia e che attraversa questo distretto dei popoli come la galassia lattea che li richiama tutti a sé.
Tre ragazzi, il loro sogno, a metà tra le stelle che lo illuminano e il calore della terra che dona il suo humus. Claudio Melioli, astrofisico e ceramista, solo due delle sue molte qualità, insieme a Khadija Lamami e Alessandro Patroncini, sono le menti che hanno dato vita a Binario 49, un caffè letterario che nasce per portare bellezza e intelligenza in uno dei tanti quartieri rifiutati dalla società. Sognare non basta più, “non costa nulla” dice Khadija “ma impegnarsi è un dovere”. Abbiamo bisogno di agganciarci alla realtà e di portare in materia le idee che abbiamo, l’unico vero banco di prova per capire chi siamo e in cosa crediamo nella moltitudine di ostacoli che incontreremo. Saranno tanti, così come i successi. È una questione di sguardo, di prospettiva, di sensibilità a cogliere. Sebastião Salgado lo sa bene ed è per questo che ha premiato i loro sforzi regalando al Binario 49 la prima nazionale assoluta di Africa, uno dei suoi meravigliosi reportage dedicati al continente che lo ha visto coinvolto in oltre trenta anni di lavoro. Quelle che seguiranno sono le testimonianze di Claudio che si è gentilmente prestato per un’intervista che è prima di tutto il vivace manifesto di chi crede che le cose si possano fare veramente.
Claudio, perché Binario 49?
Una esigenza sia personale che generale. Ero tornato a casa dopo aver vissuto in Brasile gli ultimi quattro anni facendo l’astrofisico e occupandomi di un laboratorio di ceramica con i ragazzi di strada di San Paolo. Città enorme questa e quando tornai a Reggio Emilia, speranzoso, soffrii un po' lo stacco tra le due dimensioni. Cominciai a guardarmi intorno, conoscevo già il quartiere e così venni a sapere di un bando comunale che offriva questo locale in concessione. Oggi lo vedi così, ma all’epoca era molto diverso, c’erano solo le quattro pareti e tanto degrado. La zona di via Turri era comunemente diventata mal parlata: i problemi c’erano e ci sono, ma la nomea del posto era andata ben oltre la realtà, in questo complici anche i giornali. Nel corso degli anni avevo lavorato come operatore sociale qui, ero entrato nelle case delle persone, conoscevo le situazioni.
Come nasce questo progetto?
Cominciai a immaginare uno spazio che potesse offrire cultura e servizi e rispecchiasse un po’ quel sogno che ho avuto sin da ragazzo – e credo come me molti altri (ride) – di aprire un pub o un ristorante con gli amici. Ecco come puoi vedere il motivo personale e quello generale si sono uniti. Ma avevo bisogno di un soggetto giuridico per poter partecipare al bando del Comune, così mi sono appoggiato a un’associazione di amici chiamata Casa d’altri che era nata proprio con l’intento di aprire un ristorante. L’idea di questi ragazzi purtroppo non andò a buon fine e così l’associazione rimase dormiente. Quando chiesi loro l’appoggio me lo offrirono senza problemi. Restava aperta la questione del contenuto. Volevo costruire un progetto che rispondesse alle esigenze degli abitanti, per cui avevo bisogno di ricominciare a frequentare il quartiere per poter elaborare insieme a loro. Alla prima riunione del piccolo comitato locale, ho conosciuto Khadija, ci siamo incontrati lì per la prima volta. Lei anche viveva altrove, ma aveva deciso di accompagnare il gruppo del comitato nel loro rapporto con il mondo, con le istituzioni. Decidemmo così di scrivere il progetto insieme.
Il bando era destinato a cooperative con una forza economica largamente superiore alla nostra. Dai più del settore eravamo etichettati come “quattro ragazzi da bar”. In effetti al bar ci andavamo per riunirci, poiché ancora non disponevamo di una nostra sede [ridiamo]. Nonostante la disparità di risorse che ci separava dagli altri concorrenti, il Comune decise di assegnarci il locale, ritenne che avevamo tra le mani qualcosa di valido. Eravamo senza i soldi per ristrutturare, questo lo mettemmo in chiaro da subito, nonostante ciò riuscimmo a farci finanziare i lavori in cambio delle nostre ore di manodopera.
Quindi per ritornare alla tua domanda, Binario 49 nasce dall’incontro – diciamo “casuale” – di tre persone legate da un’esigenza comune in un determinato momento della loro vita. Ci siamo trovati in sintonia sin da subito e questo non è stato per nulla scontato. Ci ha permesso di dare vita a questo posto in tempi molto brevi, nonostante il luogo sia in continua evoluzione e ancora lontano dall’esser perfettamente compiuto.
Tutto quello di cui mi parli Claudio traspare visibilmente da ciò che si incontra qui. La sensazione che ho avuto è di una profonda corrispondenza con le tue parole. Quindi possiamo dire che la molla che ha fatto scattare tutto il processo è stato il vostro sentire comune, le vostre emozioni?
Sì, sicuramente c’è stato un sentire molto forte da parte di tutti e poi anche un fastidio nel riscontrare che certe tematiche venivano affrontate sempre nello stesso modo. Una critica che principalmente rivolgo sia al nostro passato che al mondo social, che aveva inquadrato questo posto come un luogo dove al massimo si potessero suonare i tamburi e che non avesse bisogno né di bellezza né di pulizia, due elementi fortemente snobbati in nome di un certo elitarismo, che sono invece per noi valori fondanti.
Quali sono stati i primi passi?
Le prime cose che abbiamo fatto per dare vita al Binario 49 non sono state progettazioni astratte o ricerca di persone interessate, ma pulizie di ore e ore nei nostri fine settimana. E quando chiedevamo in giro per quale ragione gli abitanti non frequentassero il locale, la risposta era sempre la stessa: “Perché dovrei venire in un luogo che è sporco?”. Ci siamo così impegnati per gettare basi solide e semplici: pulito, bello, ordinato e al contempo ricco di contenuti. Preciso che non abbiamo nulla contro i tamburi, ma se identifichiamo una realtà solo con questo non andremo mai da nessuna parte, ci sono centinaia di posti fantastici dove mangiare il cuscus, non c’è bisogno che lo facciamo anche noi. Anzi, abbiamo messo nella nostra agenda un corso di cappelletto reggiano, anche solo per provare a cambiare un po’ gli stereotipi.
Ti ringrazio perché hai detto delle cose in cui credo molto e che si ascoltano di rado. Il nostro mondo è terribilmente sporco e oggi lavorare coscientemente sulla pulizia è un po’ come compiere una piccola rivoluzione. Sulla bellezza: Simone Weil diceva che sarà proprio la bellezza a salvare il mondo, ma cercare di portare un principio così nobile nel caos della materia non sembra cosa semplice. Come vi siete mossi a riguardo?
Mettendo da parte il relativismo della bellezza come giudizio, ci siamo prima di tutto mossi cercando le persone giuste. È stata anche questa una grande esperienza. Nel momento che abbiamo scelto di intraprendere questo percorso siamo andati a intercettare i professionisti di ogni area interessata, cosa che nel mondo social non avviene spesso. Si tende al contrario a fare tutto da sé. Abbiamo pensato: se c’è un bravo artigiano che ha una bella azienda che lavora il legno, conquistiamolo! L’uomo che ci ha fatto le strutture in ferro ce lo ricorda sempre: “La fregatura è che mi sono innamorato di voi!”. Molti di questi professionisti alla fine ci hanno accompagnato nella realizzazione del Binario 49 prestandosi amichevolmente anche quando non avevamo soldi da offrire.
Il contagio della Bellezza?
Non abbiamo l’arroganza di sapere ciò che è bello, ma crediamo che mettersi in un percorso di ricerca, di ascolto di maestranza altrui, può essere un buon inizio per realizzare qualcosa di bello. E poi c’è sempre la rottura degli stereotipi. Si pensava che questo posto dovesse essere necessariamente ricoperto di muri colorati, bandierine dappertutto e così via. Il nostro percorso verso la bellezza è passato per l’abbandono di questi e altri luoghi comuni in favore di un mettersi in gioco alla ricerca del gusto. Ognuno di noi ha rinunciato a una parte delle proprie idee per arrivare a una estetica condivisa, che ci piace!
Ho un’ultima domanda per te Claudio che ti rivolgo nel pieno rispetto del tuo percorso anche di pensiero che hai gentilmente condiviso con me. Ebbene, quale è l’unico vero nemico?
Parto dal presupposto che non esistono mai dei veri nemici o meglio che non esistono veri nemici per sempre. Persone, situazioni, ma forse quell’unico nemico è il tipo di pensiero che vuole un posto come questo in un solo modo. Non certo un nemico di guerra, piuttosto un ostacolo culturale. Farsi capire, spiegare di continuo, che è un processo bellissimo ma a volte così faticoso da farti passare l’entusiasmo. Ecco forse il vero nemico di tutto questo è la stanchezza. Ti mette alla prova e ti costringe a tirare fuori il motivo reale per cui fare le cose, proprio in quei momenti dove vorresti mollare tutto. Siamo umani, fragili, ma anche capaci di richiamare sempre a noi la verità che ci spinge ad agire, se c’è.
Ancora grazie per l’onestà. Come diventerà Binario 49, progetti per il futuro?
La mostra di Sebastião Salgado è stata un’esperienza bellissima ma che chiaramente essendo di altissima qualità ci può creare qualche problemino per il dopo! Tornare alla normalità sarà una cosa importante, se riusciremo a vivercela serenamente. Questo tempo ci ha insegnato tanto dal punto di vista della gestione, dell’organizzazione, ci ha fatto le spalle grosse. Vogliamo tornare ad affrontare le criticità di questo quartiere con uno sguardo sempre più ampio, rinnovato anche grazie a questa esperienza. Ci piacerebbe puntare su servizi come lo sportello psicologico gratuito o vari laboratori con i ragazzi, diventare insomma una specie di portineria a cui rivolgersi e che faccia da punto di riferimento per gli abitanti del luogo. Forse non riusciremo a fare tutto ma se rimaniamo piccoli potremo continuare a pensare semplice.
E direi in grande. Claudio e i ragazzi del Binario 49 sono l’esempio di un processo di trasformazione della realtà che parte da dentro, dalla semplicità di un sentire che cerca di trovare espressione nel contatto umano e nella cura di una complessa geografia di vite segnate dal pregiudizio. È stato un incontro dell’uguaglianza, una storia che mi ha ricordato del potere infinito dei sogni e dell’energia meravigliosa che liberiamo quando cerchiamo di realizzarli.