Un esercizio ardito quello di accarezzare le lettere prima di trasporle sul foglio che, attraverso il gesto della nostra mano, le accoglie con generosa disponibilità.
È un modo intimo e affettuoso per dire la complicità che si crea tra chi scrive e le parole che conoscono fin nel profondo le emozioni che verranno chiamate ad esprimere, le lacrime che dovranno piangere o asciugare, le risate gioiose che risuoneranno attraverso le loro sillabe. Non ci sono segreti che le parole non sappiano e non possano dire, non ci sono amori che non possano narrare, pur se proibiti.
Non sempre è la prima parola che si fa avanti quella che viene scelta e allora ce ne sono altre, specie quelle che non hanno più vent’anni, che iniziano a proporsi. Nel tentativo di tornare sotto le luci del palcoscenico si rifanno il trucco, prendono le distanze dai sinonimi che guardano come usurpatori che si infiltrano nei significati, a rischio che, con le loro pretenziose qualità, riescano a detronizzare parole che si considerano insostituibili.
Nessuna parola che si rispetti potrebbe accettare di essere sostituita con un vocabolo e tanto meno da un termine solo per assecondare la discutibile norma di evitare le ripetizioni.
Le parole le sento arrivare, ne percepisco la presenza, la voce, so che mi stanno osservando.
A mia volta le osservo come vecchie fotografie che ho veduto tante volte ma che ancora conservano la loro ammaliante bellezza.
So riconoscere i segni che si sprigionano dalle pagine scritte per attirare lo sguardo.
Sento il sospiro lieve della melanconia quando sta seduta accanto alla finestra velata di penombra: non si concede, non fa nulla per farsi scegliere, eppure tende l’orecchio, spera di essere chiamata.
È una parola antica, profumata di rosa, sempre di rara bellezza, nascosta nella lettera inviata ad un’amica che conosce i segreti del cuore.
In silenzio ammiro le parole che descrivono il pianto sul volto di una giovane donna che tiene in mano un libro. Vedo il suo viso. La lettura ha toccato la sua anima e la mia. Sono le parole scritte a farmela incontrare. È in un romanzo la sua vita e saranno le parole a raccontarmela ora che ho accettato l’invito a camminare insieme sulla carta che, come un’antica mappa, accoglie e svela le tracce per ritrovare il prezioso tesoro della conoscenza.
Provo l’ebbrezza di viaggiare dentro il loro corpo significante, assecondando le visioni che sanno suscitare.
Lascio che si dischiudano altri mondi nei quali perdersi e ritrovarsi, nei quali poter oltrepassare le strettoie della ragione per imboccare il cammino della fantasia.
Mi piace immaginare il modo in cui le lettere entrano nelle parole e ne disegnano le forme ed è una pratica di attenzione e ascolto quella di osservarne gli impercettibili gesti che permettono ad ognuna di trovare la sua giusta collocazione: intrecciate con cura o costrette a farsi largo sopra un piccolo pezzo di carta, guidate da una mano esperta o scarabocchiate in fretta da uno “scrivano” distratto.
L’attenzione si concentra sul foglio e intanto la mente si muove tra dubbi e pensieri sul come trovare, accogliere, blandire le parole. Cerca, si divincola, scopre nuove frontiere, si inoltra in territori sconosciuti e continua senza posa finché qualcosa accade.
Se potessimo ricevere come impulso sonoro il movimento delle parole che scorrono nella mente di chi si accinge ad usare la penna per dar voce al proprio cuore, il loro chiacchierare e bisbigliare sarebbero assordanti: un via vai di suoni e di gesti, di pretese e rimostranze, di preclusioni e simpatie, di dubbi e attese.
Ad un tratto, quando facciamo emergere fino in fondo la verità del sentire, arriva l’ispirazione, quel soffio di meraviglia che sospende il respiro umano affinché l’afflato divino ci attraversi, e allora possiamo lasciare che le parole si travasino sulla pagina come suggerite da una voce interiore che si infonde nella nostra mano fino a generare creature d’inchiostro.
Quando le parole si adagiano sulle pagine il pensiero si placa per un istante come acquietato da quell’incontro mai prevedibile, mai scontato.
Ciò che ne verrà non ha per forza da essere poesia: l’ispirazione è importante anche per scrivere del quotidiano. Quel respiro che alimenta la nostra anima è per tutti frammento e memoria di quella lingua che, ancor prima di essere scritta, partecipava dell’armonia dell’universo.
Scriviamo cose che altri hanno scritto, frasi che hanno tradotto il sentire di molti esseri, eppure per noi quelle parole vengono scritte per la prima volta.
Il gesto della scrittura ha in sé le caratteristiche dell’evento e, in quanto tale, partecipa di quella sacralità, di quel rito che ne rende unici e irripetibili l’accadere e il compiersi.
Anche se la scrittura nel suo esito è già il corpo pietrificato dell’azione creatrice che attinge all’infinito scenario del mondo fluttuante, sulla carta si ferma l’intenzione che non è visibile eppure permette di ritrovare, anche a distanza di tempo, le impronte lasciate dal mio passaggio, riesce ancora a dire qualcosa di me, a farmi comprendere dove mi trovo, quanto cammino ho percorso.
La mia scrittura dice che ci sono, “che sono io e nessun altro” ma lascia aperto l’incontro attraverso il processo empatico.
Le parole sono creature di intenso sapere, che hanno veduto il passato più lontano e riescono a rivelare ancestrali segreti.
Come scrigni che custodiscono preziose pietre, accolgono fonemi e lettere che affondano le loro radici nelle lingue originarie, nella scrittura dei “sacri segni”, i geroglifici egizi, nelle sillabe risonanti dell’alfabeto fenicio, nelle splendide geometrie del sanscrito.
Sono fonemi che hanno respirato l’essenza dei primordi, lettere che sono state ponte di passaggio tra umano e divino, forme che appartengono al mondo dei simboli ma anche sostanze che concedono il proprio potere a coloro che coltivano la scienza delle lettere.
Conservano memoria di mondi ormai scomparsi, portano impresse le tracce di secoli nei quali si è compiuto il passaggio dall’oralità alla scrittura.
Un tempo ogni insegnamento di verità era attribuito ad una “presenza parlante”: Pizia, profeti, indovini, taumaturghi, tutti si facevano tramite della parola pronunciata come formula rituale, tutti si facevano attraversare da una forza divinante che si traduceva in sonorità.
La scrittura segnò il passaggio ad una convenzionalità che era “un sostituto della parola” e tuttavia non ne aveva perduto completamente la forza evocativa, magica.
Oggi la sempre più diffusa perdita della pratica della scrittura manuale e la quasi totale sparizione del corsivo per un uniformante stampatello producono una preoccupante spersonalizzazione e la perdita del rapporto con la parola come percorso percettivo.
Le parole hanno un sapore e un profumo, suggeriscono forme e numeri che rimandano al tempo in cui alle lettere dell’alfabeto veniva attribuito un valore esoterico ed erano messe in correlazione con i numeri e i simboli cosmici.
La scrittura digitale non contiene nulla che possa lasciare traccia di me, del mio corpo, delle mie emozioni.
Non può riprodurre le sfumature che parlano del mio essere lì in quel momento, del mio turbamento che rende più piccole, come fossero percorse da un brivido, le parole che ti scrivo, del mio volerti parlare oltre la parola che abbrevia le distanze tra le lettere quasi che stessero correndo, del mio sguardo che ti pensa e, pensandoti, dimentica di scrivere l’ultima vocale.
Non conosce il segno della paura che genera lettere tremanti e dal respiro corto, non sa che cosa sia il tormento di scrivere e riscrivere e di tornare sempre alla medesima parola, di guardare quelle esili creature che restano sul foglio come i ritagli scartati di un abito cucito con cura.
Collera, gioia, quiete, attesa sono emozioni che lasciano impronte inequivocabili.
Digitare sulla tastiera è ben diverso dall’imprimere sulla carta i tratti, i segni dell’inchiostro che stringe con la carta un sodalizio intimo: le fibre vengono quasi fecondate dal suo liquore in un atto potente che rimanda al senso di possesso che troviamo nei segni impressi sulle pareti delle antiche dimore rupestri come quelle di Lescaux.
Lo scrivere continua ad avere attinenza con il disegno, con la pittura anche se gli alfabeti non hanno l’evidenza pittografica dei kanji giapponesi o di altre scritture che conservano la pratica del pennello e dell’inchiostro.
Senza la scrittura manuale vien meno il piacere di dare ad ogni parola la dovuta reverenza e il riconoscimento che le spetta. Vien meno il desiderio di guardarla in tutta la sua bellezza, di vederne gli infiniti particolari che la rendono ogni volta diversa grazie al tratto della penna che la riproduce e la riporta alla vita.
Vien meno il piacere di dare ad ogni componimento una forma che ne renda percettibile la natura profonda, intima.
Nella scrittura meccanica non c’è traccia delle cancellature che sono il mirabile dominio della mutevolezza e dell’impermanenza.
Senza le cancellature non potremo più ritrovare il tratto che ferisce la parola ma non la elimina quasi a lasciarle la possibilità di essere ripensata e ripescata e magari collocata accanto ad altre parole che sapranno consolarla e ridarle allegria.
Senza il segno visibile della cancellatura non conosceremmo il dubbio che attraversò la mente di Leopardi che, per due volte, durante la stesura dell’Infinito, pensò di sostituirlo con infinità.
Senza la scrittura manuale non potremo più annotare, glossare, aggiungere fuori e sopra le righe quelle parole che ci aiutano a conservare ricordi, sensazioni, stati d’animo che hanno accompagnato il nostro cammino di lettori oltre che di scrittori nonché il paziente, accorato lavoro dei filologi e degli amanuensi.
Si stanno perdendo i preziosi segni che separano, interrompono, fanno prendere respiro e creare pause e sospensioni, che danno il ritmo al testo: il punto che segna una fine e permette di uscire da una situazione, la virgola meno perentoria, sempre capace di aggiungere qualcosa di importante o di non lasciarsi troppo coinvolgere in decisioni definitive, di fermarsi un istante per darsi un’altra opportunità.
La scrittura è un’arte nella quale il corpo dello scrittore non è visibilmente coinvolto come nella danza, nel canto, nel teatro eppure il gesto dello scrivere attraverso la mano che imprime i segni sul foglio è la traccia identitaria lasciata dal corpo che traduce il pensiero.
La scrittura è corporea, è fisica, è uscire da sé in una sorta di estasi frutto del coinvolgimento di corpo e anima.
È una via per sciogliere il dolore, per rendere visibile ciò che sentiamo l’urgenza di esprimere, una via per scoprire i tratti della nostra interiorità.
Le parole che scriviamo sono impregnate della vita di coloro che prima di noi le hanno scritte e, se osserviamo il nostro gesto, se lo ascoltiamo mentre ci invia il messaggio che il nostro cuore gli ha infuso, possiamo riconoscere identità sentimentali, sentirci parte di una vita condivisa con donne e uomini che, come noi, hanno affidato alla parola il respiro della propria anima.
La scrittura alla quale mi riferisco non ha come metro di misura la perfezione letteraria, la correttezza linguistica, la raffinatezza del tratto bensì l’impulso creativo che nasce dal desiderio di donare ad altri le proprie emozioni o dal bisogno di comprendere a che punto siamo del nostro percorso guardando le parole che si sono depositate sul foglio attraverso il pensiero della nostra mano.
Riconoscerei fra mille la scrittura arrotondata e potente di mia madre e non credo che potrebbe essere lo schermo di un pc a farmi scendere le lacrime come mi accade ogni volta che apro un suo biglietto di compleanno scritto in bella grafia per me bambina che ancora non sapeva leggere ma poteva vedere in quel caleidoscopio di lettere danzanti tutto l’amore con cui lei aveva composto quella mirabile coreografia.
Quella della scrittura manuale è una pratica creativa dalla quale nessuno è escluso. Non lo erano le mie antenate che hanno lasciato traccia di sé per il solo fatto che le loro ricette, le loro cartoline inviate o ricevute dall’innamorato, i loro semplici e deliziosi tentativi di farsi scrittrici attraverso un diario portano impresso il segno delle loro voci, delle loro risate, del profumo di violetta passato sui bordi di una lettera indimenticabile.
Leggere su carta è ben diverso dal leggere sullo schermo; ormai lo confermano anche le neuroscienze che sottolineano l’importanza di dedicare almeno un piccolo lasso di tempo quotidiano per leggere le pagine di un libro “in carta e ossa” e per pensare a che cosa scrivere tenendo una penna in mano.
Che cosa, di una schermata digitata secondo caratteri e modi “globalizzati”, stimolerà il nostro ricordo, di quali differenti sentimenti e modi di vivere ci parleranno i messaggi premuti su tastiere sempre più sofisticate e sempre più lontane dal battito del cuore?
È questo un tempo nel quale stiamo lasciando che le parole perdano di forza e noi donne che ne siamo state trasmettitrici, depositarie, capaci di farne uso sacro, ora di nuovo dobbiamo tornare ad usarle come forza agente, generante, desiderante, a prendercene cura, a salvare loro la vita.
Uno dei modi per farlo è scriverle sulla carta e farle incontrare con altre parole.
Esercizio per il mese d’Aprile
Per qualche minuto della giornata, meglio se sempre alla stessa ora, esercitiamoci a prenderci cura delle parole e ad assecondare il loro desiderio di essere scritte su un foglio di carta per mezzo di una penna a inchiostro liquido o a una matita: una forma di meditazione che sviluppa l’ascolto, l’attenzione, la pazienza e l’immaginazione.
A cura di Save the Words®