Per voce creativa è un ciclo di interviste riservate alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione Giovanna Lacedra incontra Saba Masoumian (Teheran, 1982).
La memoria registra sempre, sulla sua pelle, lesioni, crepe, fenditure. Ma sono aperture che accolgono luce. Ferite che aiutano a scorgere meglio la preziosità di tutto ciò che resta, tra la polvere del silenzio, quando si torna in quei luoghi che ormai non appartengono a nessun altro se non al tuo ricordo.
Ogni abbandono implica una distanza. Ogni abbandono è una stanza in cui si sono dimenticati i gesti, le azioni, le voci. Li abbiamo lasciati lì, come vestiti. Ma ciò che si è toccato, vissuto, amato, consumato resta ancora, nell’immobilità della sua storia. Per ricordarci cosa siamo stati e dove abbiamo lasciato le orme del nostro passato.
La memoria non è mai una stanza ordinata. È piuttosto scomposta. È fatta di fondi di caffè, piatti da lavare, scarpe dimenticate sul pavimento, rubinetti che gocciolano. E poi ruggine, ruggine, ruggine. Il cavo del phon attorcigliato, la vestaglia sul pavimento. La vita che stava accedendo, ma poi, in qualche modo si è interrotta nel suo stesso svolgersi.
E proprio la sospensione delle cose quotidiane, questa interruzione dello svolgimento, questo cristallizzarsi di una quotidianità remota, appartiene alle scatole della memoria modellate, scolpite e dipinte con una cura lenticolare e fiamminga, da parte di Saba Masoumian.
Le sue installazioni sono archivi di ricordi, luoghi in miniatura. Si assiepano dettagli di un realismo spiazzante. L’assenza di chi ha lasciato tutto quel disordine è così fortemente percepibile da farci sentire dei voyeurs. Come se stessimo spiando in casa d’altri. Come se i luoghi che queste scatole ci aprono fossero stati abbandonati per errore. Una finestra aperta o una porta socchiusa ci parlano di un passato, ma ci ricordano anche che qualcuno potrebbe ancora tornare. A chiudere quel rubinetto, a sollevare la caffettiera dai fornelli o a raccogliere le sigarette spente nel posacenere.
Il virtuosismo con cui Saba ricostruisce questi luoghi della sua infanzia è davvero stupefacente. Sono scatole emozionali, che ricreano una fatiscenza intatta. Scatole mnemoniche fatte di argilla, polistirolo espanso, legno, resina e colore. E in queste scatole tutto è piccolissimo e lirico. E puoi quasi sentirlo il rubinetto che gocciola, puoi quasi annusarla quella tazzina sporca di caffè. Tutto è così credibile da poterci finire dentro. Perché la memoria resti un luogo dove poter tornare.
Saba Masoumian è un’artista iraniana. Dopo aver trascorso alcuni anni a Bologna, oggi vive e lavora a Genova. E questa è la sua Voce Creativa per voi.
Chi sei?
Una persona che ama la luce e cerca di vederla anche nel buio.
Qual è il punto più lontano verso cui volgi il tuo sguardo quando nessuno ti vede?
Nessun punto in particolare, ma ovunque immagino di poter volare via.
La tua forza?
La determinazione che metto nel fare le cose a cui tengo di più: per quanto a volte possano sembrare assurde agli altri, non riesco a fermarmi prima di portarle a termine.
La tua fragilità?
La delicatezza della felicità, il bisogno di serenità: stati d’animo che cerco di accarezzare e proteggere ma che, purtroppo, come tutte le cose belle di questo mondo, sono destinate a non durare nel tempo.
La fiaba nella quale credevi di più da bambina?
La Sirenetta di Hans Christian Andersen, perché come lei, che rinunciò alla voce e accettò il dolore per amore di un essere umano, anche io volevo liberarmi dai limiti fisici per andare verso ciò che desideravo. Ero molto affascinata da questa vecchia edizione che le mie sorelle si erano passate tra loro prima di me, tradotta e illustrata da Farah Diba, moglie dell’ultimo Scià dell’Iran.
Che cos’è la solitudine?
Per me è l’unica condizione in cui, isolata dal mondo esterno, posso riuscire a sentire la mia essenza interiore: per me è come trovarmi in una stanza vuota in cui posso toccare e plasmare le mie sofferenze e ottenere quel sollievo che non mi fa più sentire sola. A volte mi ci abbandono per capire dove voglio dirigermi, e comunque, sempre durante il lavoro per far emergere dall’inconscio le visioni che rappresento.
Cosa ti manca di Teheran?
La piccola luce che sprigiona la mia famiglia in mezzo a quello sconfinato grigio: la libertà che c’era un tempo a Teheran io purtroppo l’ho potuta vedere solamente nelle vecchie fotografie…
Perché l’Italia?
Anni fa avevo illustrato due libri per bambini per la casa editrice Shabaviz di Teheran e venni portata due volte alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna. Appena arrivata mi sentii invasa dalla vivacità dei colori di quella città e così, qualche anno dopo, presi la decisione di andare a vivere proprio lì. In generale, sono sempre stata attratta dallo scoprire luoghi diversi, e vorrei sempre respirare dove sento la vita vibrare.
Se non fossi un’artista, chi saresti?
Nelle mie fantasie avrei voluto dirigere film, e forse sarei diventata un’autrice di animazioni come in parte sono ora, ma più probabilmente avrei cercato di diventare una musicista, perché ero portata: se non mi fossi orientata alla pittura credo proprio che avrei studiato musica.
Perché invece fai l’artista?
Perché è un modo di vedere le cose in maniera più sensata e intelligente, sia col cuore che con la ragione. Il tempo che dedico al lavoro mi fa respirare e sentire libera, e il benessere che ne ricavo si diffonde anche all’esterno, togliendo ragioni di conflitto nelle mie relazioni: per me è come una purificazione dalle influenze negative esterne.
Quali luoghi ricostruisci meticolosamente nelle tue opere?
Soprattutto le stanze delle case abbandonate, che richiamo dalla memoria della mia infanzia: luoghi umidi, fatiscenti, nascosti, dentro i quali sono rimasti solo vecchi arredi da buttare e oggetti dimenticati che non servono più a nessuno, ma che ancora continuano a raccontare la vita delle persone che abitavano quegli stessi ambienti, prima di andarsene via.
Da dove nasce la tua ricerca?
Da piccola avevo il desiderio di creare degli oggetti che mi occupassero durante le ore di solitudine. Guardavo con invidia questo personaggio di un cartone animato giapponese che trovava rifugio dal mondo esterno, scolpendo tutto quello che immaginava in piccole statue di legno, sempre più belle. Anche io ho dovuto fare molti tentativi prima di trovare la tecnica più adatta a quello che andavo cercando, fino a quando mi sono resa conto che quel semplice gioco stava diventando qualcosa di più serio: stavo penetrando la rappresentazione.
Quale credi sia il compito di una donna-artista, oggi?
Lo stesso di una qualsiasi donna, fare ciò che si sente giusto fare con coraggio e intelligenza. Ma vale lo stesso per tutti, credo.
È vero che la scaturigine di un’opera è sempre autobiografica?
Per quanto riguarda me lo è di certo: così come i pensieri e le esperienze di notte si tramutano in sogni, altrettanto le opere risentono di quello che siamo, dell’ambiente che ci circonda e dei ricordi che ci portiamo dietro. Essendo poi la vita umana composta di archetipi, opere come le mie possono trovare una risonanza in chi vi si trova davanti, scatenando malinconia, gioia o fastidio, a seconda dei ricordi che la raffigurazione richiama dal profondo della sua memoria.
Un lavoro tuo che ti sta maggiormente a cuore e perché?
Nessuno in particolare… Che un mio lavoro possa risultare più o meno riuscito non mi fa nessuna differenza, lo sento ugualmente vicino, del tutto mio: non sarebbe esistito se gli oggetti con cui l’ho assemblato non avessero fatto e facessero ancora vibrare, dentro di me, qualcosa di forte e unico.
Che ruolo ha la memoria nel tuo lavoro?
La memoria per me è fondamentale, è l’ambiente scenografico in cui inserisco le esperienze più recenti e tutto quello che attraversa la mia vita nei giorni in cui creo. È l’atmosfera del passato che continua a pervadere il mio presente, che ancora sento nell’aria come se fosse un odore o un profumo.
A ispirarti, influenzarti, illuminarti ci sono letture particolari?
La ricchezza che si trova nelle scarne composizioni degli haiku giapponesi: è difficile poter mentire con così poche parole…
Scegli tre delle tue opere per raccontarmi il tuo lavoro.
Partendo dai lavori più recenti direi Uccelli (turca) del 2017, che privo dei muri, come tutta la serie, apre gli ambienti chiusi delle opere precedenti portando in contatto una figura femminile menomata e priva di identità con una natura che arriva da fuori, nasce da dentro e si mescola ai corpi. Le altre due opere che scelgo sono Scatola (lavandino) del 2016, che aggiunge alle tematiche di base descritte prima le tracce di un’infanzia perduta nel tempo, e Scatola (bagno) del 2015, in cui, insieme a tutto il resto, si sono fossilizzati nel tempo anche semplici gesti comuni.
L’opera d’arte che ti fa dire: “questa avrei davvero voluto realizzarla io!”?
Tra le tante direi il Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch.
Uno o una artista che avresti voluto esser tu.
Mi piacciono molti artisti, soprattutto Vincent van Gogh, ma sinceramente non mi andrebbe di essere qualcun’altro.
Un critico d’arte o curatore con il quale avresti voluto o vorresti collaborare?
Ho sempre rispettato le competenze che ci sono nel mondo dell’arte, quindi in queste cose preferisco affidarmi alla sensibilità dei galleristi.
Tre aggettivi per definire il sistema dell’arte in Italia.
Per mia natura presto attenzione solamente al mio lavoro, quindi posso solo dire che, per quanto mi riguarda, l’ho trovato sensibile e attento.
In quale altro ambito sfoderi la tua creatività?
Di solito, nel poco tempo libero che ho a disposizione creo dei piccoli monili di argilla da indossare, soprattutto orecchini, o altri oggetti d’uso comune, come portacenere o reggi-incenso.
Work in progress e progetti per il futuro?
Vorrei tanto tornare a lavorare a un’animazione passo-uno come Mare asciutto, sempre ambientata dentro le mie scatole, ma al momento questo progetto è bloccato dalle mostre che ho in programma quest’anno, tra le quali vorrei citare le mie seconde personali alla Galleria San Fedele di Milano e Villa Contemporanea di Monza, a cui forse si andrà ad aggiungere anche la seconda personale alla XVA Gallery di Dubai.
Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore.
In un suo brano Leonard Cohen recita: “C’è una crepa in ogni cosa: è così che entra la luce”.