Il lino era ormai in fiore. Bellissimo nella sua nuova veste color del cielo, si lasciava scaldare dal sole e rinfrescare dalla pioggia leggera, beandosi della propria condizione. A nulla valevano gli scricchiolii ammonitori che i pali dello steccato gli rivolgevano dai margini del prato. Ma ecco che un giorno gesti brutali di uomini lo strapparono dal terreno, lo immersero nell'acqua e lo passarono sopra il fuoco; poi lo batterono, lo sfilacciarono, lo sistemarono su un filatoio, finché sconvolto e confuso esso si vide trasformato nel più bel pezzo di tela che si potesse immaginare, trattato con ogni riguardo e da tutti elogiato. Ancora una volta, però, questa felicità non durò a lungo: a forza di forbici e aghi dal tessuto si ricavarono dodici capi di biancheria che con dignità svolsero a lungo il loro onorato servizio. Ormai logori e invecchiati, essi furono stracciati e ridotti in brandelli, e di nuovo, quando il lino pensava che fosse davvero arrivata la fine, ciò che restava di quel tessuto fu portato al macero, sfrangiato, triturato, impastato, fino a che divenne una pregiatissima carta di lusso, sulla quale mani capaci presero a scrivere parole piene di sapienza e consolazione. Giunto il tempo di un'altra metamorfosi, la carta fu portata in tipografia, dove i tesori di cui era stata custode furono stampati e andarono a riempire interi libri. E la carta? Fu, infine, gettata nel camino e si volatilizzò in mille e mille scintille luccicanti per la gioia dei bambini che le rimiravano affascinati, anche senza riuscire a comprendere a pieno ciò che esse andavano raccontando.
Perché, da straordinario narratore quale fu, il grande Hans Christian Andersen non poté esimersi dall'infondere a questa sua fiabesca interpretazione del ciclo vitale del lino, per quanto lieve essa fosse, tutta la complessità che la storia millenaria di quel minuscolo seme si portava dentro, fin da quando 8000 anni prima della nascita di Cristo esso aveva fatto la propria comparsa lungo le rive del fiume Nilo, diffondendosi successivamente in un'area vastissima che andava dal Medio Oriente all'Europa continentale.
Nell'incalcolabile miriade di leggende che affollavano l'immaginario del popolo greco, Lino era il nome di un giovane la cui esistenza era stata segnata da un tragico destino. La versione argiva della vicenda lo diceva nato illegittimamente da Apollo e dalla figlia del re di Argo, esposto alla nascita e cresciuto dai pastori; figlio, invece, di Anfimaro e della musa Urania nella versione tebana, era conosciuto quale sommo poeta e cantore: per opera dei cani aizzati dal re in un caso, per mano dello stesso Apollo geloso della sua arte nell'altro, egli finiva comunque per essere vittima di una morte atroce e prematura, che gli guadagnava l'istituzione di un culto personale e che veniva annualmente ricordata attraverso l'esecuzione di cerimonie e lamenti funebri. Diverse fonti, nondimeno, riferiscono come linos fosse anche il nome riservato dai Greci a un genere particolare di canto rurale dal carattere luttuoso che in molte regioni del bacino euro-mediterraneo veniva regolarmente eseguito durante la raccolta del lino, ma anche in occasione della mietitura e della vendemmia. Ma qual era precisamente la natura di quella melodia? E ancora, è plausibile che essa avesse qualche legame con lo sfortunato fanciullo del mito?
I fondamentali contributi che lo scozzese James Frazer (1854-1941) e l'italiano Ernesto De Martino (1908-1965) diedero all'antropologia culturale e all'etnologia delle religioni, permisero di indagare a fondo queste due realtà e di confermare la profondità della loro relazione. I due studiosi riconobbero nelle tradizioni di molte civiltà agricole del mondo antico la comune tendenza a plasmare le modalità di elaborazione della morte storica dei propri simili sulla base della specifica ritualità che esse associavano alle fasi cruciali della coltivazione di alcune piante divenute economicamente indispensabili al proprio sostentamento. Se l'osservazione del mondo nel quale avevano imparato a muoversi aveva abituato quegli uomini alla ciclicità di uno spegnersi e di un rigenerarsi della vita che sfuggiva completamente al loro controllo, la fase critica del raccolto aveva d'altro canto fatto crescere la consapevolezza che anche l'agire umano potesse intervenire in maniera attiva ed efficace sullo spegnersi e sul rigenerarsi di quella stessa vita, sottraendola così almeno in parte all'incontrastato dominio della natura.
Investite, pertanto, di un ruolo che andava ben oltre quello di alleggerire la fatica o di cadenzare le fasi del lavoro, le litanie della tipologia definita linos (che, di fatto, probabilmente consistevano nella ripetizione cantilenante di poche invocazioni gridate su una lunga nota musicale) sottolineavano con il loro andamento lamentoso l'efferatezza delle operazioni alle quali l'elemento vegetale doveva necessariamente essere sottoposto, perché si aprisse al suo nuovo corso esistenziale e regalasse di volta in volta le sue preziose fibre, il suo vino e soprattutto la sua farina.
Noto agli studiosi come “ideologia della passione vegetale”, questo complesso di credenze portava i contadini a immaginare che lo spirito della vegetazione cercasse in tutti i modi di sfuggire alle loro mani, ai loro bastoni o alle loro falci, che si appiattisse e indietreggiasse, finché espulso dall'ultimo fiore, dall'ultimo grappolo o dall'ultimo covone esso si rifugiasse in chi si era assunto l'oneroso compito di quell'ultimo strappo o di quell'ultimo taglio, divenendone il rappresentante; Il Ramo d'Oro, monumentale opera di Frazer, riporta innumerevoli testimonianze che confermano come la pratica diffusa ancora in epoca moderna in tante parti del continente di inscenare l'uccisione o il maltrattamento dell'ultimo raccoglitore o dell'ultimo mietitore (o in loro vece di fantocci appositamente preparati) non fosse che il residuo delle uccisioni e dei maltrattamenti reali per mezzo dei quali in un passato lontano il nume vegetativo veniva abbattuto e rivitalizzato, soppresso e preparato per la sua rinascita.
E il giovane Lino? Di fatto, il mythos che lo vedeva protagonista non faceva che riproporre l'ambivalente sorte di quell'anima arborea di cui egli era a tutti gli effetti una personificazione; come altrettante personificazioni erano i molteplici personaggi che traevano la loro origine dalle preghiere agresti delle quali portavano il nome e che - al pari di Lino - nelle periodiche celebrazioni che i fedeli facevano del loro morire (e in alcuni casi del loro risorgere) rimandavano esplicitamente all'inarrestabile avvicendarsi di scomparse e ritorni dei frutti del suolo. Traslata nel quadro di un orizzonte mitico di più ampio respiro, la violenza obbligatoriamente perpetrata nei campi si trovava così ad essere in qualche modo riscattata, mentre ad agricoltori e vignaioli veniva concesso il sollievo di sentirsi liberati dalle proprie colpe.
Accanto a Lino, ecco dunque il babilonese Adone, giovane sposo o amante della dea madre Ishtar, che nel suo essere conteso tra le potenze della terra e dell'aldilà simboleggiava l'intermittente presenza nel mondo dello spirito del grano che egli, appunto, incarnava (come Kore figlia di Demetra per i Greci o Proserpina figlia di Cerere per i Romani); l'egiziano Maneros, figlio del primo faraone e inventore dell'agricoltura, il cui prematuro decesso veniva onorato al momento della mietitura e che veniva considerato una sorta di rustico prototipo del grande Osiride (a sua volta smembrato e ricomposto, glorioso emblema degli eterni ritmi delle stagioni); e ancora il bitinio Bormo, anch'egli celebrato con trenodie di lutto che facevano memoria della sua improvvisa dipartita, mentre sovrintendeva al lavoro tra le messi; il frigio Lityerse, figlio del re Mida, che sfidava gli stranieri di passaggio a mietere a gara con lui, uccidendoli una volta sconfitti, finché egli stesso fu assassinato da Eracle; Attis (di cui Lityerse era ritenuto l'antenato), giovane pastore amato dalla dea della fertilità Cibele, anch'egli ucciso e resuscitato; e infine Sileo che obbligava i passanti a lavorare nella propria vigna trovando poi morte per mano di Eracle e lo stesso grande Dioniso, il cui tremendo massacro ripercorreva gli identici tormenti subiti dall'uva durante la vendemmia.
Ogni rito agrario che piangesse i fiori del lino, i grappoli della vite o le spighe del frumento tendeva, dunque, naturalmente a trasformarsi anche in un momento di solenne commemorazione di quanti tra i membri della comunità ormai non erano più e che pure, nel ricordo di chi ancora era, potevano continuare a esistere, di un'esistenza diversa, certo, ma comunque capace di dare frutto, perché in quel cordoglio dei primordi la sola e unica Morte era stata una volta per tutte attraversata e superata.
... e i bambini, davvero, non riuscivano a comprendere a pieno...