Accade talora di non riuscire a dipanare in forma di racconto il groviglio di intensità che si attorciglia intorno al nostro cuore. Non c’è azione, non c’è movimento né continuità, non c’è segnale né gesto, non ci sono sequenze di frasi che assecondino il volere della ragione e si fa così esperienza di un sentire e persino di un dire che sfugge alla regola del comunicare e rompe i legami che tengono le parole ancorate alla loro più facile e prevedibile funzione di portatrici di spiegazioni e messaggi, codificate secondo regole che ne assicurano una controllata libertà.
L’intelletto, che si sforza di rimanere lucido, non trova espressioni adatte, opportune per definire quel grumo di potenza percettiva, quella speciale qualità dell’emozione, quello sconvolgimento che fa vacillare l’equilibrio. La sensazione è così forte che la lingua si spezza e siamo sopraffatti da un silenzio che ci attraversa come un brivido.
Accade quando abbiamo paura, quando proviamo un grande dolore, ogni volta che la tempesta degli accadimenti ci lascia attoniti e muti, persino quando la scarsa abitudine alla felicità ci fa temere di perderla. Resi instabili dalla privazione di quella certezza che viene dalla parola rassicurata dal suo significato e rassicurante nella sua funzione comunicativa, ci troviamo in una sorta di nudità che ci espone agli sguardi di chi vuole da noi frasi precise e articolate, ben mirate al raggiungimento dell’obiettivo, qualunque esso sia.
Ci sentiamo indifesi, vulnerabili; sì, è questo il termine giusto poiché l’esperienza emotiva del dolore che non riesce ad emergere come vissuto e come narrazione è una vera e propria ferita. La cicatrice resta nascosta nel profondo e prima o poi torna a farsi dolorosamente sentire. Dicono gli antichi testi gnostici che attraverso il dolore ci viene mostrata la nostra capacità di sentire. Più è profonda la ferita più sono intensi i sentimenti.
Se si hanno il coraggio e la determinazione ad accogliere questa nudità, questa fragilità che è forse anche vergogna di lasciarsi dominare dalle emozioni, se si accetta di essere spogliati delle parole si entra in un’altra dimensione, si vanno ad incontrare quelle che Francesco d’Assisi definiva “le forze meravigliose e selvagge” che sono dentro di noi. Si vive un’esperienza che è al tempo stesso di solitudine, di trasformazione e di elevazione spirituale.
Si prova un senso profondo di separazione dagli altri con i quali siamo abituati a comunicare eppure c’è uno scambio che avviene attraverso un’energia potente che muta il dolore nella sua “forma guarita” che è l’affidarsi a una rinnovata saggezza, un sapere liberato. Si resta in silenzio fino a quando, all’improvviso, il tempo si spalanca e lascia emergere la voce, risanata e rinvigorita, insieme allo stupore e alla meraviglia che intreccia le sue radici con il miracolo attraverso il verbo latino mirari.
La parola si fa “nunzio” di un sentire intenso che sgorga dall’anima, uno stato di grazia da cui nasce la preghiera, che risuona nello spazio cosmico e vi trova ascolto. E c’è un ritmo in questa risonanza che si fa intuizione, segno e seme; è una sonorità che ha qualcosa di compassionevole, che crea condivisione, che è al di là di ogni religione.
La preghiera è un’arte e come ogni arte richiede dedizione ma è anche espressione di quella pura creatività che la accomuna alla poesia poiché entrambe sono forme del sublime. Non più appesantita dal gravoso compito di significare che la tiene legata alla terra la parola può far ritorno alla sua originaria dimora, andare “a ritrovare il suono universale in grado di permeare e far risplendere linguaggi emozionali assopiti ma non estinti” 1.
È il risveglio di una memoria profonda, è la nostra forma di guarigione poiché ciascuno di noi ha la possibilità di trasmutare il dolore in esperienza del sacro.
Sono invocazioni antiche quelle che scaturiscono dalla nostra anima fluttuante nella liquidità del sentire senza ostacoli, senza barriere; sono litanie udite là dove si rendeva omaggio alle Dee Prime, madri amorevoli di eroi immortali, e potenti depositarie delle formule per risuonare insieme all’universo.
Divina Signora che ami la civetta
Tu che conosci la parola prima
Tu che attraversi i cieli con ali potenti
Tu che illumini l’oscurità degli Inferi,
che ammansisci i leoni con il tuo cuore sognante
Io ti invoco
Senza più timore, senza pesi che ci tengano ancorati, lasciamo che sia la preghiera a dare voce alle nostre emozioni. E allora ne scaturisce una sequenza di frasi liberate e liberatorie che hanno in sé la purezza che si è alimentata nell’attesa durante la quale non c’è memoria del passato né coscienza del presente.
“Esiste un potere che vive nello spazio di mezzo, quell’attimo fuggente durante il quale qualcosa finisce e ciò che lo segue non è ancora iniziato … Un momento temporale in cui nessuna delle due fasi è ancora pienamente realizzata. Quello è l’attimo da cui traggono origine la magia e i miracoli. Nell’istante di mezzo tutte le possibilità sono valide e nessuna è stata ancora scelta … Tutti gli eventi scaturiscono da quell’attimo magico e potente … È durante quel lasso di tempo che, secondo le tradizioni di saggezza del passato, si manifesta un’apertura nella quale possono essere comprese immense verità e le preghiere riescono ad avere l’impatto più elevato. Carlos Castaneda ha definito quel varco una fenditura tra i mondi, un punto di accesso ai regni invisibili” 2.
Sono parole intrise di visioni lontane, che aprono la mente e il cuore ad un ignoto che è mettersi alla prova e provare, che è lasciarsi condurre in territori inesplorati, farsi assorbire e coinvolgere nel flusso delle cose. Si fa esperienza dell’abbandono, un sentimento che ci è concesso soltanto se abbiamo superato il timore di essere abbandonati. Si lascia spazio ad immagini fuori dal tempo, evocate dalla potenza del mito, affondate nell’ancestrale ricordo di un passato divino.
Signora del mare pescoso,
Signora della luce e del buio
Tu conosci l’antica storia del mondo
Tu racconti la vita
Tu accendi il freddo dei tramonti lunari
Tu ascolti le parole mai dette
Animali e piante baciano le tue zampe d’uccello
con devoto omaggio
Tu sei la Divina cara al cuore di donna antica
Io ti rendo omaggio
Gli antenati ci hanno trasmesso il sapere della preghiera che è una potente forma di conoscenza, di incontro con le forze che sono dentro di noi e che rappresentano il nostro legame di appartenenza al dominio della Natura.
È una preghiera che non si identifica con formule codificate, con parole preordinate, ma che fluisce dall’anima come una goccia di rugiada scivola via dalla foglia di loto arrendendosi alla gravità. La sua potenza non sta nelle parole che la compongono anche se è grande la suggestione della formularità e della ripetizione bensì nella disponibilità a credere nel loro potere salvifico, nella loro consonanza con le sillabe di una lingua nella quale la parola accetta di perdere la propria individualità per divenire tramite sonoro di quell’incantesimo del quale gli antichi ben conoscevano la magica essenza.
Una parola che cerca di oltrepassare il suo limite per poter dire del mistero che fa arrivare la voce al “grande orecchio” 3, che prende corpo fino a diventare visibile, tangibile, udibile come pura sonorità. Che sia salmodiata, ripetuta come litania, che sia grido o canto la preghiera è una tessitura di benevolenza, omaggio, devozione, fede, meraviglia e mistero, vocaboli di antica, preziosa ascendenza dai quali si prendono spesso le distanze per timore di una religiosità antiquata.
È una preghiera che zampilla come sorgente di fecondità, un’attitudine che condivide la propria etimologia con la felicità e la fertilità, una potenzialità generante che fa assomigliare il linguaggio della preghiera al “maternese” che tiene il collegamento profondo, ancestrale tra madre e neonato, una lingua fatta di suoni che attingono alla “memoria profondamente custodita nella voce umana” 4.
Una preghiera che non chiede ma contempla ovvero crea una connessione (il latino cum) con il templum, lo spazio sacro che in origine indicava una delle quattro parti nelle quali era idealmente diviso il cielo e dalle quali il sacerdote indovino riceveva gli auspici.
Una preghiera che è meditazione e medicina che hanno la stessa madre nel verbo mederi che rimanda alla capacità di guarire, di sanare, di venire in aiuto e oggi anche la scienza ha dimostrato che le emozioni e la preghiera influenzano la materia di cui è fatto il mondo. Meditare, dicono i maestri orientali, è come colare lentamente una manciata di sabbia su una superficie piatta: ogni granello trova spontaneamente il suo posto. L’ansia si placa e l’anima guarisce. Una preghiera che accetta di essere laica, di restare fuori dal tempio eppure con la fiducia di essere ascoltata e accolta dalla misericordia del sapere eterno.
A cura di Save the Words®
1 Ciro Buttari, musicista e performer
2 Gregg Braden, La scienza perduta della preghiera, Macro Edizioni, Cesena, 2006
3 Ciro Buttari
4 Id.