Io parlo all'amore. Lo scortico dall'incrosto / nel sogno e ne faccio musica storta / ne faccio delicato vento che solleva o / dondola / e impollina al cuore. Alla scomposta / mente, impollina l'occhio con l'occhio / l'occhio con l'animale e viene il bello / che ci sviva, ci sviva tutti. Di più.
(Fuoco centrale – Mariangela Gualtieri)
A volte penso che la vita ci debba modellare, e stiracchiare, stringere e poi allargare e magari sì, bruciare. Non basta studiarne, non basta sentirne dire: bisogna scendere nella “polpa” della vita, lasciarsene attraversare, mollare le remore e anche i pretesti: esserci completamente.
Arriva un momento, presto o tardi che sia, in cui finiamo anche le scuse. I “se” e i “ma” svaniscono, i “se solo se, allora” si dileguano e rimaniamo con il cerino acceso in mano. A quel punto o si butta (il cerino e forse anche la vita) o ci si brucia, vivi. Si comincia a ardere in tutti i sensi (anche fisici perché la vita è qualcosa che accalora, che pulsa, che (e) muove e quindi che produce una consistente variazione di temperatura nel corpo e nell’anima) e a perdere di vista i capisaldi che fin qui ci hanno guidati, perché quando divampa un fuoco salta l’ordine costituito.
Ho come la sensazione che a un certo punto si accenda un falò dentro. Una fiamma che sembra non avere origine né fine, come ci fosse sempre stata. Hai presente la fiamma olimpica, quella che veniva tenuta accesa per tutto il tempo delle celebrazioni? Ecco, qualcosa di simile, che non si estingue, che resta acceso, che brucia e brulica, si dimena (a volte nel petto, altre nell’anima) e crea cunicoli dentro, nuovi spazi da abitare, fessure di luce, spiragli di esistenza, possibilità dove pensavi esserci solo muri.
È potente, il fuoco. Quando divampa fa paura.
Da piccola ricordo una notte insonne spesa con i miei genitori a “veglia”. Quella notte un grosso incendio incenerì gran parte della collina in cui abitavamo e si temeva che le fiamme inghiottissero anche la casa.
Fu tremendo e ipnotico al tempo stesso. Ricordo il fascino pauroso che suscitavano in me le lingue di fuoco alte svariati metri (a me sembravano infinite, considerato che quando si è piccoli si misura il mondo da “laggiù”). Le temevo ma in un certo senso le ammiravo anche. Nel crepitio assordante del bosco che veniva raso al suolo, il fuoco si faceva spazio, padrone assoluto della scena, lasciando dietro di sé colonne di fumo e un paesaggio totalmente modificato ma anche purificato.
Ricordo infatti le prime piogge dopo l’incendio e il succedersi di alcune giornate di sole caldo che innescarono un processo di risveglio poderoso. Nel giro di poche settimane la collina si ammantò di un verde brillante, quasi accecante. Le felci, piante pioniere per eccellenza, ripresero rapidamente il controllo del terreno e iniziarono la loro preziosa opera di bonifica e di “riapertura” alla vita. Seguirono l’erika e un tappeto verde che si popolava ogni giorno di più di specie e piccoli fiori e con loro arrivarono anche le api.
Non è diverso “dentro”. Non è diverso cioè quando qualcosa divampa, esplode, reclama il suo spazio, fa tabula rasa di quanto è stato, anche in termini di credenze, abitudini, stile di vita, qualità dei pensieri. Per un po’ credi di essere morta. E forse in un certo senso muori davvero.
Di sicuro sei toccata dal fuoco.
Dentro e fuori e tutt’intorno.
Sei fuoco pure tu.
Abiti una landa non ben identificata, un interregno, un limbo di emozioni, sensazioni e pensieri che devono ancora solidificarsi dentro di te, tornare a nuova forma mentre ti scorrono come lava fusa nelle vene. Nel frattempo hai la sensazione che tutto bruci, anche nel corpo, che niente possa più tornare come era, che il fuoco ti abbia bruciato anche la voglia vivere e quella di stare in relazione e vivi il disagio profondo di sentirti senza pelle, perché le fiamme ti hanno tolto anche quella e tu non hai più barriere, ogni cosa, anche lo sfiorarti di un filo d’erba, ti brucia, ti muove, ti fa male, ti entra dentro.
Ma poi passa il tempo. Si alternano le stagioni della vita che somigliano a quelle presenti in Natura. Arrivano le piogge, come sulla collina dove abitavano i miei, e ti lavano dentro e fuori e portano nuove promesse e il ristoro dell’acqua sui terreni assetati. Con loro arrivano le piante pioniere, i primi pensieri nuovi, quelli ancora grezzi, che servono a tracciare nuovi confini, ad aprire la strada con determinazione, a rendere il terreno più soffice e di nuovo vivibile, ospitale ma con una qualità tutta nuova.
E con loro, le felci, arriva la nuova pelle. Prima uno strato sottilissimo, roseo, delicato, tenero, commovente che poi si fa man mano più spesso e resistente e capace di stare nella vita, negli urti, tra i sassi. Pian piano hai come la sensazione che si faccia concreto uno spazio nuovo, più ampio e allo stesso tempo più circoscritto. Nell’ampiezza hai la sensazione che i confini non esistano, perché lo sguardo si perde a vista d’occhio, eppure ci sono, i confini, come non mai prima perché hai una pelle nuova.
La pelle è il confine per eccellenza.
Separa il dentro dal fuori.
Permette il contatto, l’incontro e anche il sentire (a pelle, appunto) e il riconoscere.
È importante la pelle e con lei tutto ciò che contiene e allo stesso tempo unisce, trasmette, riceve, offre, protegge, delimita, apre, invita a nuove storie, specie dopo un incendio, dopo un fuoco che l’ha messa in condizione di doversi rigenerare, permettendole una nuova qualità nell’incontro. Un incontro che si fa meno mediato e più diretto, “a pelle” direi. Tutto questo accade perché i sistemi d’allarme e le vecchie barriere sono saltati e si stabilisce una nuova omeostasi del corpo e della mente, a partire da ciò che senti.
E quello che accade è che dopo un incendio senti di più, perché sei scoperta e probabilmente ti stai scoprendo in tutti i sensi. Tutto è amplificato, anche l’emozione dell’incontro, così come la paura che ti scuote come un albero. Perché entrare in relazione con l’altro equivale a prendere contatto con la sua sostanza irritabile, sentire la sua sofferenza e la sua felicità, la sua paura e il suo desiderio, godere della sua gioia e patire della sua sofferenza.
E sì, incendiarsi con lui, offrirsi a nuove fiamme. E a nuova Vita. Scorticarsi di vita, appassionarsi di vita. Una vita che ci sviva, ci sviva tutti. Di più.