Wagneriano, non wagneriano, antiwagneriano. Vediamo in breve chi sono questi signori-tipo e non occupiamocene più.
Il significato di “wagneriano” dipende dall’intonazione con la quale l’aggettivo è pronunciato e dalla mimica facciale in abbinamento. Se detto con il birignao, un inarcare di sopracciglia fra l’allusivo e il condiscendente si tratta di un sacerdote dedito al culto di Richard Wagner che manifesta sufficienza per chi non ha avuto le figlie del Reno come compagne di giochi. Il soggetto andrà tutti gli anni a Bayreuth, scomodo quartier generale bavarese che il genio prescelse per scoraggiare gli ascoltatori non motivati (difficile dargli torto a giudicare dalla villania del pubblico), spendendo cifre dissennate per vedere decine di volte lo stesso spettacolo, applaudendo qualsiasi allestimento, anche il più insultante, onorando con i salamelecchi il privilegio di essere lì. Se detto con naturalezza, “wagneriano” definisce un appassionato di Wagner, magari con punte di mania, ma privo di aloni iniziatici.
Il non wagneriano è uno che non si è ancora accostato all’opera del super compositore o non la ama alla follia, ma è scevro da fanatismi. L’antiwagneriano non è, come si potrebbe pensare, uno che si annoia a morte dopo i primi quindici minuti di un’opera che dura quattro ore, ma chi ha una posizione morale di condanna di quella che per semplicità chiameremo la cattiva reputazione di Richard che include antisemitismo (spinoso capitolo da non aprire perché porterebbe a un altro articolo, basti dire che lo sciagurato non c’entra con l’Olocausto, tanto che l’antinazista Toscanini dirigeva i suo capolavori e Daniel Barenboim li dirige perfino in Israele) e un campionario di comportamenti non edificanti, fra i quali una certa spregiudicatezza con i soldi altrui, che fanno specie soprattutto perché in contrasto con la meraviglia delle sua arte.
Ecco, adesso che di wagneriani, non wagneriani e antiwagneriani, grosso modo, ci siamo liberati, e d’altronde non se ne può prescindere tanto l’esaltazione è un bagaglio al seguito del maestro di Lipsia, parliamo di Der Ring des Nibelungen, L’anello del Nibelungo, in confidenza il Ring. Quando le quattro opere della tetralogia (Das Rheingold L’oro del Reno, Die Walküre La Valchiria, Siegfried Sigfrido e Gottardämerung Il Crepuscolo degli Dei) sono rappresentate una dopo altra, in pochi giorni, come concepite da Wagner, è sempre un’occasione straordinaria. Infischiandosene di wagneriani sussiegosi, non wagneriani prevenuti e antiwagneriani ideologici l’abbandono vigile a una delle più monumentali costruzioni della cultura occidentale è un’esperienza a sé, elettrizzante. Ogni ciclo visto e ascoltato, raggiungendo il teatro che si lancia nell’immane sforzo produttivo, provoca emozioni solo in parte descrivibili, interrogativi esistenziali spesso senza risposte e un’aspettativa interiore dilagante che nota dopo nota viene soddisfatta e insieme rinnovata. Ci si trova sprofondati nella poltrona, tesi e senza respiro, ci si trova librati in mondi inafferrabili tramortiti da tanta, possente, “altra” bellezza. Si è felici, si è affranti, si è.
Dal 13 al 18 luglio la Bayerische Staatsoper ha presentato un Ring diretto da Kent Nagano, con la regia di Andreas Kriegenburg (scene Harald B. Thor, costumi Andrea Schraad, luci Stefan Bolliger, coreografie Zenta Haerter, drammaturgia ). Quattro date solenni da tutto esaurito, posti in piedi compresi, per la celebrazione dei duecento anni dalla nascita di Wagner con un’emozione particolare: proprio nello stesso Nationaltheater di Monaco Das Rheingold debuttò in prima assoluta il 22 settembre 1869 per decisione di Ludwig II e contro il volere del compositore.
Un Ring affascinante e pensato, questo dell’Opera bavarese, che critici esigenti hanno giudicato il migliore dopo quello di riferimento di Pierre Boulez, critici che hanno amato molto anche l’entusiasmante ciclo del Met di New York del 2012. Nagano, nel fulgore della sua eleganza giapponese esaltata dall’energia della California, terra che lo ha visto nascere, ha condotto la Bayerisches Staatsorchester , di cui è direttore principale dal 2006, con una precisione, uno stile e un’incisività che non sono mai scemati, dalla prima all’ultima nota.
Kriegenburg ha sfruttato tutte le suggestioni suggerite dal libretto e si è affidato a idee intelligenti, concatenate e non sensazionali per forza nelle scene meno spettacolari, gli eterni duetti nei quali non succede “niente”, tanto che ha strabiliato davvero quando Wagner lo pretende. Il suo elemento è il fuoco, così come l’acqua fu protagonista per la Fura dels Baus in un altro memorabile Ring, quello del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Zubin Mehta. Un fuoco che scaturisce laddove meno te lo aspetti, con fiamme che incendiano l’anima. Ma il complice del regista è l’essere umano, quasi sempre in scena, soprattutto nelle prime tre opere. Decine di ballerini si sono fatti Reno, con i corpi sporcati da baffi blu e un movimento “acquatico” di immenso fascino intorno alle tre Ondine, si sono fatti drago, in un’altalena di trapezisti in rosso. Giovani e flessuosi sono diventati fusti e fronde di albero. Terra, cielo, abissi. Anche l’oro del Reno era un corpo, illuminato di arancio e di violetto.
Standing ovation per Nagano, il Wotan di Bryn Terfel la Brünnhilde di Catherine Naglestad, il Mime di Wolfgang Ablinger- Sperrhackerr, ma successo trionfale per tutti i cantanti e l’orchestra. Qualche buuu del pubblico per un’irrituale coreografia che, insieme con altre trovate, ha movimentato il dopo opera dei wagneriani, intorno ai tavoli delle rumorose birrerie bavaresi. Si sono scontrati i wagneriani filologici (frase-simbolo: questo in Wagner non c’è) e i wagneriani da teatro di regia (frase-simbolo: siete reperti archeologici). Ma di queste due categorie ci occuperemo al prossimo Ring.