“Non chiederai a una mosca com’è fatta la notte,
poiché essa vive meno d’un giorno”.(Stendhal)
Sono qui e non ho idea del perché ci sono. Del perché sono. Se cerco di ricordare non trovo niente. Tutto è così come lo vedo. Se c’era un prima non saprei dire, proprio non me lo ricordo. Cosa sia il prima mi sfugge. Prima è quello che precede di un attimo ciò che sto pensando. Nient’altro. La mia memoria non può andare più indietro di questo semplice indietro. Tutto questo è una constatazione. Concetto elementare che dovrebbe essere definito. E, forse, potrebbe esserlo se io fossi in grado di definire cosa significa elementare. Se ci provo mi viene da pensare che tutto ciò che sto pensando è elementare. E mi fermo qui perché sono arrivato in un vicolo cieco senza nemmeno sapere cos’è un vicolo cieco.
Neanche cosa sono posso definire. Quando le cose siano divenute cose non so dire perché non conosco il significato di quando. Anzi non ho nessuna idea di cosa sia il tempo in generale essendo, tutto ciò che percepisco, uguale a se stesso. Essendo privo di un prima, evidentemente sono anche privo di un dopo. Se fossi in un posto qualsiasi, diverso da questo — azzardo un’ipotesi audace — dove per esempio ci fosse qualche cosa che cambia, ogni tanto! Se ci fosse qualche minimo segno di circolarità delle cose, o anche solo un qualche …. mi viene, non so da dove, la parola “clinamen”, una deviazione, una svolta dove girare, allora potrei scegliere qualche punto di riferimento e cominciare a misurare ciò che cambia e ciò che è uguale, allora potrei affrontare questo problema. Ma, ad essere franco, in un mondo come questo non solo non si può affrontare un tale problema: non esiste il concetto stesso di problema.
Lo so perfettamente: sto facendo della filosofia e quel ch’è peggio è che non credo di avere strumenti adatti per farla, oltre al fatto empirico che sto cercando di ragionare. Forse il concetto di filosofia equivale, banalmente, al concetto di semplice. O, per meglio dire, equivale a semplicità. Quando si comincia a ragionare da zero. In fondo, mi verrebbe da dire, se esistesse la filosofia, potrebbe essere utile per cambiare le cose del mondo. Sempre che ci sia qualche cosa da cambiare.
Ma lasciatemi sbizzarrire con le mie fantasie. Non so neppure a chi le sto raccontando. Non certo a quelli che mi si pigiano attorno. Infatti qui io non sono solo, a quanto pare, e questa è una circostanza che mi mette di fronte a un baratro vertiginoso. Non perché io avverta qualche minaccia (e quale minaccia potrebbe esserci in questo mondo, dove tutto è immobile, uguale al momento che lo precede e a quello che lo segue). Un mondo dove non c’è interruzione, che funziona così bene, il fatto è che qui attorno c’è gente che non sa nemmeno che esisto e non saprebbe distinguermi da quello che sta alla mia sinistra. Poi, già i concetti di sinistra e destra sono difficilissimi perfino da concepire in un mondo dove tutto sembra senza confini. E uguale.
Se mi giro su me stesso — questo scopro di poterlo fare — il panorama resta identico. Che vi credete? Che la destra sia diversa dalla sinistra? Del resto come potrebbero avere idee di destra e di sinistra questi qui attorno? Sono tutti tremendamente uguali. E quando uno non ha idee, come sembrano tutti costoro, come può essere di destra o di sinistra? E non solo: ti ignorano. Nessuno ti guarda mai negli occhi. Che poi sono come dei frammenti di vetro opaco. Occhi che, a voler essere generosi, li si definirebbe sfuggenti. Ma sfuggenti a che cosa? Faccio paura? O, forse, sono talmente insignificante, che non vale la pena guardarmi, cercare un contatto. Infatti sono occhi spenti, o forse soltanto distratti. Ma da che cosa non si capisce. Da che cosa si può essere distratti se ogni cosa è sempre uguale a se stessa? Più probabile che siano annoiati, o semplicemente stupidi.
E non mi è nemmeno del tutto chiaro quali siano gli occhi miei, con i quali li guardo. Ne ho due, scommetto, come quelli degli altri. Ma è solo una scommessa perché non posso guardare i miei occhi. In nessun modo, e dunque non posso contarli. Diciamo che è un postulato, del quale sono costretto a fidarmi. Potrei avere una risposta chiedendo a questo qui che mi sta vicino quanti sono i miei occhi. Ma potrei farlo solo se avessi un qualche cosa per dirglielo e se lui avesse qualche cosa per ascoltarmi e rispondermi. E entrambe queste caratteristiche sono assenti. Almeno questa è la mia impressione. Dunque finirò per accettare il postulato dei due occhi anche per me. Due vuol dire uno più uno. Se ne avessero tre non saprei neppure come definirli. Mi occorrerebbe saper fare una vera operazione aritmetica, ma non mi risulta di conoscere l’aritmetica. Per cui è una fortuna che loro ne abbiano due, di occhi. E che anch’io ne abbia due. È simmetrico, tranquillizzante. Comunque io vedo, anche se non ho mai visto i miei occhi. Per la verità io, di me, posso vedere solo la mia pancia e quelle due propaggini in basso che toccano terra. Chiamiamoli, per comodità, i miei piedi. Il resto me lo posso soltanto immaginare guardando questi insipidi vicini che, presumo, sono uguali a me.
Sono bello o brutto? Neanche questo posso dire, perché — rieccomi con la filosofia — credo che per dire una cosa del genere occorra avere un punto di riferimento. Una qualche forma di paragone. E io non ce l’ho. Ciò che non c’è darebbe senso a ciò che c’è, ma come faccio a valutare ciò che c’è senza sapere ciò che non c’è? Dunque, confesso, sono un tantino confuso. Dovrei inventarmi un vocabolario di parole, ma anche di concetti. Insomma mi mancano le basi. Tra l’altro ho l’impressione che le basi manchino anche a tutti quelli che mi stanno intorno. Il che non è consolante. Inventerei un proverbio se avessi un’idea di cosa possa essere un proverbio. Comunque eccolo: mal comune, mezzo gaudio. Oppure: bene comune, mezza infelicità. Mi pare che rendano bene l’idea.
Anche sull’idea di “io” ci sarebbe da riflettere. Chi mi dice che io sono io? Nessuno. Quello che vedo è un mare di oggetti che si muovono. Diciamo che sono esseri viventi, così, forse, ci capiamo. Tutti uguali. Io anche mi muovo, esattamente come loro, in uno spazio angusto che mi contiene tutto. Un centimetro più in là c’è un altro essere, distinto da me, ma uguale a tutti gli altri “me”. Non chiedetemi cosa vuol dire centimetro. È una parola che ho inventato in questo momento, per far capire che lo spazio è poco. Se lo spazio fosse tanto potrei usare la parola chilometro, così, tanto per dire. Sto inventando un vocabolario senza sapere ancora cos’è un vocabolario. Anche la parola spazio l’ho inventata in questo istante, per indicare dove ho poggiate le mie estremità. Dunque, riprendendo il ragionamento, cos’è l’“io”? Sono io un io? Sono un individuo? È possibile. Potrei dedurlo dalla circostanza che ho dei pensieri. Sto pensando, questo è certo, anche se l’idea di pensiero è molto difficile da mettere a fuoco. Concludere che: penso, dunque sono, mi sembra azzardato. Che vuol dire? Questi, qui attorno, magari, pensano tutti di pensare. Ma, per questo, possono dire di esistere? Con quegli occhi un po’ così, senza luce, senza barlumi di interesse? Come si fa a esistere se non ci si pone qualche domanda? Se qualcuno affermasse risolutamente che penso, quindi sono, commetterebbe un errore. Pensare non è sufficiente, se non implica una domanda. Pensare senza domande non significa essere: al più significa molta presunzione. Infatti pensare senza porsi domande significa fare una serie di affermazioni. E basta. Ve lo immaginereste un mondo di coglioni presuntuosi che pronunciano solo affermazioni?
Voi direte, ma che diavolo di ragionamenti fa costui, senza sapere né cos’è un ragionamento né cos’è il diavolo? Infatti, è vero, io non so né l’una cosa né l’altra. Banalmente invento. Dunque sarebbe più giusto dire “invento, quindi sono”. Sempre che io possa spiegare, innanzitutto a me stesso, cosa vuol dire inventare. Magari da qualche parte, qua dentro, c’è qualcun altro che è arrivato a queste conclusioni. Ma come si fa a saperlo, visto che questi qui non comunicano niente e, per giunta, io stesso non sono in grado di comunicare con loro? Forse la conclusione più giusta potrebbe essere: comunico, quindi sono. Dunque, poiché non comunico, allora non sono. Infatti si potrebbe immaginare l’esistenza di un mondo in cui tutti pensano di esistere in quanto comunicano qualche cosa — non importa cosa — agli altri. Ma tutto diventa così complicato che mi sembra di affogare nei pensieri.
Per esempio ve ne dico uno, che mi è balenato da qualche parte. E se qualcosa di esterno a tutti noi, a me e a questi sgorbi che presumo mi somiglino, arrivasse e ci consentisse di comunicare tra di noi? Che so, magari un cervello comune, una nuvola, un agglomerato, uno spazio dove ciascuno possa dire quello che pensa e, addirittura, lasciare una traccia indelebile di quello che pensa, allora che succederebbe? Temo che sarebbe una tale cacofonia da fare impazzire anche il più potente dei cervelli. Lasciamo stare la cacofonia, che non so cosa sia. Diciamo, più semplicemente, che ci vorrebbe un regolatore dei pensieri. Una specie di semaforo (ma come mi vengono in mente queste parole?) per regolare i pensieri di tutti. Per stabilire, che so?, una precedenza. Del tipo: il pensiero & è più importante del pensiero B e, quindi, ha la precedenza. Oppure: il pensiero C è più bello del pensiero $. Ma temo che tutti vorrebbero esprimersi contemporaneamente. Ve l’immaginate una situazione in cui gli scemi hanno la precedenza sugl’intelligenti? Sempre che, naturalmente, qualcuno spieghi, agli uni e agli altri, cosa significa essere intelligenti e cosa significa essere scemi. Cosa che vorrei sapere anch’io.
Forse sarà bene tornare alle cose più semplici. Ripartiamo dalla banalità. Niente male, direi. Dunque prendiamo per buono il: penso, dunque sono. Ma dopo, come si procede? E dove si va? Questo già non lo saprei dire. E, dalla faccia ebete di quelli che mi stanno attorno, dedurrei che non stanno pensando proprio a niente. Quindi io sono diverso da loro, anche se non ne ho la prova. Magari anche loro pensano, come me, e lo fanno nel chiuso della loro individualità, senza trasmettere niente all’esterno. Infatti neanche io trasmetto niente a loro. Il ragionamento si chiude qui. Dovrei parlare con questo individuo sulla mia destra, che è girato dall’altra parte. Ma, come ho già detto prima (quando non me lo ricordo) non saprei come chiederglielo. In più costui proprio non si volta ma, piegato com’è sui suoi tubicini. E poi non ho una lingua per parlare né un linguaggio. Sebbene , come vi dirò tra poco, una bocca ce l’ho.
Evidentemente non siamo fatti per comunicare tra di noi. Un vero peccato. Tanta, ipotetica, produzione intellettuale sprecata per mancanza di comunicazione. Resta il fatto che siamo qui. Ma, a tratti, mi viene il sospetto che io e tutti quelli che vedo siano parte di un organismo più vasto, che comprende tutti, mentre lascia loro l’impressione di essere individui singoli. Difficile dire. A me piace di più pensare di essere singolo. Ma è questione di gusti. Se decidessi infine di darmi alla filosofia, userei il termine relativismo per definire questo sentimento. Ma poi non saprei spiegare cosa significhi questo pensiero, quindi non lo userò più.
Ciò detto, posso guardare le mie estremità, che poggiano a terra e che sono anch’esse identiche a quelle dei miei vicini. Sono sempre identiche a se stesse anche le estremità. Ma le dimensioni di tutti noi ho idea che crescano. Per lo meno ho l’impressione di ricordare che tutti quelli che mi stanno attorno, qualche tempo fa erano più piccoli. Adesso mi paiono più grandi, se non ricordo male. Deduco che anch’io devo essere diventato più grande. È un’ipotesi suggestiva su cui varrebbe la pena di riflettere. Perché, se fosse vera, allora vorrebbe dire che in questo mondo c’è qualche cosa che cambia. In una sola direzione: dal più piccolo al più grande. Ma della validità di questa legge non si può essere certi. Quello che vedo io cresce, ma che succede un po’ più in là? Chi mi dice che più in là non valga la legge opposta, cioè dal più grande al più piccolo? Insomma si vive nell’incertezza su un sacco di questioni, sebbene questo mondo sembri essere stato concepito per realizzare un ordine assoluto, quindi la certezza totale. L’Ordine è la legge. E la legge dell’Ordine produce incertezza. C’è qualche cosa che non quadra.
No, non è vero. Se c’è un posto tranquillo, sicuro, costante, quieto, è questo. Solo quelli come me (sempre che ce ne siano altri) che si occupano di filosofia, provano il senso dell’incertezza. Deriva dalla curiosità. Se le domande che costoro si pongono li mettono nell’incertezza, è tutta colpa loro. A me piace così. Ah! Dimenticavo di rilevare che siamo in tanti, tantissimi. Non ho idea di come dirlo, ma, se alzo un po’ gli occhi, non vedo che gli stessi corpi, tutti uguali, a perdita d’occhio. E così è sempre stato, a mia memoria. Così, dunque, sempre sarà. Vorrei perfino aggiungere, di nuovo, accidenti alla filosofia, che non sono proprio sicuro che gli altri siano altra cosa rispetto a me. Sono così vicini, tutti così uguali, tutti dello stesso colore, tutti assolutamente presi dai loro affari al punto che non riesco nemmeno a incontrare i loro occhi vuoti, da farmi pensare che io sono loro. Certo io sono come loro. Infatti mi trovo qui, a fare, o a non fare, quello che loro fanno, o non fanno. Vai a capire. Mi verrebbe da dire che c’è una uguaglianza assoluta. Esterna, quella che si vede. Ma potrebbe anche essere interna. Come dire che quello che penso io lo stanno pensando tutti, oppure l’hanno già pensato, o lo penseranno.
Ecco, se sapessi scrivere, mi verrebbe da scrivere (cioè da mettere in qualche posto, in una qualche forma, dove poter ritrovare intatto quello che ho compilato), una ipotesi, un racconto. Per esempio l’idea che tutto quello che uno o una, o un altro che non è uguale né all’uno né all’una (ma questo è un discorso così complicato che mi viene male alla testa a pensarci) abbia pensato o possa pensare, sia già stato pensato da qualche parte, in qualche mondo. E che dunque i miei pensieri siano nient’altro che una ripetizione. Cioè che non ci sia niente da inventare perché è già stato inventato. Mi farebbe tristezza, il pensarlo, senonché non saprei dire con precisione cosa sia la tristezza in un mondo senza gioia. Peggio ancora in un mondo dove non si sa cosa sia la tristezza a la gioia, visto che non c’è niente che possa mutare l’immutabile. E la sola idea di mutamento sarebbe la condizione per provare o l’una o l’altra, anzi l’una e l’altra. Ma — lo capirebbe anche il mio stupido vicino davanti — questo non ha nulla a che fare con questo mondo atarassico. Adesso vai a spiegare da dove viene una parola come questa.
Da dove vengono le parole? Ecco un interessante campo di ricerca. Vuoi vedere che anche le parole sono già state tutte pensate? Non solo. Potrebbero essere pensate (non so come potrei pronunciarle, ma a pensarle ci arrivo) in un ordine e in una successione di frequenze perfettamente definita. Starebbe in sintonia con un mondo dove non succede niente che non sia già accaduto. Perché non pensarlo? Anche questo pensiero, infatti potrebbe essere antico e immobile come tutto il resto. Non ci sarebbero scoperte. Non ci sarebbero intelligentoni che inventano qualche cosa e ai quali qualcuno di questi idioti che mi circondano potrebbe pensare di dare un premio. E magari scopriremmo che la parola magari, come la parola idiota, ricorre nei pensieri di ciascuno di questi idioti con una certa, inevitabile frequenza. Sempre che pensino.
Anche questo sarebbe in perfetta sintonia con il mondo di idioti con cui non riesco a comunicare. Ma questo mi apre un problema: io, in una tale ipotesi, sarei un’eccezione. Cioè sarei il disordine. Sarei inspiegabile, insostenibile. Forse tutto deriva dalla mia mostruosa anomalia. Della quale mi sento in qualche modo colpevole. Sto turbando l’universo. Seguendo l’ordine immutabile delle cose che qui vedo, dovrei essere eliminato al più presto. Ma che significa al più presto e che significa l’idea che un ordine immutabile abbia bisogno di fare presto per fare qualche cosa? A proposito, direi che sarebbe utile trovargli un nome. Diciamo Provvidenza, così ci capiamo. O, meglio, così mi capisco io stesso visto che non saprei con chi confrontare quello che penso.
Poiché sono un inguaribile ottimista, penso anche che potrebbe esserci una qualche possibilità di mettere in comunicazione istantanea tutti questi idioti. Pensa un po’, una specie di cervello collettivo, al quale tutti possano attingere. Così l’intelligenza di qualcuno, per esempio la mia, potrebbe compensare l’idiozia di un altro. E così via. Bene o male qualche cosa di buono potrebbe venirne fuori, ma — a pensarci bene — potrebbe venire fuori anche qualche cosa di cattivo. Per esempio se uno di questi idioti si trovasse, per un qualche motivo ignoto, in condizione di trasmettere la sua idiozia a molti altri. In tal caso costui squilibrerebbe il sistema e assumerebbe un potere inammissibile in un mondo ben ordinato. E, a quel punto, la Provvidenza avrebbe il suo bel da fare a riportare l’ordine. Meglio non provarci nemmeno.
Certo che è un mondo strapieno di gente. Letteralmente uno accanto all’altro. No, non volevo dire uno sopra l’altro. Questo è vietato, ed è anche impossibile. Che ci farei io sopra un altro, o un’altra, o uno che non è né un altro né un’altra? Tanto peggio se io fossi sotto. Ma non c’è nessuna comunicazione tra me e gli altri, e — a quanto vedo nelle mie immediate vicinanze — tra ogni altro e tutti gli altri. Nel mio modesto vocabolario non dovrebbe esserci la parola egoismo. Infatti non c’è. Ma, se ci fosse, direi che è un mondo di egoisti, dove io sarei un’eccezione assoluta. Per il semplice fatto che sono curioso, e la curiosità è una forma di altruismo. Ma neanche questo è dimostrabile. Magari a qualche saltello da qui ce n’è un altro che pensa le stesse cose che penso io. Il problema è che non c’è lo spazio per muoversi. E poi ci sono i tubicini qui vicino, che non sarei sicuro di ritrovare, nel caso mi si presentasse uno spiraglio per spostarmi. E una cosa che sono certo di avere capito è che questi tubicini sono essenziali, fondamentali. Sono la Provvidenza imperscrutabile.
La temperatura è, direi, buona. Chi ha pensato a questo mondo aveva idee tranquille: niente sbalzi, tutto fila liscio. Starei per dire da mattino a sera, se ci fosse un mattino e una sera. Che non c’è. E non saprei neppure da dove mi è venuta fuori questa idea: di una qualche variazione ciclica. Qualcosa di veramente orribile.
Forse mi è stata ispirata dal fatto che il cibo arriva, attraverso questi tubicini, a singhiozzo. È però una intermittenza certa, che non viene mai smentita. Non è, per così dire, un evento ciclico (ma dove mi vengono queste parole?). Comunque questa benedetta intermittenza non è stata mai smentita fino ad ora, salvo un caso così eccezionale da produrre in me un panico irrefrenabile. In quel caso il panico fu generale, come è generale tutto ciò che accade in questo mondo. Anche il panico, dunque, fu generale, ma si spense quasi subito. Ecco, si potrebbe dire che qui tutto è davvero generale, valido per tutti. È davvero piacevole sentire che siamo tutti sulla stessa barca. Cosa sia una barca non saprei, ma mi è venuta questa espressione di solidarietà. Strano anche perché non so cosa significhi solidarietà. E tutti quelli che mi stanno attorno non hanno nessuna idea di solidarietà. Infatti mangiano subito tutto quello che arriva dal tubicino che sta nel loro minuscolo territorio. Anzi mangiano e bevono, perché c’è anche un altro condotto dal quale non esce cibo solido, ma liquido. Lo chiamerò acqua.
Direi che sia il cibo che l’acqua non sono male. MI piacciono, anche se l’idea del piacere è strana. Uno potrebbe dire che una cosa gli piace se avesse una possibilità di scegliere un’altra cosa, che poi gli piace meno, o di più. Ma questa cosa qui, in questo mondo in cui mi trovo, non esiste proprio. Dai tubicini viene fuori la stessa cosa. Sempre, a intermittenza fissa. Appunto la Provvidenza. Da quello che vedo sta bene così a tutti. È la natura di questo mondo che è fatta così. Tutto è in regola. L’unica cosa che davvero mi colpisce è che, a quanto pare, anch’io sto diventando più grosso. Ma siccome non posso misurarmi, non mi resta che guardare gli altri e concludere che così vanno le cose del mondo. Si cresce di dimensione, ma restando uguali.