Un vecchio cavalca un bue, accompagnato da un ragazzo, su per montagne scoscese e deserte. Portano con sé poche provviste e qualche coperta. Si lasciano alla spalle un regno con una cultura raffinata, una città popolosa e campagne fertili e vanno verso occidente, verso steppe abitate solo da tribù di barbari. In cima al monte c'è un passo, l'ultimo confine del regno. Seduto all'ombra di un pino, un unico soldato sta a guardia del passo. È un povero militare, l'uniforme logora, i piedi nudi. Fedele alla consegna, ferma i viaggiatori, chiedendo la loro identità e la meta del loro viaggio. Ma meta questi due non ne hanno. E chi è questo vecchio che sembra di nobile lignaggio e in tarda età si avventura in un viaggio tanto faticoso? Il vecchio, dice il ragazzo, "insegnava". "E cosa insegnava?" chiede il soldato. "Oh," dice il ragazzo, "strane cose. Parlava dell'acqua che, pur essendo la sostanza più morbida, erode le rocce più dure. Insegnava che il morbido e il flessibile sono in grado di sopraffare il duro e il rigido."
Il ragazzo tira la cavezza del bue. È ansioso di ripartire, perché si sta facendo sera e i due viaggiatori hanno ancora un buon tratto di cammino da fare. Ma il soldato ora è incuriosito. " Cos'è questa faccenda dell'acqua?"
Il vecchio lo guarda tra le palpebre socchiuse: "Vuoi sapere?" "Io conto ben poco," dice il soldato, "ma questa idea che il morbido e il flessibile vincono il duro e il rigido mi sembra importante. Perché non vi fermate qui questa notte e ne parliamo un poco? La mia capanna è modesta, ma si sta bene al riparo dal vento e accanto al fuoco."
La curiosità è sincera e il consiglio sensato. Non si rifiuta un insegnamento a chi lo chiede in maniera tanto cortese. E al bue non dispiacerà il riposo e l'erba fresca del monte. Il vecchio a fatica smonta dalla sua cavalcatura.
Restano con il soldato quella notte e un'altra e un'altra ancora. Il soldato ha chiesto al vecchio di lasciargli qualcosa di scritto di queste strane cose che insegna e il vecchio ha acconsentito. Non lo aveva mai fatto, nei lunghi anni trascorsi nella capitale. Ma ora, di fronte alla richiesta di quest'uomo semplice, che appena sa leggere, stranamente, senza neppure pensarci, ha dettò sì. Perciò, seduto sotto il pino, trascorre le giornate scrivendo.
I giorni passano in tranquilla semplicità. I contrabbandieri si stupiscono che il guardiano del passo sia divenuto tanto indifferente ai loro andirivieni. Il settimo giorno il vecchio consegna il manoscritto al soldato. I viaggiatori prendono congedo, ringraziano dell'ospitalità, il ragazzo aiuta il vecchio a risalire in groppa. al bue e si rimettono in cammino. Scompaiono in lontananza sul sentiero tortuoso.
Questa è una libera versione di una poesia di Bertolt Brecht (1). La poesia è intitolata "Leggenda dell'origine del libro Tao Te Ching sul cammino di Lao Tzu verso l'esilio" ed è a sua volta una libera versione di una leggenda tramandataci da Sima Qian, il primo grande storico cinese. In verità non sappiamo neppure se Lao Tzu sia veramente esistito. Ma la leggenda trasmette un messaggio importante e profondo.
"Il Tao di cui si può parlare non è l'eterno Tao": così comincia il manoscritto che il vecchio consegna al soldato prima di allontanarsi per sempre dal suo mondo. La parola tao significa in primo luogo 'via, strada, cammino', e in senso figurato 'via da seguire, principio guida, norma, dottrina, metodo'. Quindi per estensione anche 'dire, parlare, insegnare, esprimere'. La frase cinese è interessante e merita di essere esaminata un po' più in dettaglio. Il cinese classico non ha articoli, non ha singolare o plurale, non distingue sostantivi e verbi. Una traduzione letterale della frase potrebbe perciò essere qualcosa come: "tao possibile dire/insegnare/comunicare non costante/eterno tao".
A un primo livello possiamo leggerla come: "ogni dottrina che è possibile insegnare, trasmettere o comunicare non è una dottrina costante o eterna", "ogni principio guida o norma che si possa enunciare non è una norma costante o eterna".
Contiene dunque una radicale critica del linguaggio, non dissimile da quella che caratterizza il pensiero postmoderno: ogni dottrina, ogni enunciazione che pretende di avere un valore di verità, ogni norma che pretende di dirigere la condotta, ha un valore unicamente relativo e incostante. Dipende dal punto di vista e dagli interessi di chi parla. Più in generale, tutte le nostre teorie intorno alla realtà sono relative. Sono, secondo la bella metafora del matematico Korzybski, delle mappe: e una mappa non equivale al territorio. La realtà, il territorio, è eternamente al di là di tutte le nostre rappresentazioni.
Ma se i taoisti e i postmoderni condividono lo stesso scetticismo nei confronti del linguaggio (e della razionalità), le conseguenze che ne traggono sono assai diverse. Se il linguaggio è incapace di contenere la realtà, la mossa dei pensatori postmoderni consiste nel lasciare andare la realtà. Abbandonano la nozione di una realtà oggettiva e universale e si concentrano unicamente sul linguaggio come creatore di realtà relative, di mappe intersoggettivamente condivise, e quindi di mondi sociali.
I taoisti fanno la scelta opposta. Se il linguaggio è incapace di contenere la realtà, essi sono pronti a lasciare andare il linguaggio. Il loro interesse è tutto concentrato su ciò che è al di là del linguaggio, sull'incomunicabile. Il tao degli esseri umani può essere incostante e inaffidabile, ma il Tao della natura, il Tao del mondo, il Tao dell'essere (e del non-essere, del vuoto) semplicemente è. Essi attribuiscono quindi un nuovo significato alla parola tao: è il significato che indico con l'iniziale maiuscola (che in cinese non esiste): Tao. Beninteso è un significato paradossale, perché vuole indicare l'indicibile, ciò che è al di là di ogni discorso, e perciò si nega nel momento stesso in cui viene enunciato. È qualcosa a cui si può solo alludere, un dito che indica la luna: è, soprattutto, un invito a un viaggio esperienziale, a una trasformazione esistenziale.
In questo senso perciò dobbiamo capire la leggenda riguardante le origini del Tao Te Ching. Secondo la leggenda Lao Tzu durante tutta la sua vita non avrebbe mai scritto nulla. Sima Qian ce lo descrive come "intento a cancellare ogni traccia personale di sé". Come poteva scrivere, se in realtà la sola cosa di cui vale la pena di parlare è indicibile? Wittgenstein conclude il suo Tractatus-Logico-Philosophicus con le parole: "Di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere" (2) . Coerente con se stesso e con Wittgenstein, per ottant'anni Lao Tzu (il cui nome significa 'vecchio maestro') ha taciuto. Ma su quel passo di montagna, in cammino verso il volontario esilio, avviene un miracolo. Lo stesso si racconta di Gautama Buddha.
Improvvisamente, quando meno se lo aspetta, dopo aver abbandonato come futili tutte le pratiche ascetiche, mentre sta bevendo una tazza di latte, gli si spalancano i cieli. Coglie lo splendore della realtà e la sua identificazione con il suo corpo, con il suo io si dissolve come neve al sole. È uno con l'oceano dell'esistenza. E, naturalmente, vorrebbe condividere con tutti questa realizzazione, che appartiene di diritto a tutti, che è la meta del viaggio di ogni forma di coscienza, di ogni essere senziente. Ma come fare? Le parole sono di gran lunga insufficienti. Ogni descrizione della sua esperienza tradisce la realtà che vuol descrivere. È preso da un moto di sconforto, da un senso di impotenza.
Ma anche per lui avviene il miracolo. La nube gonfia di pioggia incontra la terra assetata. La sincera richiesta del soldato scioglie la riserva di Lao Tzu. La compassione per la sofferenza degli esseri senzienti scioglie la riserva di Buddha. Entrambi assumono la sfida di dire l'indicibile. Coscienti del pericolo (della certezza!) che le parole, come ossa calcinate, tradiranno un giorno l'esperienza vivente. Che la gente scambierà il dito per la luna e, ipnotizzata dal dito, dimenticherà la luna. Ma, ritiene Lao Tzu, nel momento in cui si accetta di servirsi delle parole, è giusto mettere in guardia il lettore fin dall'inizio:
"Il Dao di cui si può parlare non è l'eterno Dao".
(1) Bertolt Brecht, "Legende von der Entstehung des Buches Taoteking auf den Weg des Laotse in die Emigration", Werke, Frankfurt, 1988, XII, 33.
(2) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi Editore, Torino, 1964, p. 82.
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