Nella storia della musica, Gioachino Rossini (1792-1868) viene in genere identificato come il primo dei maggiori compositori italiani dell’opera romantica, insieme a Donizetti, Bellini, Verdi e Puccini. Ed è certamente vero che il “Cigno di Pesaro”, come veniva definito, appartiene temporalmente al primo periodo romantico e che molte delle sue opere sono nello stile del Bel Canto che rese famosa l’opera italiana nel mondo.
Ora, il 150° anniversario della sua morte offre l’occasione di soffermarsi a riflettere ancora su alcuni aspetti del profilo artistico-culturale del grande compositore. La principale fonte di ispirazione di Rossini furono i compositori classici della fine del Settecento: egli stesso, riconosceva come suoi maestri Cimarosa e Paisiello. E si sa che l’opera più famosa di quest'ultimo era Il Barbiere di Siviglia. Rossini ne fu influenzato al punto che prese il libretto e vi compose sopra nuova musica. Il debutto, malissimo organizzato, fu un fiasco ma, tempo una settimana, il successo fu travolgente, facendone una delle opere più popolari di sempre; oggi del povero Barbiere di Paisiello quasi nessuno si ricorda più.
Attraverso le opere di Rossini e quelle dei suoi seguaci e imitatori, lo stile “rossiniano” dominò l'opera italiana nella prima metà del XIX secolo. Ma che cos’è lo stile “rossiniano”?
“Melodia semplice, ritmo chiaro” era la parola d’ordine compositiva di Rossini. La musica di Rossini è fatta soprattutto di moto, di ritmo, di brio. Persino nei momenti musicali più tristi e malinconici, si sente qualcosa di impetuoso, una energia vitale che viene trattenuta a fatica. A questo si aggiunse il suo caratteristico uso del crescendo, la ripetizione di alcune battute in cui si inseriscono via via nuove sezioni orchestrali, con l'aumento progressivo dell'intensità del suono: una tecnica che era stata sviluppata dai musicisti della Scuola napoletana, e che ha in lui il massimo interprete.
Di Semiramide, l’ultima opera che compose per i teatri italiani, il musicologo Rodolfo Celletti ha scritto: “Fu l'ultima opera della grande tradizione barocca: la più bella, la più fantasiosa, forse la più completa; ma anche, irrimediabilmente, l'ultima”. Neanche nella sua ultima opera, Guglielmo Tell, sebbene l’ambientazione naturalistica e la struttura musicale mostrino tratti di preromanticismo, Rossini si è adeguato al nuovo spirito romantico. La sua forma mentis scettica e razionalistica rifiutava i temi cupi e il patetismo esasperato tipici dei romantici.
Il compositore è vissuto sul crinale tra due ere, ma rimane soprattutto un uomo del Secolo dei Lumi. Del resto è ciò che confessò a Wagner, quando questi andò a fargli visita: “In fondo, appartenevo al mio tempo". Si definiva l’ultimo dei classici; aveva una concezione di matrice illuministica, secondo cui lo scopo della musica è il diletto. Sebbene sia nato dopo la morte di Mozart, sembra un compositore precedente a lui. Richiede meno concentrazione, è meno consapevole, nient’affatto problematico, più ludico.
Rossini porta nell’Ottocento il gusto, la civiltà del Settecento; un universo musicale concentrico, tolemaico, circolare, che si muove intorno ad un centro tonale fisso, esplorandone le innumerevoli possibilità compositive ed espressive, mai rinunciando alla grazia, al decoro, al divertimento di una musica compiaciuta di sé.
Quello del “Cigno di Pesaro” fu insomma il canto del cigno dell’opera settecentesca. Forse per questo, sentendosi in dissonanza (è il caso di dire) con i suoi contemporanei, nel 1829, all'apice della sua carriera, il compositore trentasettenne si ritirò. Fino a quando aveva potuto, già nel pieno dell’epoca romantica, Rossini aveva esercitato il gioco sublime della costruzione musicale barocca e poi classica, ovvero della musica che si autocelebra e non ha dubbi sulla propria identità, come aveva invece già cominciato ad avere con Mozart.
Problemi di identità, ma anche di adeguatezza del sistema tonale e di come esprimere l’inesprimibile, che saranno tra i tratti distintivi della musica romantica, a cominciare da Beethoven, e che poi porteranno alle crisi, agli sconvolgimenti, alle innovazioni, alle “distruzioni creative” che sono al centro della ricerca musicale ormai da due secoli. E dunque, lo scettico Rossini, l’inguaribile epicureo illuminista che cosa poteva avere a che fare con tutto questo?