Una storia d'arte e d'amicizia, Sguardi Randagi, pubblicato da poche settimane per Rizzoli, è la cronistoria fedele del ventennio di totale fiducia che Fabrizio De André ha concesso a Guido Harari, nome imprescindibile della fotografia in musica internazionale, nato a Milano ma ora residente nelle più tranquille Langhe (“un posto perfetto per raccogliersi, pensare e ripartire”), dove ha allestito un bellissimo spazio espositivo per riconnettersi con l'emozione visuale della musica, che trova il suo olimpo in questa galleria di ritratti che partono dallo storico tour con la Pfm nel 1978, fino ai suoi ultimi giorni terreni.
Un punto definitivo di un percorso iniziato nel 2009, con l'omonima mostra sollecitata dal Banco Popolare di Lodi per i suoi spazi espositivi di Lodi e Genova. "Ma lì - ribadisce Harari - c’era troppa sovraesposizione dovuta, oltre che ai miei libri Una goccia di splendore ed Evaporati in una nuvola rock (con Franz Di Cioccio), alla grande mostra di Palazzo Ducale a Genova, da me curata insieme a Studio Azzurro. A dieci anni di distanza mi ha preso di nuovo la voglia di raccontare il diario personale del mio rapporto con De André. Da anni, anche attraverso Wall Of Sound Gallery e Wall Of Sound Editions (la galleria/casa editrice che ho aperto ad Alba nel 2011), ho cominciato a selezionare e valorizzare con libri e mostre le mie foto del cuore.
Si è evoluto il suo ricordo a distanza di tempo?....quanti De André ha conosciuto e chi era veramente per lei?
De André era sempre se stesso, in scena e fuori scena. Non c’erano finzioni o maschere. I ricordi sono legati soprattutto alle foto, a come abbiamo vissuto il tempo insieme, tra chiacchiere, risate e poi anche mettendo mano alla macchina fotografica. Mai nulla di precostituito. “Sentivamo” il momento. Un rapporto di rara autenticità.
Nonostante la sua grandezza siderale Faber non è mai stato troppo indulgente con se stesso, una volta ha persino dichiarato quanto segue "Appena esce un disco, avrei voglia di distruggerlo, mi sembra inutile, sorpassato..." cosa avvenne invece con la fotografia?
Mi invitava magari in Sardegna, all’Agnata, e mi accoglieva spiazzandomi: “Lasciamo perdere, tanto scelgono sempre quelle sbagliate”. Non amava farsi fotografare, ma si lasciava guardare volentieri. Sono stato tanto con lui, ma sempre troppo poco. Provavo un timore reverenziale, mi sentivo inadeguato e restavo in ascolto. La musica e la parola erano le vere passioni, che coltivava soprattutto in solitudine, di notte. La fotografia era un rituale da sopportare e poco di più.
L'anno scorso abbiamo visto il suo biopic realizzato con la supervisione della Ghezzi, nonostante tutto Principe Libero ha suscitato più di una polemica, secondo lei è stato realizzato un buon lavoro?
Non amo guardare i biopic di artisti che ho conosciuto. La materia viene riplasmata secondo le esigenze del format. Ho apprezzato tantissimo i due documentari dedicati da Scorsese a Bob Dylan e George Harrison, ovvero No Direction Home e Living In The Material World, proprio perché basati su documenti autentici, filmati privati, ecc. Purtroppo su Fabrizio esiste poco in video, soprattutto che non sia in concerto. E dunque il biopic era un passaggio obbligato. Purtroppo per privilegiare il ritratto dell’uomo, si è smarrito per strada quello dell’artista, che poi non è così scontato per il pubblico più giovane.
Lei è riconosciuto come un Maestro della fotografia, come procede abitualmente: si immagina quello che poi andrà a immortalare, si lascia ispirare dal momento preciso o che altro? Cosa rende una fotografia perfetta e come la si può rendere "sonante"? Chi sono stati a loro volta i suoi Maestri?
Le mie fonti d’ispirazione sono stati Art Kane, Jim Marshall, la prima Annie Leibovitz, Irving Penn, Arnold Newman, per citarne alcuni. Nella fotografia l’autore deve potere riconoscere il guizzo di un momento unico, il racconto di un incontro. Non esiste una foto “perfetta”. Esiste una fotografia che ti parla, che ti risucchia in quel momento particolare che l’autore è riuscito a cogliere e condividere. Per affrontare un ritratto, ci si documenta, certo, ma occorre lasciare spazio all’improvvisazione, alla sorpresa. Occorre stare in allerta per fissare qualcosa che non può essere premeditato.
Quando ha capito che questa sarebbe stata la sua strada e qual è stata la sua più grande soddisfazione in questo ambito, oltre ovviamente a godere della stima di grandi artisti come Joni Mitchell, Kate Bush, Lou Reed, Bob Dylan e Tom Waits? Mi dà un aggettivo per ognuno di loro?
L’ho capito quando ho visto una copertina di Rolling Stone del 1971, con un ritratto molto diretto di John Lennon scattato da una giovanissima Annie Leibovitz. Quello sguardo de-costruiva il mito e mostrava l’uomo. La mia ricerca è stata proprio quella di rimuovere le maschere, il più possibile, e mostrare autenticità. Gli artisti che menzioni li ho sempre ammirati, ma ho scelto di viverli e coglierli nel momento che stavamo condividendo, non riferendoli al loro glorioso passato. Sono artisti semplicemente unici che fanno categoria a se.
Qual è lo scatto che non ha mai fatto?
Tanti, quando ho capito di dover privilegiare il rapporto col personaggio e lasciar perdere la macchina fotografica. È successo con Lou Reed, con Fabrizio e qualcun altro. Ho preferito vivere piuttosto che fotografare.
La sua attrezzatura di base oggi qual è ? Ha conservato tutte le sue macchine? Qual è quella a cui lei è maggiormente legato?
Ho ancora tutti i miei corredi analogici, dal 35mm al medio formato. Non ho nostalgie, ma se devo scegliere, opterei per la vecchia Zeiss Ikon a soffietto che ho cominciato a maneggiare da bambino. Quell’oggetto di altri tempi davvero sollecitava l’immaginazione. Tutta manuale, richiedeva un empirismo che affinava l’astuzia. Oggi non occorre neppure pensare prima di scattare: il mezzo fa tutto, e pure di più.
Come ha concepito la galleria Wall Of Sound, mi riferisco anche alla possibilità di collaborazione con altri nomi internazionali...chi è oggi un fotografo da tenere d'occhio e chi secondo lei non ha raccolto la fama che meritava?
Terrei d’occhio Cristina Arrigoni, che sta portando una ventata di aria nuova nella fotografia musicale e non solo. Come Wall Of Sound abbiamo appena pubblicato il suo primo libro, The Sound of Hands. E recuperei assolutamente Art Kane, uno dei più grandi maestri della fotografia in assoluto, di cui abbiamo curato una bella mostra, Visionary, per la Galleria civica di Modena nel 2015 e di cui abbiamo appena pubblicato, sempre come Wall Of Sound, un libro dedicato alla sua iconica foto di 57 jazzisti su un portone di Harlem, di cui ricorre quest’anno il 60° Anniversario. Il libro si chiama Art Kane. Harlem 1958. Arrigoni e Kane sono animati dallo stesso vitalismo, dalla stessa smania di mordere la vita e fissarla in immagini. Wall Of Sound ha questa missione: valorizzare artisti storici della fotografia musicale e recuperare anche archivi dimenticati o inediti, utilizzando la galleria e la casa editrice come trampolini per progetti più grandi, museali, che rendano merito a un genere di fotografia che per troppo tempo è stata considerata di serie B e che invece ha segnato l’immaginario di più di un’epoca e di più di una generazione.