Con un artista come Paul McCartney è impossibile dichiarare chiusa la lista dei dischi fondamentali, basta che rimetta piede in studio ed ecco che salta fuori l’ennesimo capolavoro. Perché solo così si può definire Egypt Station, ultimo album di inediti del polistrumentista, cantante, autore, pittore, attore, produttore (e chi più ne ha più ne metta) di Liverpool.
Poco importa che soltanto la carriera post Beatles si stia approssimando ai 50 anni (in realtà, se vogliamo, il primo album solista è la splendida colonna sonora The Family Way datata 1967) e che avrebbe potuto vivere di diritti praticamente da subito: quando è l’arte a scorrere nelle vene, smettere di creare sarebbe rinnegare la propria natura.
Egypt Station è un’opera che da una parte torna a reclamare il supporto (cd o vinile va bene uguale) quale miglior “intermediario” per una maggiore godibilità e la comprensione dell’idea artistica globale (ogni elemento infatti “amplifica” le emozioni dell’ascolto, dalla grafica di copertina, un quadro dello stesso McCartney, alla concatenazione dei brani), un’operazione quindi molto “Sgt. Pepper” (pure il titolo “concretamente visionario”) e “anti-playlist”, e da un’altra chiama a raccolta produttori e autori di ultima generazione come Greg Kurstin (Lily Allen, Katy Perry, Foo Fighters) e Ryan Tedder (Adele, Taylor Swift, Ed Sheeran) per infiltrare il sound di “classifica corrente”, con un equilibrio comunque magistrale. Sono chiavi di accesso a un nuovo pubblico che però vanno lette in un contesto di sperimentazione e di curiosità verso il presente, aspetti dunque che da sempre accompagnano la penna di Macca. La netta sensazione poi è che siano le nuove sonorità a “chiedere permesso” e a porsi al cospetto di qualcosa di “sovrano” e senza tempo: per questo motivo tutto suona meravigliosamente. Ma prima ancora c’è l’ispirazione, la scintilla, il tocco inconfondibile e talmente naturale da risultare inimitabile di un “songwriting” che scorre come un flusso di emozioni e pensieri che si fanno note.
In Egypt Station c’è tutto il McCartney che vorreste trovare, unitamente a quello che stupisce per le invenzioni musicali e le incursioni in territori inesplorati, sempre però prendendo per mano l’ascoltatore, mai spiazzandolo. Ogni ballad è in sé perfetta, a cominciare da I Don’t Know, il cui riff di piano tocca l’anima e permette di scivolare in un testo di “autoanalisi” mai banale. Happy With You sembra invece, in modo originale, figlia della beatlesiana (seppure scritta ed eseguita totalmente da Paul) Blackbird e di quelle delicate canzoni su arpeggio di chitarra che profumano di folk e che negli anni duemila il musicista ha riportato in auge con Jenny Wren. Hand In Hand è dolce raccoglimento: splendide le armonie vocali, poetico l’assolo di flauto.
Confidante ha echi di country/rock and roll nello stile della Blue Moon Of Kentucky versione Elvis. People Want Peace e Do It Now sono delle “novelle Let It Be” (qui il pensiero è rivolto al padre Jim), con ritornelli che si imprimono all’istante nelle orecchie e nel cuore, ma azzeccatissimi suoni ed arrangiamenti di adesso. Come On To Me, Fuh You e Dominoes sono cavalli di razza che corrono le classifiche, Caesar Rock e Who Cares l’inclinazione al rock di marca Settanta trasportata nel presente, anzi nel futuro, così come le spettacolari Back In Brazil, Despite Repeated Warnings (pezzo contro la politica “ambientale” di Trump) e Hunt You Down/Naked/C-Link che dilatano le strutture verso la forma della suite à la Wings (Band On The Run, certo, ma anche Rockestra Theme), un progressive molto sui generis che oggi rompe completamente gli schemi e mostra dove la musica può andare.
Ed è ancora Paul McCartney a insegnarcelo.