Quella che stiamo vivendo, è una fase di transizione, ma così accelerata che abbiamo difficoltà non solo a gestirla, ma persino a comprenderla. Da qui il ‘caos’ che sembra avvolgere ogni cosa, ogni dove.
Questa transizione - epocale, come forse poche altre nella storia della nostra specie - ci sta velocemente portando da una società fortemente basata sulla materialità, quella industriale, ‘meccanica’, che ha segnato lo sviluppo umano per quasi tre secoli, a una in cui la profondità e la vastità dei nuovi paradigmi sfuggono in buona misura alla nostra attuale capacità di ‘organizzarli’ culturalmente.
Robotizzazione, intelligenza artificiale, big data, biotecnologie. Già solo in queste quattro parole, si racchiude un universo di cambiamenti radicali, che investono la sfera sociale e culturale, passando per quella emotiva e persino per la trasformazione del nostro corpo fisico. Una sfida, per l’umanità intera, che per di più si colloca in un contesto in cui, in virtù di quei tre secoli precedenti, di ciò che l’Uomo ha fatto e di ‘come’ lo ha fatto, il pianeta stesso è a rischio. L’equilibrio ecologico, ovvero le condizioni materiali in cui la vita è possibile, è stato così profondamente compromesso, da costringerci ad affrontare contemporaneamente anche questa sfida; non solo reimmaginare la vita nel mondo che verrà (che è già venuto), ma anche assicurarci che ci sia ancora un mondo (un pianeta) in cui viverla. “Per la prima volta nella storia l'apocalisse non è vincolata a una scelta scellerata, una guerra o una crisi. Arriverà, al contrario, se non facciamo niente”. 1
Questa transizione, almeno questo è evidente ad ognuno, richiede una lungimirante saggezza, per essere affrontata positivamente. Sarebbe necessaria un’alleanza proficua tra la Scienza e l’Umanesimo, per trovare le giuste soluzioni. Assistiamo invece a un divaricarsi tra il sentire comune e il pensiero scientifico, che è l’esatto opposto della saggezza necessaria. Ed è anche qui che emerge, fortissima, la crisi della Politica.
Politica, dal greco antico politikḗ ("che attiene alla pόlis", la città-stato), con sottinteso téchnē (‘arte’ o ‘tecnica’) e per estensione "arte che attiene alla città-stato", che oggi sembra avvitarsi su se stessa, incapace di esprimere visioni - anche diverse, anche confliggenti - sul come l’umanità debba affrontare questo ‘futuro-presente’, e invece sembra capace a malapena di esprimere le insicurezze e le paure dell’uomo comune, ‘torcendole’ a farne strumento di effimero potere. L’urgenza di affrontare queste sfide, invece, reclama una Politica alta, e con lo sguardo lungo. Anche quella politica che si concretizza come ‘buona amministrazione’ dell’esistente, non è oggi più sufficiente. Vola basso, ed è quindi inadeguata.
In particolare, l’esigenza d’una Politica alt(r)a emerge in tutta la sua importanza laddove le due sfide si incrociano. Lì dove la capacità di immaginare il futuro, e quella di garantirlo impedendo il collasso ambientale, diventano tutt’uno. Uno di questi ‘nodi’ - che sempre più spesso, e più drammaticamente, verranno al pettine - è la città di Taranto, con la sua escrescenza-monstre dell’ILVA, il maggior complesso industriale per la lavorazione dell'acciaio in Europa. Per decenni, e in particolare dopo la cessione ai privati, la città di Taranto ha vissuto sotto ricatto, dovendo scegliere tra l’occupazione (quindi la possibilità di assicurare una vita materialmente almeno dignitosa) e un inquinamento mortale (quindi la possibilità di una morte anticipata, anche se comunque differita) 2. Un ricatto da cui, anche da ultimo, non è riuscita a liberarsi, visto che il modello industrialista, che privilegia il lavoro rispetto alla salute, ha vinto ancora una volta.
Eppure altre scelte erano e sono possibili. E non semplicemente come astrazione teorica, ma come concreta e reale alternativa. Perché, semplicemente, è stato fatto altrove. Quello della riconversione, da un modello industriale a uno post-industriale, è un problema che si è posto già innumerevoli volte, sul finire del secolo scorso. E che ha riguardato molte città e aree geografiche, in Europa e Nord America. Più volte, anche qui, è stata citata la città basca di Bilbao, la cui riconversione dal modello produttivo-industriale a quello turistico-culturale, realizzata attraverso la costruzione dell’avveniristico museo Guggenheim, ha rappresentato per anni un caso-scuola. Forse meno noto è invece il caso della città tedesca di Essen.
Immersa nella regione carbonifera della Ruhr, investita dalla crisi già nella seconda metà del Novecento, Essen ha puntato su un processo di riconversione innanzitutto ambientale del territorio. Cuore di questo processo è stata la miniera di Zollverein, un magnifico edificio Bauhaus che si snoda su oltre cento ettari, sovrastando la città.
Tra il 1988 e il 1989 venne lanciato l’International Architecture Exhibition Emscher Park (IBA), un programma per il futuro dell’area nord della Ruhr, per gestire la crisi che stava affrontando a seguito della chiusura delle miniere e dei cambiamenti dell’economia internazionale. Tra gli obiettivi dell’IBA lo sviluppo economico attraverso progetti di pianificazione urbana, sociale, culturale ed ecologica. Nel 2001, l’intera Zollverein venne inclusa nella lista dei siti patrimonio dell’Unesco. E nello stesso anno, parte il processo di riqualificazione dell’edificio, guidato dagli architetti Rem Koolhaas e Heinrich Böll. Nel 2006 sorge la Zollverein School of Design, a partire dal 2010 cominciano a nascere i musei, e nel 2017 la Folkwang University of the Arts.
C’è il Ruhr Museum, nell’ex edificio per lo stoccaggio e la distribuzione del carbon fossile, che racconta la storia della Ruhr e del sito, fino a oggi. C’è il Red Dot Museum, il museo dedicato al design contemporaneo, e il bellissimo Pact Zollverein, un attivissimo centro delle arti performative, situato nell’edificio che ospitava le docce dei minatori. L’intera area è comunque disseminata di laboratori, negozi, ristoranti, una vera e propria factory creativa, che ha contribuito in maniera determinante al successo del 2010, anno in cui la Regione Ruhr fu Capitale Europea della Cultura, attirando 2,5 milioni di visitatori. Il successo della riconversione è stato così forte da dare nuovo impulso anche agli investimenti privati, per circa 190 milioni di euro nel solo biennio 2016/17.
Come la Ruhr, che ha deciso di puntare sull’ambiente e sulla cultura - e prima di ogni cosa sull’ambiente, oggi profondamente modificato, laddove i depositi di carbone sono diventati colline ricoperte di alberi e piante d’ogni specie - altrettanto si sarebbe potuto fare a Taranto, che oltretutto gode non solo di una straordinaria conformazione orografica e di una altrettanto straordinaria posizione geografica, affacciata com’è sul Mediterraneo, ma anche di una storia antichissima, quella della Magna Grecia. Purtroppo, ancora una volta ha vinto il ricatto lavoro o salute. Perché ancora una volta la politica - con la ‘p’ minuscola, stavolta - ha volato basso. Come gabbiani su una discarica.