Responsabile degli eventi culturali e dell’ufficio stampa di VIDAS (Volontari Italiani Domiciliari Assistenza Sofferenti), Raffaella Gay è membro del Centro Culturale Protestante della Tavola Valdese e del Comitato Scientifico della Fondazione Giancarlo Quarta.
"Sono una sognatrice inquieta, quindi i progetti grandi e piccoli quotidiani o di una vita sono quelli che mi tengono viva. Non sono molto capace di stare ferma e a volte sbatto la testa contro i giusti limiti del 'non puoi fare tutto', aspetto tipico delle donne, e quindi accolgo delusioni come insegnamenti, ci sto male ma credo che se non cadi non imparerai mai a rialzarti. Delusioni no forse un 'piccolo' rimpianto, quello di non essere riuscita a fare ricerca sul campo. Quando mi sono laureata in antropologia culturale il mio professore mi chiese di andare ad Ikondo (Tanzania) per un progetto di autosviluppo, ma ero incinta del mio primo figlio e ho scelto di non rischiare. Ovviamente non mi pento, perché ho una famiglia meravigliosa, due ragazzoni (di 24 e 17 anni) che sono i miei tesori più preziosi e un marito con il quale condivido valori, passioni e cultura. Queste sono le mie gioie.
In una società edonistica, come la nostra, dove la cura dell'altro è sempre più aleatoria, quali esperienze l'hanno spinta a dedicarsi all'incontro con la sofferenza?
Credo che molto abbia inciso la mia educazione. Ho vissuto fin da bambina l’impegno dei miei genitori, le loro battaglie politiche e sociali, sono cresciuta in un ambiente dove il confronto, l’attenzione verso chi è meno fortunato e il lavoro volontario erano e sono valori non discutibili. Ricordo estati trascorse nei centri valdesi e metodisti (Agape e Ecumene soprattutto): grandi lezioni di vita, grandi divertimenti, grandi amori (lì ho incontrato mio marito), ma anche tanto lavoro e impegno politico. Mi ritengo molto fortunata e ringrazio i miei genitori per tutte le opportunità che mi hanno offerto lasciandomi libera di scegliere ma assumendomi la responsabilità delle scelte.
Nella nostra cultura, c'è una profonda rimozione della sofferenza e della morte, a quali fattori attribuisce questo atteggiamento sempre più diffuso?
Purtroppo la società del benessere corre questi rischi se non c’è la volontà culturale ed educativa di contrastare i modelli individualisti, di culto del corpo e della bellezza esteriore, del qui subito e tutto, dell’egoismo, del primato dell’essere produttivo. Gli anni Ottanta (ma anche gli ultimi 20 anni) in Italia sono stati in questo senso devastanti portatori di questo tipo di valori che necessariamente rifiutano la sofferenza, la fragilità la malattia e vedono la morte come sconfitta e non come parte naturale della vita. Giovanna Cavazzoni, fondatrice di Vidas, diceva spesso che non esiste più il limite, inteso in senso molto ampio, che riguarda gli stili di vita ( per esempio il consumismo sfrenato, oltre le proprie possibilità), ma anche una filosofia di vita che ci vede percorrere un cammino che finirà necessariamente e per tutti. Riconoscere “quel limite” ci fa essere consapevoli della nostra impermanenza ed è un dono bellissimo che ti fa vivere meglio, con lo sguardo rivolto verso l’altro e non verso te stesso.
Uno degli obiettivi della Fondazione Giancarlo Quarta, di cui è membro del comitato scientifico, è la cura del "Corpo Biografico" dei sofferenti ...
Sì, Fondazione Giancarlo Quarta è nata dall’esperienza vissuta personalmente dalla sua fondatrice Lucia Giudetti (cara amica di Giovanna Cavazzoni) a seguito della malattia e della morte del marito. Un percorso di sofferenza reso ancor più difficile dall’incapacità di relazione e comunicazione dei medici, attenti a curare un corpo, uno dei tanti, ma incapaci di riconoscere in quel corpo una persona con la sua storia di vita. Per questo oggi la fondazione fa un grande lavoro di ricerca e sensibilizzazione sul tema della delicata e spesso difficile relazione tra medici e pazienti, una relazione che deve partire dal rispetto per la persona, che non preveda ruoli gerarchici, che utilizzi parole comprensibili, parole di vicinanza e prossimità. Lavorando da tanti anni in Vidas, ovviamente non posso che condividere e sostenere questi obiettivi e per questo sono molto fiera di far parte del Comitato Scientifico.
È impegnata in un progetto di alternanza scuola-lavoro, ce ne può sintetizzare gli strumenti e le finalità?
È un progetto nato nel 2015 (anno di approvazione della legge sulla Buona Scuola), ma non per caso, già da anni Vidas interveniva nelle scuole con percorsi di sensibilizzazione (la seconda finalità statutaria). Quello che cerchiamo di trasmettere alle ragazze e ai ragazzi durante il loro percorso di alternanza è da una parte l’organizzazione e il funzionamento di una realtà non profit complessa come quella di Vidas, dalla struttura organizzativa alla raccolta fondi finalizzata al servizio; dall’altra l’operatività e il grande lavoro di équipe che sta intorno all’assistenza al paziente a casa e in hospice. È un lavoro impegnativo che coinvolge molti operatori e soprattutto volontari, tutor meravigliosi degli studenti, che in questi anni ci ha dato delle soddisfazioni meravigliose. Diciamo sempre che riceviamo dai ragazzi molto più di quello che diamo. La loro capacità di riconoscere la sofferenza, la loro voglia di essere protagonisti nell’aiuto al paziente (entrano nelle camere, servono i pasti, chiacchierano con i parenti e altro ancora), la loro delicatezza e il rispetto verso chi lavora ci dicono che se stimolati e responsabilizzati i giovani riescono ad esprimere e dare moltissimo… insomma sono la nostra vera speranza per un futuro migliore.
Svolge gran parte della sua attività in VIDAS e fondamentale per la sua scelta è stato l'incontro con Giovanna Cavazzoni ...
Sì, il mio lavoro, ormai da quasi vent’anni è in Vidas, una realtà straordinaria che coniuga i valori del volontariato con quelli della competenza professionale. Ho avuto l’onore di lavorare accanto a Giovanna per 18 anni ed è stato un grande insegnamento professionale e di vita. Era una donna incredibile che univa una generosità straordinaria a una determinazione instancabile. Dolcissima, ma anche dura, conservatrice, ma anche rivoluzionaria. Era un’avventura sempre nuova lavorare con lei, condividere idee ma anche scontrarsi per posizioni diverse. Ci capitava anche di litigare nel vero senso della parola, ma lei amava anche il conflitto se costruttivo, le dava nuove energie. Ora mi manca, ci manca molto ma credo sia fiera del nostro lavoro e della realizzazione del suo ultimo progetto Casa Sollievo Bimbi, l’hospice pediatrico per le cure a bambini e ragazzi.
La Chiesa Valdese, di cui è membro attivo anche nelle attività culturali, è sempre in prima fila nell'affrontare le problematiche della società contemporanea ...
Sì, la Chiesa Valdese ha sempre coniugato lo studio e l’approfondimento della parola con l’impegno culturale e l’intervento sociale. La scelta, per esempio, di destinare l’otto per mille interamente ad associazioni che lavorano in Italia e all’estero su progetti sociali credo sia un gesto di grande responsabilità civile; ancora i corridoi umanitari, il riconoscimento della benedizione per le coppie omosessuali, la riflessione etica sulle scelte di fine vita, le campagne contro la violenza delle donne, per la difesa dei loro diritti e di quelle delle persone straniere. Sono solo alcuni esempi di una Chiesa che non chiude le porte, che non vive nei dogmi, ma si mette in discussione, si confronta, si interroga. È la testimonianza dei valori della Riforma che si rifanno alla responsabilità, al rispetto di ogni essere umano, alla centralità della Parola, alla giustizia. Valori che mi sembra, più che mai oggi, si siano persi.
Milano ha una lunga e importante tradizione di impegno sociale e generosa accoglienza: cos’è rimasto di questo spirito?
Credo che Milano sia, in questi tempi bui avvolti nella paura e nell’egoismo, un meraviglioso esempio di civiltà, azzardo a dire forse l’unico. È la capitale del volontariato, dell’accoglienza e ancora della generosità. Lo vivo in Vidas e nella grande comunità che si è raccolta intorno al nostro ultimo progetto di Casa Sollievo Bimbi, ma non solo. È ancora vivo il sentimento di restituire un po’ della propria fortuna, di guardare a chi soffre, di rimboccarsi le maniche e lavorare sul territorio. È una città viva, dinamica che sa mettere insieme istituzioni e privato sociale. Sarebbe un bel modello da prendere ad esempio a livello nazionale.
Quali sono gli ambienti, i luoghi della città che possono stimolare il raccoglimento e il senso di appartenenza a una comunità?
Penso che la cultura sia il vero strumento che crea aggregazione e appartenenza e a Milano l’offerta è veramente straordinaria. La grande sfida è portarla anche al di fuori dei luoghi istituzionali, diffondendola sia in spazi alternativi (penso alle iniziative nei cortili piuttosto che nelle case private o nei centri sociali) sia nelle periferie e mi sembra che su questo l’amministrazione, ma non solo, stia lavorando molto bene grazie anche a collaborazioni con realtà che già lavorano sul territorio.