Paolo Preite è un cantautore di Roma. Autodidatta, inizia a comporre sin da giovanissimo e il suo talento è stato riconosciuto da artisti di livello nazionale e internazionale. La sua musica, prevalentemente in acustico, si presenta come una commistione di influenze, generi e colori.
Classe 1985, debutti trentenne – dopo una lunga e appassionata esperienza in Italia e fuori – con Don't Stop Dreaming. Tre anni dopo arriva An Eye On The World. Quali sono le differenze tra questi due album?
Lavorare su Don’t Stop Dreaming per me è stata un’esperienza decisiva… come allenarsi in una grande palestra. Ho passato anni a stretto contatto con il mio produttore Fernando Saunders che mi ha guidato in ogni passo artistico. In An Eye On The World invece ho preso io la guida e la responsabilità del progetto e ho cercato di mettere in pratica tutto ciò che mi era stato insegnato nella precedente esperienza di registrazione.
An Eye On The World mostra una maturazione nell'uso della lingua inglese, nelle sonorità internazionali, anche grazie alla presenza di un nome come Fernando Saunders.
Di sicuro, la mia formazione di cantante, autore e musicista la devo quasi nella totalità a Fernando. Per quanto riguarda il Sound, devo ammettere che amo la mescolanza di suoni che si ascoltano nei miei dischi, ne escono fuori contrasti e colori stupendi. Ho sempre visto la “lingua” come un mezzo. Nel mio caso, ho dedicato buona parte della mia esistenza nello studio profondo della lingua inglese e mi trovo tanto a mio agio ad esprimermi attraverso di essa. Anche se devo confidarvi che in questo nuovo album una delle mie canzoni preferite è in italiano e si intitola Una Piccola Differenza.
Di questo tuo secondo disco balza subito all'occhio – e all'orecchio… - la partecipazione di grandi musicisti stranieri, dall'ormai fido Saunders a un gigante come Kenny Aronoff, da Michael Jerome a Bob Malone. Qual è il senso della loro presenza?
Il senso della loro presenza è semplice: hanno un modo di suonare unico che trasmette ai miei brani un valore aggiunto straordinario. Il “solo” di violoncello di Jane Scarpantoni in Memories and Dust è qualcosa che mi fa vibrare ogni volta che lo ascolto. Gli arrangiamenti di tastiere di OndreJ Pivec in It’s not over yet sono spettacolari. La batteria e le percussioni di Michael Jerome su I will meet you again mi hanno consentito di aprire un mondo inesplorato per quanto riguarda la produzione di questo brano. E potrei continuare a oltranza… sono dettagli che impreziosiscono molto questo mio disco.
Dai tempi della PFM in America fino a Zucchero, ma spesso il rapporto non è alla pari. Che tipo di relazione sei riuscito a mettere in piedi con Saunders e gli altri?
Specialmente con Kenny e Fernando c’è molto più di un rapporto professionale come accennavo in precedenza. La loro sincera “Amicizia” mi ha consentito di crescere sia come “Cantautore” che come “Persona”. Anche con il resto degli altri musicisti c’è una grande e reciproca stima, tutto questo enorme lavoro è stato portato avanti con davvero tanta naturalezza ed entusiasmo.
Quanto è stato importante il tour in Danimarca de 2014 per la tua scrittura? Il contatto con l'estero credo sia sempre illuminante, soprattutto per un musicista italiano.
Viaggiare, suonare e conoscere altre culture è ciò che, per quanto mi riguarda, mi tiene vivo. Se non lo facessi, non avrei più nulla da dire. Tempo fa domandai a un mio caro amico e poeta di NY quale fosse il segreto della scrittura di Leonard Cohen e lui mi rispose molto placidamente “Vivere”. Per “Scrivere” bisogna “Vivere” …
La tua Roma invece? Città praticamente decisiva come fonte di ispirazione per tanti maestri e colleghi, lo è anche per te?
Roma mi ha dato la possibilità di conoscere musicisti grandiosi che sono stati fondamentali per la lavorazione di An Eye On The World oltre che per la mia attività live. Ringraziandoli di cuore posso senza dubbi asserire che senza Marco Rovinelli, Alessandro Cefalì, Alberto Lombardi e Luca Fiasco in particolare questo album non avrebbe mai visto la luce.
I testi di An Eye On The World: esiste un tema conduttore oppure ogni brano ha una vita a sé?
Certamente c’è un filo conduttore. È un ambizioso progetto di riflessione, discussione e sintesi. Le canzoni trattano di precarietà, di relazioni umane distrutte dalla parte malvagia della globalizzazione, di una informazione impazzita, di guerre e allo stesso tempo cercano di riportare l’attenzione su una umanità a tratti smarrita, sulla speranza e su uno spirito di reazione e rivalsa.
Tecnicamente, essendo tu autore di musica e parole, dovresti essere un cantautore, ma la matrice dell'album è palesemente rock e americana. Da che parte pensi di stare?
Non sono d’accordo. Le canzoni partono da me, dal mio sound e dalla personalità che trasmetto nella mia voce e nel mio strumento, tutto parte da lì e sfocia poi in sfumature che vanno dal soul, al rock, dal cantautorato classico al jazz. Nel disco hanno suonato musicisti italiani, danesi, americani, slovacchi, cechi, serbi e ognuno di loro ha portato il proprio background nella mia musica. Tutto ciò mi affascina tremendamente.
Dopo anni di attività, concerti e un secondo album con special guest, non sarebbe più il caso di chiederlo, ma se volessimo rispolverare la memoria a chi ti conosce, o se volessimo offrire dei riferimenti ai neofiti, quali sono i miti, i numi tutelari, i grandi ispiratori di Paolo Preite?
Posso citare forse i primi che mi vengono in mente: Leonard Cohen, Roger Waters, Bruce Springsteen, Gregory Porter, Bob Dylan, Lucio Battisti, Queen, The Who, Warren Zevon, Beatles, The Rolling Stones e potrei continuare per ore e ore.
Cosa ti aspetti da An Eye On The World?
Sicuramente penso che questo sia un album di spessore e non di facile ascolto. Se si ha la pazienza e si trova la giusta chiave di lettura credo e mi aspetto che molte persone potranno identificarsi in queste canzoni.