Orgogliosamente monoglotti, i Greci riconobbero sempre nel fattore linguistico una componente identitaria irrinunciabile, un indicatore primario di appartenenza che li opponeva in maniera molto netta a chiunque non si esprimesse nel loro splendido perfetto idioma; utilizzato per molto tempo alla stregua di qualificativo di parole come phone (“voce”, “suono”) e glossa (“lingua”, appunto), il termine barbaros (letteralmente “balbuziente”, “balbettante”) era stato, infatti, da loro coniato a partire da una non meglio definita forma bar-bar che altro non era se non la resa onomatopeica degli sconnessi e incomprensibili fonemi nei quali si esprimevano le innumerevoli popolazioni distribuite sul vasto territorio del continente euro-afro-asiatico.
Nemmeno l'epica, seppure intrinsecamente votata a cantare e a celebrare eventi collocabili in un passato indefinitamente remoto e idealizzato, era stata risparmiata dal subire l'influsso di un sentire tanto profondamente radicato; e così Omero aveva fatto della chiassosa scompostezza delle loro molteplici parlate un tratto fortemente distintivo delle schiere alleate dei Troiani, del tutto differenti dalle truppe guidate da Agamennone caratterizzate al contrario dalla coerente omogeneità del loro disciplinato contegno (Iliade, II 804; IV 437-438). Un caso isolato, certo, ma forse per questo ancora più significativo all'interno di un'opera che quasi non porta traccia né di barbaros né dei suoi composti, (eccezion fatta per la presenza di un barbarophonoi – Iliade, II 867 – attribuito ai Cari di Asia Minore e sovrapponibile all'agriofonoi che nell'Odissea – VIII 294 – descrive i Sinti di Lemno); un'opera dalla quale è di fatto ancora assente la nozione stessa di “grecità” e il nome “Elleni” è riservato ai soli compagni di Achille, mentre i molteplici gruppi di guerrieri partiti alla volta di Troia nel complesso vengono alternativamente citati come “Achei” o “Danai” oppure “Argivi”; un'opera, infine, nei cui versi è Ettore a emergere quale paradigma di devozione verso la propria patria ed è la figura di Priamo a possedere i requisiti del perfetto sovrano illuminato, campioni entrambi di un popolo non-greco che pure con quello greco condivide il pantheon e i culti, le abitudini alimentari e il modo di vestire, i principi morali.
Furono i successivi sviluppi storici ad amplificare la consapevolezza tutta ellenica di una superiorità detenuta quasi per diritto naturale, consapevolezza che aveva iniziato a manifestarsi già nel corso delle colonizzazioni di VIII-VII secolo a.C. (a tal proposito Mauro Moggi ricorda come la prima colonia fondata in Occidente fosse stata denominata Pithekoussai, letteralmente “isola delle scimmie”, con probabile e sprezzante riferimento alle popolazioni indigene) e che col tempo finì per convertire la stessa voce barbaros in un marchio fortemente discriminatorio ben al di là dell'ambito esclusivamente geografico.
“Barbari” divennero, perciò, i Persiani dell'omonima tragedia che Eschilo nel 472 a.C. dedicò all'evento bellico simbolo del definitivo consolidarsi di una visione rigidamente ellenocentrica del mondo, emblema della giusta vittoria di un popolo votato alla strenua difesa della propria libertà sul dispotismo di una monarchia indissolubilmente legata all'antico diritto dinastico (per quanto di Europa e di Asia egli ancora parlasse come di “sorelle di sangue, della stessa stirpe”, vv. 185-186), mentre nel 458 a.C., in un'epoca che aveva imparato a guardare alla guerra tra Greci e Troiani come all'archetipo dello scontro necessario tra Occidente e Oriente, “barbaro” risultò agli occhi della regina Clitemnestra l'ostinato mutismo di Cassandra, interpretato quale indice di una totale incapacità di espressione, ormai irreparabilmente decaduta a inconfutabile stigma di un'assoluta inferiorità di razza (Agamennone, v. 1051; v. 1061). “Barbari”, oltre ai Persiani, furono per Erodoto anche Babilonesi, Egizi, Spartani e tutti coloro che non condividevano la modernità del miracolo democratico incarnato innanzitutto da Atene, a dimostrazione di come – allora come ora – fossero gli antagonismi politici a esasperare le differenze etnico-culturali tra i popoli e a trasformarle poi negli indispensabili giustificativi di altrettanti conflitti, a conferma dell'origine del tutto culturale (e, dunque, artificiale non meno che arbitraria) della categoria antropologica della “barbarie”. “Essere barbaro”, nella codificazione paradigmatica che ne fornì Aristotele, finì addirittura per rimandare ad una condizione di schiavitù e di sottomissione data dalla natura stessa, ad una modalità sociobiologica di esistenza sovrapponibile all'animalità, nei cui confronti la guerra doveva assumere quasi i connotati di una caccia (Politica, I 2 1252b).
Tutto questo nel contesto di una società da sempre fortemente permeata di quella logica del dono e della reciprocità, che in seguito alla comparsa degli Indoeuropei si era infiltrata nell'immaginario di ogni civiltà via via formatasi intorno al Mediterraneo, tanto da aver rappresentato un vero e proprio linguaggio da tutte condiviso, un codice di norme non scritte cui ciascuna si sentiva chiamata ad attenersi. Una società nella quale fin dalla tarda età del Bronzo solidi vincoli di xenia (vale a dire di “ospitalità istituzionalizzata”) avevano legato tra loro i membri delle prestigiose famiglie aristocratiche costituendo l'ossatura stessa del tessuto sociale, avevano poi continuato a operare nelle dinamiche di relazione tra singoli sovrani e tiranni in quella fase di passaggio che traghettò alla piena affermazione della polis, per poi tradursi in una serie di pratiche diplomatiche (trattati di pace, alleanze, contratti) indispensabili alla gestione dei rapporti tra intere comunità cittadine. Una società che non aveva rinunciato a intrecciare legami di xenia neppure con quegli stranieri non-greci assimilati dalla retorica e dalla propaganda a una generica Alterità aberrante e mostruosa, portatrice di ogni negatività, priva dei più elementari requisiti umani, e che al contrario persino con i Persiani, i “barbari” per antonomasia, stringeva patti di collaborazione e stipulava negoziati di mutuo interesse.
Incongruenze e criticità pienamente ereditate dai Romani che si erano costituiti come popolo grazie alla loro capacità di abbracciare la straordinaria varietà etnica delle sue componenti originarie, integrandola nell'unità di una comunità civica (civitas) che aveva ben presto travalicato i confini di una circoscritta entità urbanistica (urbs), e che continuarono a promuovere concrete politiche di assimilazione anche con il progressivo espandersi del loro dominio; ma che mai rinnegarono il contributo insostituibile che all'identità dell'autentico civis romano dava il fatto di esprimersi nel sermo purus dei padri, a confronto del quale ogni altro idioma (a esclusione del greco) non poteva che suonare barbarus. Da un'idea di estraneità linguistica a quella di un'estraneità culturale, dunque, il salto fu breve anche a Roma e così “barbaro”, divenuto rapidamente sinonimo di brutale ferocia e d'incontenibile bellicosità, finì per essere attribuito a tutti i popoli militarmente pericolosi che premevano ai confini dell'impero (fossero essi di stirpe germanica o gallica, nordafricana, asiatica).
Sono passati secoli e nell'immaginario (oltre che nel linguaggio) comune lo “straniero”, troppo spesso misconosciuto nella sua variegata specificità e spersonalizzato dentro una massa del tutto anonima e indifferenziata, tende ancora a essere marginalizzato sulla base di ciò che non ha o in relazione a ciò che non è; e mentre la storia recente ci urla indignata i propri moniti, le capziose strategie di una politica pericolosamente affine a una diabolica demagogia continuano indisturbate a cavalcare l'onda della paura, rendendo sempre più difficile guardare al mondo e a chi, oltre a noi, lo abita, se non attraverso le lenti di un dilagante etnocentrismo.
Anche questo, purtroppo, abbiamo imparato dagli antichi!