Zip, fette di pancarré sgusciano da un tombino, tostapane urbano sotto un marciapiede romano. Fette dorate per una colazione in città con spolverata di smog e polvere d’asfalto, mentre sul tetto d’un albergo un manichino con felpa e cappuccio pesca passanti usando per esca una delle cinque stelle dell’insegna. Un pescatore di passanti sul tetto di un hotel con le gambe ciondolanti sul tran tran.
Un fiore, vi posso offrire un fiore? Bello e profumato? Un garofano? Una rosellina arancio ambra? Da un muro di Tor Pignattara un braccio offre, gentile, fiori ai passanti, mentre a San Lorenzo un uomo incappucciato riposa su un’amaca di nastro arancione da cantiere attaccata a un palo del parchimetro e a uno della luce fra auto parcheggiate davanti a un locale di Texas Hold’em e slot machine con le vetrine tutte roulette, carte da gioco e monete giganti.
Niente amache, invece, a Winston-Salem, nella Carolina del Nord, dove per strada si dorme fra lenzuola bianche, le scarpe sull’asfalto, su un letto in legno scuro parcheggiato accanto a un parchimetro fra un’auto e un camion delle consegne. Si dorme sull’asfalto, a Winston-Salem, ma anche sul bordo di pannelli pubblicitari arrugginiti di vecchi manifesti strappati o in piedi dentro un sacco a pelo sul marciapiede di una stazione dei bus.
E dentro una casupola, a Bordeaux, una cuccia con il comignolo, una radio da street dance, un peluche e un carrello per la spesa. Tutto in rosa shocking su un pavimento di mattoni rossi, il peluche, la cuccia, il carrello, la radio, il comignolo. Si dorme dentro le cucce a Bordeaux e si pattina sul ghiaccio di un finto laghetto ai piedi di una chiesa volando sulle lame accanto a una figura inerme con jeans, giubbino celeste, capelli biondi, guanti rossi e berretto di lana con pon pon.
A Malmö un peluche rosa guarda, invece, un corso d’acqua dove un manichino galleggia testa in giù con alcuni palloncini colorati attaccati alla schiena e i palombari dei pompieri tutt’intorno. Un morto? Come il writer di Malmö sul marciapiede con una bomboletta spray rosso sangue in mano e un coltello conficcato nella schiena, come il palo sulla donna bionda di un marciapiede di Belgrado.
Angoscia a Malmö, a Belgrado e a Dublino, dove in una strada di palazzi rossi e neri un uomo incappucciato abbarbicato a una ringhiera guarda nel vuoto con le auto che passano appestando di fumo una scena cupa dove la visuale capovolta aumenta il senso di vertigine. Tutto è in bilico, a Dublino, come il manichino donna con parrucca bionda che fa step sul cornicione di un palazzo di un quartiere elegante.
Sono cupe, le strade di Dublino, come quelle di Londra. Strade di manichini senza testa o ancora attaccati a muri di mattone di palazzi con i vetri rotti o che annusano odori nauseabondi con la testa infilata fra alcuni cassonetti sotto un vecchio edificio di Brick Lane, mentre a Mosca le canalette per l’acqua diventano gambe metalliche di piedi ricoperti di calzini che sfiorano i marciapiedi.
Canalette con i piedi, manichini che s’arrampicano sui palazzi, che sostano davanti alle vetrine o che, senza testa, dondolano nel vuoto su fili di città con grucce per abiti. E ancora, creature dal tronco di sacchi neri di spazzatura o dal corpo di rifiuti riversi su marciapiedi, accanto a cassonetti o fra le erbacce e il sudiciume di un cavalcavia o con le gambe che penzolano da cassonetti squassati adagiati su sampietrini di rigagnoli maleodoranti.
Si vive fra immondizie. E si prega. Come a Rio de Janeiro, dove in un quartiere di architetture in stile coloniale un manichino vestito di nero s’appoggia con un cono segnaletico che gli fa da copricapo contro un muro. Dici Rio de Janeiro e ti senti per le strade di Gerusalemme o davanti al Muro del Pianto, con il cono strappato dall’asfalto che diventa il cappello nero a tesa larga del maschio ebreo.
E ancora animali, giocattoli, oggetti, così come i manichini, di pellicola e nastro da imballaggio, uomini di carta di giornale, cartelli stradali adorni di foglioline, collage fantasiosi, creature di pelo irsuto che sembrano essere uscite da un museo di scienze naturali.
Tutto questo è Mark Jenkins, urban artist americano, nato nel 1970 in Virginia, autodidatta, tributo allo spagnolo Juan Muñoz e alla sua retrospettiva del 2002 allo Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington, le prime sperimentazioni nel 2003 a Rio de Janeiro modellando il nastro d’imballaggio che nelle sue mani diventa materia per creare e sorprendere. E il trasferimento nel 2004 a Washington, la collaborazione con Sandra Fernandez con la creazione di bambole, cani, giraffe, alberi, anatre di nastro e pellicola, con le creature che nel 2006 si ricoprono di giornali e cemento e che vestite vengono proiettate sulla scena delle città in un gioco di teatralità urbana dove i passanti da spettatori diventano i protagonisti di una performance cittadina con lampioni, cassonetti, tetti, edifici, fili sospesi nel vuoto che fanno da piedistallo alle sculture di questo artista americano che con la sua urban art cerca la spettacolarizzazione, facendo, in particolare della sua tape sculture, una filosofia artistica, con la città che diventa il luogo di un esperimento sociologico, dove la quotidianità è disturbata dall’irrompere dell’enigmatico, del bizzarro, dell’insolito, del surreale e dove l’artista, al di qua della scena, osserva le reazioni di chi vede deviare da sé il binario dell’ordinario.