Tra le numerose pratiche ascetiche fiorite in Estremo Oriente nel corso del tempo ve ne è una, particolarmente austera e al contempo affascinante, che ritroviamo in Giappone a partire dall’epoca Heian (794-1185 d.C.) e che prevede l’automummificazione degli anacoreti: numerosi sono gli esempi, soprattutto all’interno della tradizione religiosa dello Shugendō, di coloro che scelsero questo singolare cammino come via per ottenere la buddhità.
“Shugendō” significa letteralmente “via per padroneggiare poteri magici straordinari” ed è una religione, ancora oggi esistente, che mescola nel simbolismo e nella dottrina concetti buddhisti, taoisti e influssi autoctoni riconducibili allo shintoismo. Tale tradizione non fu mai unificata su base nazionale da un solo insegnamento ma fu contrassegnata da numerose varianti locali che ebbero quali punti in comune i centri di culto sulle montagne, l’organizzazione ecclesiastica, una serie di insegnamenti e dottrine secondo cui attraverso la pratica e l’addestramento religioso sui monti è possibile acquisire poteri magici particolari e, in alcuni casi, la messa in atto del processo di automummificazione da parte degli asceti.
Coloro che scelsero questo singolare e rigoroso cammino come via all’illuminazione sono chiamati “yamabushi” cioè “coloro che dormono (bushi) sulle montagne (yama)” o “miira”, termine che deriva dal portoghese “mirra” e che fu coniato dai giapponesi quando conobbero l'utilizzo della mirra quale componente essenziale nelle pratiche di mummificazione dell’antico Egitto. Purtroppo molte informazioni riguardanti la pratica dell’automummificazione sono da sempre inaccessibili agli studiosi a causa della reticenza dimostrata dagli asceti nei confronti dell’uso della parola: imponendosi di essere simili ai morti o alle pietre, gli yamabushi preferirono il silenzio alla scrittura tramandando oralmente e in gran segreto di maestro in discepolo i saperi, i simboli, i riti, le tecniche riguardanti questa pratica. E’ noto che l’esperienza ascetica del futuro miira dal corpo incorrotto presupponga che l’anacoreta trascorra almeno cinque anni nelle grotte di una delle montagne che la tradizione definisce “sacre” alternando meditazioni, purificazioni con l’acqua, percorsi particolari e austere pratiche ascetiche, quali ad esempio la pratica del nanbanibushi che prevede l’inalazione dei fumi di un peperone rosso e il cammino sui carboni ardenti o la pratica della pesatura del karman, ovvero delle cattive azioni, la quale presuppone che lo yamabushi venga appeso a una corda, calato a testa in giù da un precipizio e, in questa posizione precaria, confessi i propri peccati.
L’asceta trovandosi in queste situazioni estreme non penserebbe a soldi, sesso, cibo o altro e forse, per almeno un secondo, non penserebbe a nulla. La sua mente si verrebbe così a trovare nel mondo della vacuità: è questo lo stato mentale che deve essere coltivato, uno degli obiettivi principali che devono essere raggiunti affinché egli possa divenire un Buddha dal corpo immortale. Un’altra pratica rituale comunemente celebrata dagli adepti dello Shugendō è il rito del fuoco, saitōgama, una cerimonia notturna che associa il raggiungimento dello stato vitale della buddhità con l’idea di ottenere poteri concreti, quali la possibilità di celebrare i riti per i laici, attraverso l’associazione rituale con le montagne.
La pratica ascetica del futuro miira comprende anche il rifiuto sempre più intransigente del cibo che porta l’anacoreta a nutrirsi solo di aghi, resine di pino, radici di erbe, pinoli: il fine è quello di abituare gradualmente il corpo all’imposizione del danijiki, il completo digiuno. Anche la pratica denominata taixi, ovvero il controllo del respiro fino alla sua ritenzione totale, fa parte del rigoroso percorso religioso cui gli yamabushi si sottopongono, il quale prevede inoltre la ritenzione del seme, l’imposizione del silenzio, il trascorrere lunghi periodi nelle grotte senza vedere la luce del sole, le estenuanti veglie di preghiera che sostituiscono il sonno, l’auto-costrizione a guardare nel vuoto cercando di sopprimere le sensazioni di vertigine o di paura.
Secondo la tradizione la messa in atto di queste pratiche condurrebbe l’asceta verso il graduale raggiungimento di una totale indipendenza dai normali bisogni fisiologici basilari e lo renderebbe psicologicamente libero, autonomo dalle illusioni e dalle forme esterne del mondo. Questo graduale cammino nella morte contribuirebbe dunque a purificare l’essere dell’anacoreta rendendo più profonda la sua visione interiore. Si tratta inoltre di tecniche che, dal punto di vista pratico, preparano il corpo all’essiccazione naturale: esse devono essere seguite rigidamente pena l’innescarsi del processo di decomposizione. Alla fine del percorso l’anacoreta è un uomo nuovo, che ha affrontato i demoni e la paura della morte e la cui mente è libera. Egli è finalmente pronto per l’atto finale di questa forma estrema di ascesi: la sepoltura, ancora vivo e in posizione di meditazione, all’interno di una piccola cassa di legno.
Trascorsi tre anni, un lungo periodo di tempo in cui la bara non viene aperta e non si compiono riti o cerimonie, i credenti e i monaci si recano sul luogo di sepoltura per dissotterrare la cassa. A questo punto gli scenari che si possono configurare sono due: il corpo dell’asceta non ha resistito all’azione del tempo oppure è rimasto incorrotto. Nel primo caso vengono immediatamente celebrati i riti di sepoltura e il corpo cremato affinché l’anima del defunto, che si crede sia carica di potere malvagio, trovi pace. Nel secondo, la perfezione della carne sancisce la santità dell’asceta: ricoperto di foglie d’oro, verniciato, affumicato o laccato, l’anacoreta viene esposto su un altare pronto per essere venerato. Egli è divenuto uno sokushinbutsu, ovvero un Buddha nel proprio corpo di carne che, ritengono i credenti, un giorno si risveglierà dalla meditazione per predicare la buona Legge e aiutare gli uomini a incamminarsi verso l’illuminazione.